Ciò che avvenne a cavallo degli anni '30 e '40 in Germania e, in senso lato, in tutta Europa, resta una macchia indelebile nella millenaria storia del Vecchio Continente e, proprio per questo motivo, non può e non deve essere in alcun modo dimenticato.

Con il termine Shoah, letteralmente "la catastrofe" in ebraico, si indicano i milioni di morti tra individui socialmente emarginati ed ebrei attraverso cui i gerarchi nazisti traviarono per sempre l'immagine e la reputazione dei tedeschi, arrivando a tanto così dallo sterminare un intero popolo. Sono state scritte milioni di pagine su questa vergognosa e patologica vicenda di degradazione umana, così come film e documentari si sono moltiplicati a dismisura, e gli storici e i sociologi si sono immolati per scandagliare ed analizzare scientificamente le cause e le modalità di questo efferato omicidio di massa. In particolare, un piccolo coccio di questo castello di vetro frantumatosi in mille pezzi, un insignificante - almeno per la storiografia dell'epoca, non certo per l'orgogliosa memoria degli ebrei - frammento di quella Vergogna, è passata quasi in sordina: la storia del fortissimo, quanto celeberrimo, Sport Klub Hakoah Wien. 

​​​Per poter capire al meglio l'epopea e le fortune di questo storico club ebreo di Vienna non si può prescindere dal cogliere la sua caratteristica principale, ossia quel cosmopolitismo, quell'apertura mentale e culturale verso "l'altro",  tipica di un popolo straordinariamente curioso ed intraprendente come quello giudeo.
L'Hakoah, letteralmente la "Forza", nacque come polisportiva ebrea nel cuore della Capitale austriaca, accessibile a chiunque volesse praticare sport e condividere con gli altri gioie e fatiche, ma, ben presto, una sezione specifica di questa organizzazione sembrò primeggiare, prendendo il sopravvento in termini di adesioni e consensi: quella calcistica.
Inesorabilmente, le continue e incessanti vittorie sul campo del SK Hakoah, dalle sempre candide e intonse divise biancoblu con l'indimenticabile "Hacca" al centro e la stella di David sul cuore, fecero pendant con un successo senza precedenti anche fuori da quello storico - e sempre gremito in ogni ordine di posto - rettangolo di gioco, sito nel Secondo Distretto di Vienna, il Leopoldstadt. 

Nei primi anni Venti si faceva letteralmente a pugni pur di poter ottenere un biglietto e poter assistere all'immancabile vittoria di quegli undici leoni indomabili - nella stagione 1925/1926 ecco il primo trionfo nel campionato austriaco - clamore che non passò di certo inosservato nello stato maggiore del club, che cercò di cavalcare l'onda prima che questa venisse meno. Così, in nome di quel cosmopolitismo di cui sopra, venne organizzata dapprima un'amichevole a Londra contro il West Ham - la cui presunzione, tipica degli inglesi di quegli anni, veri ed unici fondatori del Football per antonomasia, fu demolita con un perentorio 5a1 - e poi una tournée direttamente negli Stati Uniti, dove l'arrivo del leggendario Hakoah di Bela Guttmann e Joszef Eisenhoffer fu accolto con giubilo soprattutto dalle minoranze - non proprio così minoritarie, a dirla tutta - ebraiche della regione. ​Qualcosa di magico ed imperscrutabile avvenne: al momento degli addii, i calciatori austriaci, innamoratisi del clima o delle formose ragazze statunitensi, attratti da laute ricompense in denaro, oppure spinti da chissà quali altre motivazioni, decisero clamorosamente di restare negli States, continuando a giocare per club locali. 

Tra questi spiccò, come già accennato, il leggendario Bela Guttmann - sì, proprio lo "Special One" ante litteram della celebre maledizione scagliata contro il Benfica e il suo destino europeo - giocatore e in seguito allenatore dell'Hakoan,  ​​​​​passato alla storia anche per il suo proverbiale attaccamento al "dio danaro", che lo spingeva a chiedere sempre enormi stipendi (e così fece anche al club viennese, dove si dice gli venisse garantito un guadagno pari a 1/4 di quello di tutti gli altri messi assieme). Furono perciò motivi di carattere prettamente economico a spingerlo a restare in America, dove "l'astuto ebreo", come lo chiamava Gianni Brera, si improvvisò anche manager degli Hakoah All Stars - antesignani dei giganti di Harlem, i Globetrotters del basket - prima di fare ritorno in Austria prima, al Marsiglia poi, sfuggendo contemporaneamente allo scempio dell'Olocausto, fatto di cui egli non volle mai dare spiegazioni, riuscendo a dribblare brillantemente (proprio come faceva in campo) scomode domande.
Atteggiamento opposto invece fu quello di Ignaz Feldamm, altro pilastro del Dream Team ebreo, che non ebbe invece remore nel ricordare quei tristi avvenimenti: fu salvato dal suo carceriere nazista, un ex ala dei rivali dell'Austria Vienna, che lo riconobbe e, in memoria dei vecchi, accesissimi ed indimenticati scontri in campo, lo lasciò andare incolume.

Storie di vita e di calcio, che si intrecciano in una spirale di ricordi e memorie che neppure l'eccidio nazista può cancellare. Storie commoventi e paradossali, proprio come quella del fortissimo ungherese Joszef Eisenhoffer, rimasto anch'egli in America giocando per i Brooklyn Wanderers prima, per i New York Giant poi, prima di far ritorno in Europa morendo tragicamente sotto il bombardamento nazista della sua Budapest. O come quella di Kurt Gerron, regista ebreo internato nel campo di concentramento di Theresienstadt, a cui fu promessa salva la vita in cambio della composizione del film sulla tragicomica - passatemi il termine - e surreale partita di calcio tra i superstiti del glorioso Hakaon, anch'essi rinchiusi in quel buco infernale, e i loro carnefici nazisti. 

Storie di vita e di calcio, di un club che oggi purtroppo non esiste più, sostituito dai dilettanti del Maccabi Wien: dilettanti sì, ma pur sempre discendenti di una fucina di talenti di cui si sentono i legittimi depositari storico-memoriali, che neppure il Nazismo è riuscito a ridimensionare ed infangare.