23 Maggio 2010
Caro diario,

sono più di 8 anni che non ci vediamo.
Ti sei fatto pieno di polvere, sgualcito, dimenticato.
In realtà, nonostante sia passato tutto questo tempo, sei stato spesso nei miei pensieri e, se devo dirti la verità più profonda, mi è mancato confidarti le mie impressioni sul gioco del calcio.
Mi è mancato fantasticare su quale numero di maglia avrei indossato quando sarei diventato un calciatore straordinario e su quali titoli avrei innalzato al cielo.
Mi mancava essere ingenuo e innocente come solo con un libro segreto si può fare. Ma, so che mi comprenderai, da quel giorno, per me, il calcio non è stato più lo stesso.

Non ti scrivo esattamente dal 4 maggio 2002.
Ricordo bene.
Era un sabato, un giorno prima del mio compleanno.
Ero un ragazzino sognatore, che amava già a quell’età tutto ciò che era legato a quell’oggetto sferico che scorre sui prati e che rappresentava il trampolino di alcuni dei miei desideri più grandi.
E quel giorno, quel sabato di più di otto anni fa, ti scrissi andando a letto con una speranza inseguita per tutta la mia infanzia: vedere finalmente quel dannato tricolore sulla mia adorata maglia nerazzurra.

Tu mi conosci, sai quanto ci tenevo, sai quanto per me contava.
Era così forte quel desiderio che chiesi di festeggiare il mio compleanno, che cade il 5 maggio, la domenica successiva, perché non volevo distrazioni: avevo solamente voglia di ascoltare la partita rigorosamente alla radio e attendere la fine della sfida per poter finalmente sbandierare anche io il mio vessillo, gioire per strada per un titolo che non avevo mai avuto l’occasione di assaporare con piacere.

La vigilia fu una notte insonne: non riuscivo a pensare a niente se non, come al solito, a fantasticare su chi avrebbe segnato la rete decisiva riportando lo Scudetto sulla sponda interista del Naviglio dopo 13 anni.
Sarebbe stato l’ennesimo gol del mio idolo, Vieri, che con la sua maglia numero 32 ci aveva trascinato per tutta la stagione, a certificare la vittoria? Sarebbe stato Ronaldo, dopo anni tormentati, a mettere la firma sul trionfo tanto atteso?
Nella mia testa da piccolo ingenuo mi sarebbe piaciuto vedere uno dei miei eroi siglare il goal della liberazione ma, col senno del poi, mi sarei fatto andare bene chiunque.
Mi svegliai agitato, ero completamente immerso in quella sensazione di euforia che ti attanaglia quando sai che di lì a poco la storia avrebbe fatto il suo corso.

Tu sai bene che io sono sempre stato appassionato di numeri e statistiche e, quel giorno, avrei voluto aggiornare l’albo d’oro, che mi ero scritto su un quaderno a modo mio, con i colori della mia squadra del cuore.
Pranzai velocemente, prestai poca attenzione alle chiacchiere domenicali e al cibo.
Erano da poco le 14 e, con sessanta minuti di anticipo, presi la mia radio e mi chiusi in stanza.
Volevo stare per quelle ore interminabili solo con me stesso.
Volevo godermi quella ambita lotta tutta per me, pregustando il momento del fischio finale e vedendomi già con cappello e bandiera scendere giù per le strade a intonare cori di giubilo.

Dalla voce della radiocronaca udii di un Olimpico completamente a tinte neroazzurre: sembrava una festa annunciata.
Eppure, la diretta concorrente, la Juventus, andò subito in vantaggio.
La cosa non mi stupì: avevamo bisogno della vittoria, lo sapevo dal principio.
E mentre era in corso la cronaca di Torino-Roma, ecco la voce inconfondibile di Riccardo Cucchi: l’Inter era passata in vantaggio con lui, Bobo.
Ricordo a distanza di tutti questi anni l’emozione di quella rete.
Non mi sembrava vero nonostante lo avessi desiderato così tanto: eravamo a un passo da quel campionato.
Ma Karel Poborsky divenne un incubo: prima pareggiò, poi replicò al nuovo vantaggio di Di Biagio.

Finisce il primo tempo.

La cosa non mi fa stare tranquillo ma non mi preoccupo più di tanto.
Penso: sarà ancora più intenso festeggiare la conquista della Serie A con un goal nella ripresa. Ma, purtroppo, la rete la segnò Simeone.
Il 3-2 fu un colpo al mio stato emozionale: non potevo credere alle mie orecchie e, tutto sommato, ancora non ci credetti.
Ero convinto che avremmo rimontato.
Ma quando Simone Inzaghi fece centro, il mio castello crollò: rimasi non so quanti minuti immobile, a tratti con le lacrime, a cui non volevo dare la soddisfazione di fuoriuscire.
Ero sgomento, incredulo per ciò che stava succedendo nel giorno del mio compleanno: avevo così tanto sperato nel più bel regalo che potessi ricevere, ma, purtroppo, dovetti riporre tutti i miei gadget al solito posto, abbandonati a se stessi.
Io, in genere, ogni sera avevo l’abitudine di chiacchierare con te.
Ma, da quel giorno, non ne ebbi più la forza.
Si era frantumato un sogno in mille pezzi e, da bambino quale ero, non riuscii a riprenderti in mano e a raccontarti delle mie fantasie sullo sport che in quella giornata lo avevo identificato come il mio peggior nemico.

