Ciao Capitano,
mentre voli lassù, fendendo l’aria con quelle tue indimenticabili “sforbiciate”, ti racconto una storia.
Per farti compagnia durante il viaggio. Non so quanto ci voglia prima del tuo arrivo. E lo so che sei già impegnato a leggere i messaggi di tutti quelli che ti hanno amato (e sono tanti) e che stanno affidando al cielo il loro ricordo, nel tentativo disperato di raggiungerti e colmare quel vuoto che la morte frappone tra chi va e chi resta.
Ma ti chiedo un piccolo sforzo per leggere anche le mie parole. Solo un’avvertenza: non ho il dono della sintesi. Però ce lo hai insegnato tu, ricordi? “Non vale più la pena di perdere tempo a fare delle stronzate. Fai le cose che ti piacciono e di cui sei appassionato. Per il resto non c’è tempo”.

Ecco, Capitano. Lo sto facendo. Sto scrivendo una storia. È quello che amo di più al mondo.
Sto seguendo il tuo insegnamento, uno dei tanti di cui hai scelto di farci dono. Come quando, in quel lontano 4 Dicembre del 1994, decidesti che pareggiare 2-2 a Torino con la Fiorentina, dopo essere stati sotto di 2 gol, non era sufficiente. Perché fermarsi al pareggio dopo una rimonta così esaltante? Rimonta guidata da te, dalla tua tecnica, dal tuo straordinario senso del gol, dalla tua tenacia. Durante l’esultanza, quando i tuoi compagni ti circondarono per festeggiare la tua doppietta, cercasti di divincolarti in ogni modo: non c’era tempo da perdere. Corresti al centro del campo. Mettesti la palla sul dischetto. Pronto a prenderti quella vittoria. La vittoria alla fine arrivò. Una vittoria decisiva. La vittoria che fece capire al mondo Juve che quello sarebbe stato l’anno della svolta.
Scusami, Capitano. Sto divagando. Non era questa la storia, questa la conosci già. Questa l’hai scritta tu. Avvertenza numero 2: quando scrivo, spesso mi perdo, prendo deviazioni, a volte mi imbatto in strade senza uscita, altre volte arranco per sentieri tortuosi. Ma adesso torno sulla strada maestra. Adesso torno alla mia storia.

Milano. Inizio settembre. Una giornata di lavoro come sono quelle giornate del rientro dopo le vacanze: la pelle ancora dorata, la testa ancora leggera e quella energia all’apparenza inesauribile di chi ha appena ricaricato le batterie ed è pronto per un nuovo inizio. Ero nell’ufficio dell’allora mia capa. Arriva una telefonata: era il capo della mia capa, chiede di me. “Avrà bisogno dei numeri per la presentazione del budget”, pensai. E invece no. Voleva invitarmi per la sera seguente ad un evento di beneficienza organizzato dalla tua Fondazione e di cui la nostra azienda era sponsor. Figurarsi! Accettai l’invito senza riserve e con il cuore che per un istante saltò un battito. Per una malata patologica di calcio come me e una juventina senza possibilità di redenzione era il massimo.
Fu il massimo.
Trascorsi la serata a guardarmi intorno, con gli occhi spalancati e il cuore felice, saltando da una stella all’altra, collezionando foto (fotografo ufficiale della serata fu il capo della mia capa): Van Basten, Platini, Pirlo, Nedved. Non credevo ai miei occhi. Ero estasiata. Felice come una bambina al Luna Park.
Ma io aspettavo te. Ero lì per te, Capitano.
Finalmente salisti sul palco, prendesti il microfono. Mentre un applauso scrosciante accolse il tuo arrivo, io rimasi lì immobile, incredula. Dov’era finito il ragazzone possente che con la fascia di Capitano aveva alzato la Coppa dalle grandi orecchie? E le gambe forti dei tanti gol in acrobazia?
Su quel palco vidi un uomo invecchiato all’improvviso, prosciugato.
Non sapevo più chi avessi davanti. Per un attimo visualizzai il poster appeso alla parete della mia stanza di bambina: un super eroe con la casacca bianconera, i muscoli catturati nella tensione di uno scatto, lo sguardo feroce di chi sta andando a prendersi quello che è suo. Un’immagine che faceva a pugni con la figura esile che vidi su quel palco. E quello stesso pugno lo sentii arrivare dritto allo stomaco. Per un attimo mi mancò il fiato.
Poi parlasti. E lì riconobbi il mio Condottiero.
Gli occhi, semichiusi sì, ma pieni di luce. La voce, stanca sì, ma carismatica. E le tue parole di coraggio, di speranza, di umanità. Ti vidi per quello che eri: un uomo che aveva avuto tanto dalla vita e che adesso stava cercando di ricambiare, con l’impegno, con l’esempio. Un super eroe in borghese, che aveva svestito la casacca da calciatore, mantenendo intatta la propria eleganza e il proprio carisma.
La foto con te… quella non la feci. Non volli disturbarti (così dissi a me stessa per mettere a tacere il rimpianto di non aver osato). Ma più probabilmente, ebbi paura. Paura di quella fragilità non celata e inaspettata. E per questo sfacciatamente coraggiosa.

Grazie Capitano, per quello che mi hai insegnato in campo e fuori.
Mai dimenticherò quella coppa alzata al cielo. E mai dimenticherò quegli occhi luminosi e quella voce dolce e fiera.
Ciao Capitano, vola in alto, più in alto che puoi.
Chiara

Chiara Saccone