Buongiorno utenti e lettori di Vivoperlei.calciomercato.com, oggi vi riporto nelle storie di giocatori che hanno calcato i campi di Serie A, che hanno avuto una carriera importante o meno. Oggi conosciamo la storia di Mimmo Scarpini, nome come sempre di fantasia per privacy, che si apre a noi con il racconto delle sua storia di calciatore. Quindi andiamo ad ascoltare cosa ci ha raccontato. Buona lettura

Mi chiamo Mimmo Scarpini e nasco a Sora il 20 Aprile del 1950. Sono il primo di 5 figli, da padre, Arnoldo, ferrotranviere e madre, Geppina, casalinga. Fin da bambino mi districavo tra i compiti e il pallone, ogni giorno tornando da scuola con la mia nonna paterna che mi portava sempre una caramella. Fino agli otto anni la mia vita girava tra compiti, pallone e famiglia, quando mio nonno paterno, un giorno stanco di vedermi sbattere il pallone sulle sue mura di casa, mi prende e mi porta sul campo del Sora calcio, la squadra più importante, se non l'unica, della zona, e mi dice "Qui puoi tirare forte quanto vuoi. Mi raccomando comportati bene". Così quando scorsi il campo, cominciai a ridere, felicissimo, e non capivo nemmeno le parole che mio nonno continuava a dirmi..."Hai capito?", "Si nonno ho capito". Ecco che arrivo al cancello, un signore, sembrava più ubriaco che mai, mi dice "Allora, chi saresti tu? hop, hop", mio nonno sorridendo gli risponde "E' mio nipote Mimmo!", riprendendosi per un attimo "Signor Scarpini, quale onore, sa che ho abbiamo tutti i suoi ritagli e la maglia?", io mi voltai e dissi "Nonno ma tu giocavi in questa squadra?", e mio nonno leggermente arrabbiato rispose "Si, poi ti racconterò un giorno...Adesso vado, arrivederci Bronconi".
Così entro in campo, ma vengo subito ripreso da un altro bambino "Ehi, ma non si può giocare vestito così, devi andare dall'allenatore e farti dare un cambio. Ma poi tu chi sei? E quanti anni hai?", rimanendo con poch parole risposi "Io sono Mimmo Scarpini, e ho 6 anni". Avevo indosso una maglietta della salute, pantaloncini verdi scuro e un paio di mocassini che mi aveva regalato mia nonna qualche anno prima. Così quando arrivai davanti all'allenatore e dissi "Dove devo cambiarmi?", questi mi guardò, dall'alto dei suoi baffoni arrotolati e occhiello all'occhio "E tu chi sei? Chi ti ha fatto entrare? Chi ti ha detto di poter entrare in campo?", a me bastò rispondere "Mimmo Scarpini", sobbalzò sul posto "Scarpini, parente di Ubaldo?", con occhi sbarrati che sembrava aver visto un piccolo santo, risposi "E' mio nonno". Ecco che comincia a parlare di mio nonno, di chi era per la gente di Sora e che sperava fortemente che io riuscissi a seguire i suoi passi, almeno per la metà. Così mi spedì nello spogliatoio, che poi dire spogliatoio era davvero tanto se associato a quelli che vediamo oggi, c'erano una decina di sedie, una diversa dalle altre, le docce che avevano qualche problema, visto che due su tre perdevano.
Mi misi seduto e presi la prima maglia che mi capitò tra le mani, ma dopo averla indossata vidi che era corta, quindi ne cambia fin quando non trovai quella adatta, misi i pantaloncini, i calzini lasciai quelli che avevo e indossai un paio di scarpini usatissimi che sembra mi calzavano almeno una o due misure in più. Presi anche un laccio di una scarpa, forse di uno dei bambini in campo e me lo legai intorno la testa, per tenere la frangia alta - avevo una montagna di capelli - che mi copriva gli occhi. Non avevo tanta simpatia nei confronti degli altri, anzi, diciamo che sembravano sempre distanti da me e parlottavano spesso, così passavo l'allenamento per lo più distaccato dal gruppo, ma se per la maggiore correvano in modo blando, io ero intento a farmi vedere, correvo allo sfinimento, tanto che l'allenatore mi sgridava "Scarpini, meno, meno, non serve spingere così tanto e restare sfiancato, non devi correre a quella velocità eccessiva".
