26 giugno 2023
Il sole cocente picchia forte su Milano, le fronti grondano sudore, i cubetti di ghiaccio utilizzati per affrontare i 35 gradi del capoluogo lombardo si sciolgono dopo pochi istanti.
La rincorsa al pezzetto d’ombra che possa garantire attimi di sollievo è estenuante. Acqua, sali minerali, cibo risicato tirato fuori dagli zainetti pieni all’inverosimile: la fila per l’accesso all’interno dello stadio Meazza è tutta concentrata in questi attimi di attesa, di chiacchiere a fatica ma genuine, consapevoli che tutti, ma proprio tutti, sono pronti a sopportare queste altissime temperature per poter vivere l’evento dell’anno.

Sì, non ci sono dubbi già prima di entrare: ogni concerto di Chris Martin e soci è un autentico numero unico, una perla da conservare per sempre. E se la pesantezza di quei momenti poteva quasi portare a dire “ma chi me l’ha fatto fare di spendere tutti quei soldi per stare ore e ore esposto al sole?”, ciò che sarebbe avvenuto dalle 21:20 in poi avrebbe cancellato ogni opaco, fugace pensiero.

Ho visto tanti concerti. Italiani, internazionali, festival, concertoni. Di alcuni mi tengo stretto dei ricordi speciali, dei momenti indimenticabili, delle tracce che hanno segnato la mia vita. Ma quello che è accaduto lunedì è un’altra cosa.
E partiamo proprio dall’ingresso: per la prima volta in vita mia, sono stato al centro dello stadio del mio cuore. In mezzo al campo. Lì, proprio lì dove Barella ha furoreggiato per tutta questa stagione.
Dove hanno giocato campioni immortali, dove sono accaduti pezzi irripetibili di storia del calcio, dove hanno corso e segnato Ronaldo e Vieri, i primi campionissimi che mi hanno fatto innamorare di quei due colori, il nero e l’azzurro.
Per una volta, ho visto San Siro dal punto di vista di un calciatore. Mi era capitato di assistere ad altri concerti alla Scala del calcio, ma sempre dalla tribuna. Lunedì, invece, mi sono trovato sul rettangolo (non) verde, con quella cornice così meravigliosa che ha amplificato i battiti già accelerati per via della calura e generato brividi a pensare a quello che un giocatore prova ogni volta che mette piede in un tempio del genere. Le sensazioni, le paure, la voglia di stupire: lo stadio milanese è un contenitore di sentimenti.

Siamo arrivati a pochi passi dal palco mastodontico allestito per la band più popolare del pianeta. Le ore che separano dall’avvio dello spettacolo paiono infinite, ben mitigate dal gruppo di apertura, i Chvrches, che hanno letteralmente stupito per come si sono presentati senza apparenti timori reverenziali, con dei brani di pregevole fattura e assolutamente meritevoli di un riascolto, preceduti dall’esibizione di Mara Sattei: lontana dal mio gusto, emozionata, ha fatto il suo in una città addobbata a festa. Tutto bene, la stanchezza sta cominciando a scemare, la fame cresce: il piatto forte, è chiaro, è solo uno.

Allo scoccare delle 21 tutti si aspettano il pronti-via, ma c’è ancora da soffrire. Solo che non si potrà farlo in silenzio.
Gli “oh-oh-oh-oh” della loro canzone più celebre cominciano a scandire il cronometro, la pazienza sta per terminare, l’adrenalina cresce e in tutto ciò è bellissimo vedere proiettati sugli schermi diversi messaggi legati al tema della sostenibilità: anche l’idea di far pedalare gli aventi diritto allo spettacolo è stato un diversivo interessante.
Ecco, questa è la chiave: tutto ha un senso. Tutto lascia il segno, in quell’evento. Si respira un’aria pulita, bella, rilassata.

Intorno alle 21:20, arriva l’introduzione al concerto e, finalmente, è “Higher Power”.
Correrò il rischio di ripetermi, ma credo di non aver mai vissuto una potenza del genere all’avvio di un concerto. Mai.
In poco tempo lo stadio diventa multicolorato, grazie agli speciali bracciali consegnati all’ingresso che rendono l’atmosfera coinvolgente: si illuminano mediante un meccanismo ultratecnologico, tutti insieme, senza che tu debba fare altro che agitare il polso e unirti alla rumba. Palloncini enormi, coriandoli sparati, fiamme: i primi 20 minuti sono qualcosa che, a naso, non ha eguali a nessuna latitudine musicale. Tutti cominciano a giocare alla ricerca del tocco del palloncino, i coriandoli fanno felici tutti, si mischiano tra i capelli, si attaccano alla pelle: è una festa totale, sembra di essere al luna park.
E, nel mezzo di questo putiferio, San Siro diventa un coro universale: suonano canzoni eccezionali, nessuno è lì per caso, tutti hanno voglia di far parte della festa. E festa sarà.

