Era il 31 maggio scorso quando Luciano Spalletti, silurato dall’Inter, pronunciava parole al miele verso i tifosi interisti. “Uomini forti, destini forti” è stato il mantra del tecnico di Certaldo, uno slogan utilizzato in numerose conferenze stampa: in primo luogo come arma di difesa verso i ripetuti attacchi giornalistici, moltiplicatisi soprattutto durante i tribolati mesi del caso-Icardi; in second’ordine funzionale nel creare un rapporto idilliaco con il tifo nerazzurro, che proprio grazie a quelle parole sviluppava sempre più empatia con l’allenatore toscano. D'altronde Spalletti è l’allenatore che ha riportato l’Inter nell’Europa dei Grandi dopo anni di cocenti delusioni, guadagnandosi in sole due stagioni la nomea di miglior tecnico ad essersi seduto sulla panchina interista nella tribolata era post-mourinhana.

Nelle scorse ore il certaldese compariva come papabile successore dell'impaurito Giampaolo, incapace di riproporre in un grande club come il Milan quanto di buono fatto alla guida di Empoli e Sampdoria.
Sono rarissimi i casi in cui un allenatore passato da una parte all’altra del Naviglio nel volgere di pochi mesi non abbia avuto serie difficoltà ad imporsi: il più recente ed emblematico è rappresentato dal milanista Leonardo - degno erede del celebre mercenario Braccio da Montone - ingaggiato da Moratti poco tempo dopo la risoluzione consensuale in Via Turati. Nonostante l’impeccabile media punti conseguita il brasiliano pagò la doppia sconfitta con lo Schalke 04, una delle più clamorose ed imbarazzanti débacle – aggravata oltretutto dallo status di campione in carica della Champions League - patite dall’Inter nella sua epocale storia europea.
L’unica speranza per cui l’avventura in rossonero di Spalletti sarebbe potuta andare diversamente era riposta in questioni di carattere tecnico-tattico, essendo bravo poi a non farsi influenzare da quelle di natura puramente ambientale.

Qualora infatti il tecnico di Certaldo avesse ripetuto nella sua nuova esperienza la stessa linea comunicativa perpetrata in nerazzurro, ecco che le probabilità di avere successo al Milan si sarebbero affievolite con il passare dei mesi, poiché il tifoso medio rossonero non ha di certo l’anello al naso. Dopo che nelle ultime due stagioni sono state innumerevoli le occasioni in cui – dopo una sconfitta o un periodo di crisi – Spalletti abbia fatto appello al calore e all’attaccamento alla maglia della Curva Nord, l’uso della medesima strategia in quel di Milanello sarebbe risultato quantomeno contraddittorio. Delle due l’una: o Spalletti è interista fino al midollo – cosa peraltro parzialmente evinta dalle cravatte sfoggiate durante le partite -; oppure Luciano ha preso in giro tutti, fingendosi tifoso per mere questioni di opportunismo legate alla sua professione.

Al Milan Spalletti avrebbe giocoforza dovuto puntare tutte le proprie fiches sull’aspetto tattico nel tentativo di risollevare una squadra ai minimi storici. Aspetto tattico sul quale Giampaolo è fragorosamente caduto, dimostrando un’imbarazzante ed inaspettata confusione: puntare sul “suo” 4-3-1-2 per poi scaricarlo dopo soli 90 minuti ad Udine abbracciando un modulo a lui poco avvezzo è il principale capo d’imputazione con cui la dirigenza milanista – non esente da responsabilità – lo ha dapprima processato, poi colpevolizzato ed infine cacciato. Spalletti ha sempre dimostrato una certa intransigenza tattica, scegliendo il 4-2-3-1 sia alla Roma che all'Inter. Un modulo che al Milan avrebbe anche potuto avere successo, in quanto i giocatori per riproporre questo schema ci sono e sono validi: centrocampo a due con Biglia e Kessie a dettare le trame di gioco; come trequartista lo straordinario Paquetà visto sabato sera a Genova, che sotto le direttive del nuovo tecnico si sarebbe trasformato in un incursore “alla Nainggolan” potenzialmente devastante; là davanti la riesumazione di un'irriconoscibile Piatek, dalla cui rinascita passa gran parte delle fortune rossonere. 

"Non è vero che spesso sono stato l'unico a metterci la faccia, perché voi ci siete sempre stati! Tifosi forti... destini forti. Grazie delle 2.530.311 emozioni...", scriveva l’ex allenatore della Beneamata nel giorno dell’ufficializzazione di Antonio Conte come nuovo condottiero nerazzurro, utilizzando una foto con la squadra e sullo sfondo il popolo interista.
Quel popolo interista che non può di certo dimenticare colui che ha posto le basi di una rinascita che si prevede, nel prossimo futuro, del tutto inarrestabile.
Allo stesso modo è Spalletti che non deve dimenticare ciò che quel popolo gli ha trasmesso e verso il quale, per osmosi, lui stesso ha dato tutto. Nell'odierno mondo del calcio la componente professionistica ha ormai travalicato quella passionale. In questo senso appare giusto il parallelismo con altri due top-allenatori italiani come Sarri e Conte, che hanno scelto di allenare club storicamente antitetici a quelli del loro cuore.
Una differenza però c'è ed è meramente temporale: Spalletti avrebbe scelto di tradire la sua ex squadra - nella quale, tra l'altro, risulta ancora a libro paga per 20 milioni lordi fino al 2021 - dopo pochi mesi dalla sua dipartita, mentre gli altri due hanno compiuto l'ignobile passo dopo aver girovagato facendo sembrare un intricato disegno del destino, quando in realtà sono solo ottime giustificazioni ad una scelta meramente legata ai quattrini. 

Sorge un dubbio, sebbene la verità parrebbe evidente: è stato Spalletti, tra eleganti cravatte nerazzurre e martellanti slogan ad effetto, ad aver rifiutato la corte rossonera in quanto tifoso degli acerrimi rivali? Oppure a mandare tutto a monte ci ha pensato la salatissima buonuscita richiesta dal tecnico? O forse è stata l'Inter stessa - perdendoci dal punto di vista economico - a non voler liberare il suo ex allenatore per non favorire una possibile rinascita dei cugini?

Il sottoscritto un'opinione se l'è già fatta. I milanisti ne sono usciti comunque bene: se tutto fosse andato secondo i primi rumors, avrebbero vissuto soltanto lo Spalletti-allenatore rinunciando all'uomo-Luciano. Perché - nonostante il terremoto scatenatosi per i soldi negati da Zhang, segno che i rapporti tra le parti si erano già deteriorati - una parte del suo cuore sarà per sempre nerazzurro.
Come le cravatte che penzolano nel suo guardaroba.