L'allenatore un giorno mi chiamò a se, e mi disse: "Scarpini, tu sei velocissimo, quindi ho deciso che farai l'esterno di centrocampo". I primi tempi non furono facili, ma in poco tempo e grazie a buone prestazioni mi ritrovai presto titolare, divenendone fisso in meno di un anno. Passai ben quattro anni, togliendomi anche la soddisfazione di un paio di gol, non avevo i piedi da goleador ne da tiratore, ma l'allenatore mi aveva inculcato il modo di fare i cross, e alla fine avevo fatto segnare decine di reti a stagione. Mio nonno era sempre presente ogni domenica, mentre mio padre, sporadicamente, soltanto quando il lavoro lo permetteva.
Proprio con mio nonno un bel giorno, visto che per la maggiore si dilettava a fare sedie per tutto il vicinato, mi ritrovai seduto fuori di casa e gli chiesi "Allora nonno, mi racconti del tuo passato nel Sora?", lui mi guardò con sguardo arrabbiato, e mi disse: "Ho giocato in quella squadra per oltre 20 anni, ero il giocatore che segnava più gol, quello che con il tempo è divenuto il capitano e che ha fatto la storia. Però quando terminai di giocare, nessuno mi disse di restare nella società, preferendo altri che non avevano fatto una carriera importante, questo mi portò a litigare e chiudere i rapporti con loro. Ora per la maggiore non ci sono più, chi è passato a miglior vita, o chi se ne è andato da qui". La mia carriera cominciò a prendere il volo, nel 1962, quando in una gara contro i giovani della Roma, mi ritrovai con mio nonno a parlare con un signore che chiedeva "Allora Mimmo, ascolta bene, mi raccomando. Il Sora è una buonissima squadra, ma se ti dico che la Roma vorrebbe portarti a giocare con lei?". Io guardai mio nonno, lui annuiva alle parole del signore, io risposi "La Roma? Ma io abito a Sora!", e lui continuò a ripetere "La Roma, Mimmo, la Roma...Ti trasferirai con tuo nonno e la nonna, poi quando sarai maggiorenne avrai una tua casa. Allora sei pronto a trasferirti a Roma?", mio nonno entrò nel discorso "Non voglio prendere le parti di mio nipote, ma...Mimmo! Devi solo dire si, nulla di più". Così dopo le parole del nonno risposi "Si!". A casa mia si fece una grandissima festa, ma non mancarono le lacrime dei miei genitori, che sapevano che per la mia felicità avrebbero dovuto fare a meno di loro figlio, ma quell'opportunità non si poteva far sfuggire. Era l'Agosto del 1962  e dopo ben due ore, almeno così disse mio nonno "Ci vogliono non meno di due ore per arrivare", ci ritrovammo a Roma, dove dopo una bella gita tutta in macchina, passando per molti monumenti, Colosseo compreso, prima di arrivare allo Stadio di Roma che due anni prima, come raccontava il dirigente romanista, che era divenuto Olimpico per le Olimpiadi del 1960 due anni prima. Lo stadio era bellissimo, qualcosa di inaudito, se pensiamo che quello sul quale avevo giocato era al confronto davvero pochissima cosa. Il dirigente mi disse: "Devi vedere quando è tutto pieno, che spettacolo tra i cori e le urla ai gol". Così calciai un pallone e feci una corsa sfrenata, ma i miei sogni li spezzo poco dopo "Non crederai di giocare qui, sei ancora troppo piccolo, tu hai un altro campo, poi se diventerai bravo allora potresti giocare qui, ma per ora no. Andiamo". Abbassai lo sguardo a terra, e il braccio di mio nonno con una stretta mi confortò, mi voltai per l'ultima volta e ripetendo "Io giocherò qui!". Così prendemmo di nuovo la macchina e ci dirigemmo su un altro campo, ben più distante dal 'Grande Stadio', così dopo essere scesi, questi mi disse "Ecco, qui ti allenerai tu, ora ti presento i tuoi nuovi compagni. Paoluzzi, Bisciglie, Moterlupo, venite qui, questo è Scarpini e da oggi è un vostro compagno di squadra". Ecco che l'accoglienza fu delle migliori "Dai vieni a correre con noi!", dopo aver guardato mio nonno, che mi spinse verso di loro, iniziai a correre.