Ti starai chiedendo, allora, come mai sono venuto dopo tutto questo tempo a romperti le scatole.
Bè, ho bisogno di aggiornarti obbligatoriamente: sono successe delle cose, in questo mese, che davvero non posso tenertele segrete.
Sento il bisogno di te, perché, dopo tutti quegli anni passati a fantasticare e, puntualmente, ad essere deluso, finalmente è arrivata la rivincita.

Sono cresciuto, ho preso consapevolezza che non diventerò mai un calciatore professionista semplicemente perché non ho il talento che pensavo di avere da piccino.
Prendo le partite con molta più maturità, non mi chiudo più in stanza solo ma condivido la passione con altre persone.
Però, una cosa, non è cambiata: il battito del cuore che mi scatenano quei colori.
E così, il giorno del mio compleanno, neanche tre settimane fa, ho invitato un po’ di gente a mangiare qualcosa e a guardare la finale di Coppa Italia contro la Roma.
Non ci sono più Vieri e Ronaldo, adesso ci sono Eto’o e Sneijder, Maicon e Cambiasso.
Lui, invece, c’è sempre.
Con la maglia numero 4: Javier.
Te lo ricordi, sì?
E a guidare questa squadra un Principe, che con la casacca del Genoa mi aveva fatto brillare gli occhi l’anno prima, diventando in pochi mesi il mio nuovo idolo assoluto.
E in panchina, poi, non c’è più Cuper (a cui sarò comunque sempre grato) ma c’è Jose Mourinho: non basterebbero tutte le tue pagine per descrivere l’empatia creata con questo signore di Setubal.
Fu una rete splendida nel primo tempo a decidere la gara dell’Olimpico. Festeggiai in modo sobrio. Non era ancora tempo di fare furore, anche perché, non te l’ho detto, ma in questi anni qualcosina siamo riusciti a vincerla. Abbiamo vinto quel tricolore ma, nel frattempo, pare che vincere quell’agognato titolo non basti più: per renderci felici, davvero felici, serviva altro.

Però, che vuoi farci, per uno come me che non ne ha visti tantissimi, vincere un altro campionato, all’ultima giornata, il 16 maggio, è comunque un’emozione.
Campioni d’Italia.
Ho sfilato, ma stavolta, invece di gridare “I campioni dell’Italia siamo noi”, il coro che si sentiva più spesso è stato uno solo: “Ce ne andiamo a Madrid”.
Sì: è questa la partita della vita, la sfida che ci avrebbe portati sull’Olimpo. Ed è in questa settimana che, nonostante non sia più un ragazzino, ho ripercorso quelle stesse emozioni provate otto anni or sono.
Era la stessa voglia di vincere, quello stesso desiderio sano di scendere e portare finalmente il bandierone sul tetto d’Europa.
E’ la notte del Bernabeu.
Il 22 maggio. L’utilizzo della radio l’ho ridotto tantissimo e ti confesso che mi manca, a volte. Ieri sera, però, non avevo alternative: sono stato davanti alla tv, con una frenesia che non avevo da quel giorno.
E’ tutto pronto: si inizia.
L’avversario è il Bayern Monaco, squadra di esperienza e solida. Ma noi abbiamo eliminato in semifinale il Barcellona campione d’Europa, quello di Guardiola e Messi. Sì, non abbiamo paura.
Ed è un assist di Sneijder a servire il numero 22 che non perdona niente quest’anno: è la rete del vantaggio.
Urlo di felicità ma non sono convinto: non mi faccio fregare di nuovo, la scottatura mi è rimasta.
Cerco di restare il più tranquillo possibile, ma l’ansia della beffa non riesco ad eliminarla.
E allora devo attendere il secondo tempo, quando il Principe riceve palla e vola verso l’area di rigore. Finta, destro: è il goal del 2-0.
Non ci credo.
Voglio scoppiare a piangere di felicità, spaccare ogni cosa che mi si para davanti: sì, stavolta siamo davvero vicini.

So che non avrei dovuto farlo, ma non riuscivo: il secondo gol di Diego, per me, ha significato vincere la Coppa.
Aspettavo solo la fine dell’incontro e dopo non so quanti interminabili minuti, è arrivata.
Campioni d’Europa.
Triplete.
Non so bene ancora che significato assumerà, ma so quello che ha significato per me questa notte: sono sceso finalmente con quel bandierone a sventolare fiero ed orgoglioso il mio interismo.
Sia ben chiaro, la Beneamata è tale sia nella gioia che nella sconfitta.

Ma vincere la Coppa a Madrid non ha prezzo.
E’ stata una notte indimenticabile, ho i brividi ancora ora mentre ti scrivo perché è troppo fresca.
Non so se mi ricorderò a lungo di questa notte, ma credo proprio di sì.
Siamo campioni d’Europa: finalmente, il giorno della soddisfazione.

E poi, ma che ciò rimanga sempre e soltanto tra noi come tutto il resto, durante i festeggiamenti ho finalmente trovato il coraggio di baciare la ragazza che mi piace: vincere la Champions è bello, ma i sentimenti ricambiati non sono poi così male.

Se poi li metti insieme: sì, è stata davvero una notte magica.

 

Ciao, caro diario.