Il Ventoux è terribile! E' calvo perché “Lui” è la quintessenza dell’aridità. Il suo clima estremo lo rende contemporaneamente un terreno dannato ed un luogo adatto agli eroi. Usando un ossimoro leggermente modificato potremmo definirlo come “il più alto degli inferni”.
Il Ventoux è universalmente temuto e riconosciuto, oggi quanto ieri, come il “dio del male del ciclismo”. Un dio pagano e cattivo al quale bisogna sempre offrire un sacrificio, perché questa brulla montagna non accetta debolezze ed esige un “ingiusto” tributo di sofferenza da chi ha l’ardire di percorrere i suoi celebrati tornanti.

E’ un campione Tommy Simpson, e nella seconda metà degli anni ‘60 è già un ciclista che nel suo palmares vanta classiche eroiche: ha vinto il Fiandre e la Sanremo, il Lombardia e pure un Campionato del Mondo, tanto che la regina lo ha nominato “Sir”, baronetto! Ha pure, nel 1962, già indossato la mitica maglia gialla ma troppo spesso ha messo la sua ruota davanti, lui inglese sconosciuto, ai corridori che rappresentano da sempre le corazzate del ciclismo mondiale e cioè Belgio, Italia e Francia.
E per questo motivo diventa antipatico a molti, al “Bottone” che comanda il ciclismo e che per sminuirne le capacità, mette in giro la voce che è un sopravvalutato tuttalpiù, ad essere magnanimi, può considerarsi un corridore da “classiche di un giorno”. Tommy non ci sta e decide che il 1967 sarà, per forza, l’anno della svolta, della definitiva consacrazione. Ed il suo Tour non parte male ma, come capita a tanti ciclisti, ha una crisi sulle Alpi e scivola giù in classifica; il suo manager, che nel frattempo ha chiuso un ingaggio faraonico con la Ignis, gli dice brutalmente che se non riuscirà a migliorare sensibilmente la classifica, le ripercussioni economiche che riceverà saranno inimmaginabili. Va logicamente in panico Tommy Simpson e come risposta compra, per 800 sterline, due confezioni di anfetamine. Cominciano a farsi sentire subito quei maledetti 15 chilometri di salita e Simpson ingurgita le pillole e, per completare tragicamente l’orrendo miscuglio, si fa passare da un compagno qualcosa da bere. Ma quell’idiota gli passa del cognac! Comincia ad andare a zig-zag, ha lo sguardo perso nel vuoto, continua a salire come può e cade una prima volta; aiutato dal meccanico della sua squadra rimonta in sella ma ormai è uno zombie, ricade e non si alza più.
Ci muore Tommy Simpson sul monte Ventoux ed è la prima vittima del Doping!

Questo ragazzo di 30 anni, da quel momento, diventa però anche un simbolo, diventa l’indice che costringe il mondo a guardare, senza più colpevolmente distogliere gli occhi, quella punta di  mostruoso Iceberg che sta affiorando, con cui lo sport aveva già avuto a che fare sin dall’antichità, ma che diventerà anno dopo anno un mostro sempre più gigantesco da sconfiggere, tale da rendere quasi vana la speranza di avere uno sport quanto più pulito possibile.

Da quel lontano 1967 infatti comincia un continuo ed interminabile rincorrersi fra gli organi di controllo che verranno creati per spazzar via il Doping ed il doping stesso.
Quando nel 1999 nasce la WADA la lotta ormai va già avanti da almeno 30 anni ed ha visto nascere “eroi negativi” in ogni parte del mondo: nessuno sport e nessuna nazione ne è esente.
Era già morto alle olimpiadi di Roma il danese Knud Enemark Jensen (ma la causa fu svelata molto più tardi), anche lui con lo stesso esplosivo cocktail di Simpson ed a quelle di Città del Messico balza agli “onori delle cronache” un pentatleta, lo svedese Liljenwall. E come potrebbe mai dimenticare (chi in quegli anni c’era) quella riproduzione di bibendum che a furia di ingurgitare steroidi divenne Ben Johnson capace di battere “il figlio del vento” Carl Lewis (anche lui peraltro spesso “mormorato “)? E Marion Jones? Ed i greci Kenteris e Thanou? Ed il nostro Schwarzer che, per sua ammissione, era andato addirittura in Turchia a comprare l’Epo?
Una catena di casi eclatanti e mediatici che non ha mai avuto soluzione di continuità. Del resto, prendendo per così dire spunto dal caso del marciatore azzurro, non è che “il Bel paese” abbia avuto ed abbia tuttora un ruolo marginale nei successi sportivi “opachi”. Infatti nella lunga lista nera dei 114 sanitari che sono finiti sotto la lente d’ingrandimento della WADA , oltre ai celeberrimi Fuentes (peraltro mai condannato), Garcia del Moral (il vate di Lance Armstrong, per semplificare e ricordare) e Viktor Chegin ci sono anche gli italiani, e spiccano per rilevanza, Michele Ferrari (inibito a vita dall’USADA), Francesco Conconi (condannato “solo” moralmente dal giudice Oliva e reato prescritto), Carlo Santuccione (morto 5 anni fa e squalificato a vita nel 2007) e Vittorio Emanuele Bianchi (e la sua contorta vicenda giudiziaria) che sono anche in ottima e abbondante compagnia, tanto da far diventare l’Italia, per numero di casi di positività, la nazione vessillifera del doping nel mondo. Non un bell’esempio!