Quel giorno fu speciale, il primo giorno con indosso abiti di un tessuto davvero unico, e scarpini nuovi ai piedi, fin a quel giorno usavo gli scarpini di persone che avevano i figli calciatori, quindi si può immaginare il rischio che c'era, ma eravamo molto più ignoranti di oggi. La mia vita nella Roma, inziò fin da subito, perchè l'allenatore dopo un provino rapido, decise che quel ruolo, l'esterno di centrocampo, era adatto a me. Non era facile trovare spazio, anche perchè da ultimo arrivato, non avrei potuto pretendere di più che la panchina. In poco tempo, giocando con il contagocce, riuscii a ritagliarmi il mio spazio, a fine stagione alcuni riuscirono ad entrare in prima squadra, altri vennero spediti in altre squadre, quindi salivo di anzianità, raggiungendo la titolarità. Vincemmo ben cinque campionati di fila. Il 1967 arrivò in un batter d'occhi, quando l'allenatore mi disse "Scarpini, da oggi non sarai più nella mia squadra, perchè...", ci rimasi male, avevo instaurato un buon rapporto con tutti, e l'andare via mi portava a pensare che quel sogno era finito, ma quando terminò la frase con "...passerai alla prima squadra", allora rialzai lo sguardo ed esclamai "Cosa! Dimmi che è uno scherzo!". Non era uno scherzo, intanto a casa, si festeggiava ancora, sentii mio padre che continuava a ripetere "Mio figlio sarà un calciatore importante, giocherà nella Roma! Sei il nostro orgoglio!". Ecco che a 17 anni (stagione 1967-1968) entravo nella prima squadra della Roma, c'erano giocatori del calcibro di Pizzaballa, Losi il capitano, Scaratti, Cordova, giocatori incredibili in panchina sedeva Oronzo Pugliese, allenatore tostissimo, un carattere non proprio facile, era uno che diceva quel che doveva dire senza peli sulla lingua, e guai a chi rispondeva a tono o con risposte fuori luogo, lui decideva quel che si doveva o non si doveva fare dentro e fuori dal campo. La prima notizia però non fù del tutto buona: "Quest'anno non so se metterai piede in campo, forse resterai anche fuori rosa, perchè l'allenatore vuole giocatori già pronti, e per lui non lo sei ancora". Quelle parole furono seguite alla lettera, seguivo la squadra in ogni partita in casa e fuori, ma il campo non lo vedevo mai, se non seduto sopra una panchina dietro a quella della nostra squadra. Ci piazzammo al decimo posto finale, e l'allenatore Pugliese venne esonerato e sostituito da Helenio Herrera, uno dei migliori tecnici al mondo, dopo le due Coppe Campioni vinte con l'Inter. La stagione 1968-1969, almeno in me riaccendeva la possibilità di quel debutto. Il tecnico parlava spesso al gruppo, ma in solitaria soltanto con il capitano Losi e con Pizzaballa. Mi allenavo forte, facevo del tutto per attirare l'attenzione del tecnico, nella speranza che mi avrebbe dato la possibilità di debuttare, sarebbe stato già una grandissima cosa.