Due ore e mezza circa di intrattenimento, di musica ad altissimo livello, di purezza, di sincerità.
Quello che traspare dall’esibizione live di questo gruppo è proprio l’incredibile emotività che riescono a trasmettere mediante il loro frontman: istrionico, simpatico, giocoliere, sorridente.
Che i Coldplay non siano rock vecchio stile lo sanno anche i sassi, eppure riescono ad avere un impatto che solo i grandi del genere potevano riuscire a fornire anni addietro. Loro non sono maledetti, non hanno la rabbia che contraddistingue i rocker. No, loro hanno l’allegria, la gioia: Chris Martin sembra l’amico di una vita, scherza con il pubblico, si sforza di leggere in italiano (è un professionista esemplare, in quanti si misurano con la lingua dei posti visitati?), è dinamico sul palco, quasi come fosse la prima volta.

La scaletta non conosce momenti di stanca, è un fermento continuo: si passa da brani mainstream capaci di far ballare e urlare chiunque (Paradise) a pezzi intimi eseguiti magistralmente e con una cura estrema (The Scientist), prima che il pubblico vada in visibilio con Viva la Vida, ancora oggi il brano più cantato dall’affezionato pubblico.
E anche i pezzi meno conosciuti, clamorosamente, riescono a penetrare nelle corde dei 70.000 presenti, che non si sentono mai dimenticati, bensì sempre parte di questo puzzle pittoresco che sono riusciti a creare i loro beniamini. Il momento in cui una fan viene invitata sul palco, con la scena tipica del tour che prevede la scelta di un brano da eseguire al pianoforte in base alle richieste che provengono dai cartelloni, è stato suggestivo. Qualcuno di noi è salito sul palco, di fianco al proprio cantante preferito, per vivere 5 minuti di magia. Non mi soffermerò sul fatto che, tra l’altro, il pezzo scelto (Politik) è uno dei miei preferiti, una gemma autentica dei primi Coldplay.

Chiunque dovrebbe assistere a un concerto del genere. Chi li ama, perché quello che si vive in quei 150 minuti resterà per sempre nelle menti e nei cuori. Chi è appassionato di musica, perché non si può non lasciarsi ammaliare dai suoni, dalla visione, dai giochi di luce che hanno stregato San Siro. E poi i cantanti: i Coldplay possono davvero essere considerati i professori universitari della musica. Chiunque volesse fare questo mestiere dovrebbe sedersi un attimo ad ammirare la professionalità di questo gruppo e la loro genuinità, a prendere appunti e a metterci un pizzico di Coldplay nelle loro produzioni.

L’amore. La gioia di vivere.

Sono questi i sentimenti che ti lasciano il segno, e lo fanno anche con gag consolidate quale quella che vede protagonista The sky full of stars: interruzione al primo ritornello, il gruppo che finge di salutare, il pubblico (almeno quello meno “esperto”) sorpreso. Martin invita tutti a posare i cellulari (unica nota stonata, ma è inevitabile) e a godersi almeno per qualche minuto il concerto: una meraviglia.

Compaiono pupazzi, omaggiano l’Emilia-Romagna, ringraziano tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di uno show inimitabile (la progettazione delle scenografie tecnologiche merita un plauso da dedicare ai visionari realizzatori), si travestono da alieni (ognuno è un alieno da qualche parte, lo slogan più incisivo che si potesse concepire), non ammiccano alla trap o a generi che vanno in questo decennio, mantengono la loro identità riuscendo ugualmente a penetrare nei gusti di diverse fasce d'età: si gode. La potenza dei 4 sta anche nell'aver saputo coniugare una crescita ed una maturazione che ha virato verso una platea più "generalista", tenendo però una fede musicale stabile, non lasciandosi mai trascinare verso il mondo dei tiktoker. Che poi diventino virali è un altro paio di maniche, ma i Coldplay sono rimasti sempre loro, anche se qualcuno afferma il contrario.

E poi, chicca nella chicca: sul palchetto allestito all’interno del prato, arriva Zucchero.
Panico.
Un artista amato trasversalmente, già protagonista di innumerevoli collaborazioni, che ci regala una versione della sua “Diamante” insieme al gruppo più importante del panorama musicale degli ultimi 25 anni. Un momento indimenticabile, seguito da “O mia bela Madunina”. Tutto da programma, il concerto scivola via e tu vorresti che quel furore ti accompagnasse per altre ore. Ma no, non può essere tutto così lineare: Chris lascia il palco ad un sorpreso Fornaciari, che si cimenta in una esecuzione voce e chitarra di “Hey Man” che lascia a bocca aperta.

È il momento del gran finale.
Tutti, o perlomeno il sottoscritto, attendono con trepidazione “Fix you”, la canzone a mio avviso più bella scritta dal 2000 ad oggi. Una maestosa poesia, parole e musica incastonate per sempre: sull’orlo delle lacrime, il pezzo è l’apice di tutto lo show.

Si chiude con fuochi d’artificio e Biutyful, canzone del loro ultimo disco “Music of the Spheres”, che dà il nome a tutto questo incredibile turbinio di gioie.

Si ritorna a casa, distrutti sì, ma colmi di amore.
Believe in love, recita il maxischermo al termine di un tuffo nell’amore.
Già, è proprio ciò che è un concerto dei Coldplay: ci si riconcilia con il più bello dei sentimenti.

Andate.
Quando potete, prima o poi, andate a un concerto dei Coldplay.
Non ve ne pentirete mai.

 

Indaco32