Sicuramente però potremmo affermare che la “tempesta perfetta” fu raggiunta col “Doping di stato”! 
Solo con la caduta del muro di Berlino e la susseguente desecretazione dei documenti relativi viene infatti portato agli onori della cronaca il “piano di stato 14.25”. La visibilità universale avverrà nel corso del processo a Manfred Ewald, per chi non lo conoscesse, nientedimeno che il Presidente del Comitato Olimpico della DDR dal 1973 al 1990  che alla fine del dibattimento subirà una risibile condanna a 22 mesi di carcere. In quelle aule il “14.25” verrà ribattezzato appunto “doping di Stato della DDR”.
Seguendo dettami e regole dell’Istituto Superiore di cultura fisica di Lipsia, la Germania Est avvia il reclutamento di bambini (in tutto 60.000) che vengono dirottati nelle scuole di addestramento e “tirati su” a pillole “bianche, rosse e blu”.

Grazie a questa discutibile (?) pratica di allenamento, una relativamente piccola nazione, di solo 17 milioni di abitanti, fu in grado di vincere in 30 anni e 5 olimpiadi, la cifra sbalorditiva di 437 medaglie di cui ben 153 d’oro “mangiando in testa” ai colossi sportivi di sempre. Ritengo assolutamente inutile ripetere il nome, peraltro famosissimo ed abusato, di quegli atleti che del resto, per una non trascurabile parte dei casi, addirittura ignorava di essere dopato.
Gli atti del processo, le ammissioni di quei campioni e le inchieste giornalistiche hanno però inequivocabilmente detto che quegli sportivi nella mitica divisa blu della Germania dell’Est erano programmati, manipolati, abusati con l’unico fine di vincere. Un sistema oscuro e malvagio, con dettagli inquietanti e dagli effetti devastanti per chi lo subì, consapevolmente o meno ed anche per chi lo ha abiurato e chi, ancora oggi, ha ritenuto di essere nel giusto accettando quegli aiuti farmacologici e medici. La Russia del 2015, e l’attuale “loro” doping di stato quindi può essere considerata tutto tranne che il primo degli apripista deviati.

Ma se lo sport è da considerare come l’accettazione della sfida con se stessi e la verifica quotidiana del proprio talento, e se questo in effetti significa misurarsi con i propri limiti, conoscerli ed accettarli, senza per questo non provare almeno a spostarli “un po’ più in là” con l’allenamento continuo e la passione… allora perché ci si dopa?
Potremmo rispondere che forse, non accettando lealmente la propria dimensione, l’atleta prova a mistificare la realtà aiutandosi con l’overboost di qualche supportino proibito. C’è anche da osservare con attenzione chi, in maniera manichea, associa lo scendere in campo unicamente con la vittoria della competizione, ossessionato da un mantra che per lui recita così: ho senso solo se vinco; dove “senso” va tradotto come “ragione d’essere al mondo”.
E c’è pure chi usa il doping perché… tanto lo fanno tutti e quindi implicitamente e tacitamente fa propria una prospettiva che sdogana il diabolicamente famoso “tutti ladri… nessun ladro!”. 
Ma sappiamo bene, tutti, che non è (o almeno non dovrebbe essere) così. Hai un “senso” (stavolta sì!!!) se ci provi fino in fondo dando in questo percorso di sofferenza sportiva, tutto te stesso e… vada come vada, perché sin dall’inizio del tragitto che vuoi percorrere hai deciso di non prendere scorciatoie, di bluffare sulle tue possibilità, di riporre in un angolo dimenticato la parte peggiore del tuo ego; un ego che avvelena non solo te atleta ma pure tutto il mare magno che ti sta intorno.

Ma alla fine del lungo giro che ho provato a fare, tutto questo mostrare, o meglio millantare una parte inesistente di sé, e non ha nessuna rilevanza né fa differenza se tu sei un singolo atleta o  il “piano di stato 14.25”, vi chiedo: non riconoscete a prima vista anche voi una certa somiglianza genetica fra lo sport malato di doping e comuni disturbi della personalità quali mitomania e megalomania?
E se anche la vostra risposta è “sì”, allora perché ogni qualvolta incontriamo il doping ne restiamo tanto sorpresi e sconvolti come se fosse sempre la prima e non conoscessimo invece da sempre questi comportamenti dell’uomo?