La nuova stagione era vicina, le partitelle mi vedevano giochicchiare quei pochi minuti. All'ultima gara pre campionato, però successe quel che speravo non accadesse. Giocavamo in casa, ma non ricordo il nome della squadra avversaria, perchè veniva da un paese sperduto della Lombardia, il tecnico mi disse: "Scarpini, questa è la tua grande occasione". Avevo la maglia numero 11 sulle spalle, sì è vero il numero dell'attaccante, ma l'aveva scelta lui e non io, quindi mi sistemai nella mia zona di campo, esterno di sinistra a centrocampo. Così la gara ebbe inizio, e riuscivo a giocare come ben sapevo, saltavo sempre il terzino avversario, e andavo sul fondo servendo al centro gli attaccanti. Il primo tempo finì con un risultato abbastanza scontato per noi, Herrera mi disse "Stai facendo bene, preparati che quest'anno avrai parecchio spazio", nella foga e felicità, tornai in campo.
Mentre la gara riprese, da fuori dal campo si sentì: "Angelozzi rompigli le gambe all'undici!", parlava proprio di me, e Angelozzi doveva essere proprio il terzino che mi fronteggiava. Ecco che dalla metà campo Cordova mi servì sulla fascia ed ero pronto a saltare l'avversario, che nella foga alzò la gamba destra e mi colpì sul polpaccio sinistro, cadendo mi rialzai e richiamai l'arbitro, che fischiò il fallo e mi retarguì. Sembrava un avvertimento da parte del terzino avversario. La partita riprese ma avevo il presentimento che da li a poco questo Angelozzi avrebbe tentato di fare una nuova entrata per non farsi saltare. Ecco che Losi fece un lancio verso la mia fascia, la stoppai e misi giù la palla, ma ecco che il terzino si lanciò verso di me, lanciandosi in una scivolata, nell'intento di saltarlo, ero pronto a spostarmi ma con il piede a martello mi prese paro sulla tibia, che in un istante si spezzò. In quel momento il dolore prese il sopravvento e le urla si spezzarono in un pianto a dirotto, l'osso della tibia aveva perforato la carne, i medici accorsi dovettero alla buona fasciare stretto il punto di rottura e caricarmi su una automobile che mi portò in ospedale. Dopo l'operazione ben riuscita, nella mia stanza restavo per giorni interi a gardare il soffitto, mia madre e mio padre mi avevano raggiunto e passavano le ore tra lo starmi vicino e nei corridoi, fino alla sera. Mio nonno era tornato a Sora, ma ogni giorno sentiva i miei per sapere come stavo. Mio padre mi ripeteva "Vedrai che tornerai più forte di prima", e io rispondevo "Non vedo l'ora". Il dottore della società, ogni giorno mi veniva a visitare, e si fermava a parlare con i miei, quando un giorno vidi la faccia piena di terrore di mia madre, così gli chiesi poco dopo "Mamma, che ti ha detto il dottore?", lei che parlava solo lo stretto di Sora, mi rispose "Ha detto che ci vorrà più tempo del per riportarti in piedi e a camminare". Io avevo capito che c'era qualcosa in più, ma credevo alle sue parole. Passò il primo mese, e poi ancora una decina di giorni prima che lasciai l'ospedale. Il dottore mi chiamò nel suo studio, chiedendo ai miei genitori di restare fuori, così mi misi seduto e ascoltai le sue parole "Signor Scarpini, la frattura alla tibia pian piano guarirà, ma devo essere sincero con lei, la frattura ha toccato anche altri punti della gamba, quindi ci vorranno non meno di cinque o sei mesi per camminare su quella gamba, oltre ad una riabilitazione che potrebbe portarle via quasi un anno. Spero che lei si rimetta presto e torni più forte. Arrivederci".
Uscii dallo studio impietrito, pensavo che un anno sarebbe passato molto lento, e la paura di non poter più giocare mi teneva sveglio anche la notte, con la mamma che ogni tanto si affacciava per vedere se dormivo oppure no. La società dopo il consulto con il medico decise di spedire un dirigente a casa, questo non faceva altro che peggiorare le cose. Così nel Dicembre 1968, verso l'ora di pranzo, bussarono alla porta "Buongiorno signora, come va?", era il dirigente che stava varcando la porta di casa, "Dove sta Mimmo?", così che si mise nella camera da pranzo, in attesa che mia madre mi vestisse e mi portasse ad accoglierlo. Ecco che superata la soglia della camera da pranzo dissi "Buongiorno", con la voce dolorante dal fastidio che mi dava la gamba all'appoggiarla in terra, "Buongiorno Mimmo, come va?", "Potrebbe andare meglio. Come mai questa improvvisata?", ecco che il dirigente si fa serio in volto, sembra che debba dirmi qualcosa di brutto, il suo sguardo è fisso sul pavimento, e iniziò a dire "Sai, abbiamo puntato su di te fin da quando avevi 10 anni, per noi eri quel campioncino in erba pronto a diventare grande, abbiamo fatto del tutto per convincerti, e alla fine hai accettato. Il tuo percorso è stato esemplare, sei stato un giovane che è divenuto in poco tempo un punto fermo delle giovanili, arrivano in questa stagione ad arrivare in prima squadra e...", io lo ascoltavo, che girava intorno alla coclusione, così mentre parlava  lo interruppi "Arrivi a quel che mi deve dire senza giri di parole", alzando il volto da terra è guardandomi in faccia rispose secco "La società ha deciso che da ora non farai più parte della nostra squadra, il tuo infortunio ti porterà via quasi un anno, e non è certo che tu torni a giocare come prima, mi dispiace ma questa è la verità. Ora devo andare, mi dispiace Mimmo, spero che tu riesca a riprenderti e tornare a giocare, smentendo la società. Buona fortuna". Così dopo aver salutato i miei genitori, chiuse la porta dietro di sè. Dopo alcuni giorni misti tra pianto e rabbia, le giornate passarono tra la ripresa, ogni giorno mi ripetevo "Tornerò più forte di prima e gli farò vedere che si sbagliavano".
Festeggiai i miei 18 anni, in famiglia, con genitori, nonni e parenti, fu una festa bella, anche se il mio pensiero era sempre di tornare a giocare. Ecco che l'anno terminò e ci catapultammo nel 1969, passarono di seguito il primo, secondo, terzo e quarto mese, e così iniziai la mia riabilitazione. Pian piano sembrava andare meglio, ma una leggera zoppia mi teneva in allarme, il medico diceva che era una cosa normale, ma più si andava avanti e più sembra allo stesso livello. Così quando passai le ultime visite, il dottore mi disse che quella zoppia che sembrava soltanto problema di poco conto era entrata di diritto nella mia vita, perchè si era formato un callo osseo proprio nel punto di rottura, e che mi avrebbe portato anche a sentire dolore in certi momenti. Da quel giorno mi cadde il mondo addosso, anche perchè alla domanda "Potrò mai tornare a giocare al calcio?", mi sentii rispondere secco: "No, mi dispiace". Pochi giorni dopo, decisi di tornare a Sora con i miei genitori, e mi reinventai prima falegname, poi muratore, ma la passione per il calcio più avanti mi portò a prendere il patentino di allenatore, allenando in varie città d'Italia, al compimento dei quarant'anni però decisi che non era una strada da percorrere e tornai a fare il muratore, si guadagnava di più.
Tutto qui, ora mi godo la pensione, e spesso torno a Roma e nel passare proprio in quei punti della città mi ricordo di quel bambino sparuto e pieno di sogni che voleva diventare un campione e che per un infortunio ha dovuto dira addio ai suoi sogni...


Ringrazio Mimmo Scarpini per avermi e averci racontato la sua storia di calciatore, che poteva essere più importante se quell'infortunio non avesse messo la parola fine proprio nel momento dell'esordio con la maglia della Roma, partendo anni prima dalla sua Sora con un bagaglio pieno di speranza e sogni.