"C'era un cinese in coma" è stato un bel film diretto da Carlo Verdone. Non un capolavoro ma si tratta di un'opera intelligente che nasce da una barzelletta vecchia come il mondo e da un luogo comune. I cinesi, di luoghi comuni, ne subiscono tanti. Forse il più famoso di tutti è "avete mai visto il funerale di un cinese"?

Ecco, prendendo spunto da quanto viene normalmente detto e scritto sul celeste Impero e sui suoi abitanti mi viene logico aggiungere uno spunto di riflessione a cui molti non hanno pensato o dato il giusto peso.
Avete mai assistito ad un fallimento di un'azienda cinese? La risposta ve la do io.

Magari non ne avete avuto notizia, ma il fallimento è una procedura che esiste anche per il colosso asiatico. Tuttavia, enormi sono le differenze dal punto di vista pratico. Se il Governo cinese ritiene strategico l'asset in questione interviene senza mezzi termini per salvare l'impresa (i tentativi anche falliti con Hanjin e Suntech lo stanno a dimostrare) anche se, nonostante tutto, l'asiatico vive il fallimento in maniera molto diversa dall'occidentale. Gli statunitensi pensano che sia un'opportunità per qualcuno oltre che un disastro per altri (il film Wall Street ma anche il curriculum vitae del Fondo Elliot lo stanno a dimostrare). Non solo. Essi considerano importante che un imprenditore che chiede loro dei soldi abbia già vissuto sulla sua pelle una simile esperienza. Può sembrare paradossale ma la mentalità degli yankee è così diversa dalla nostra che per loro un fallimento è una nota di merito. Diffidano di quegli imprenditori che non sanno cosa vuol dire perdere la propria creatura perché gli affari sono andati male. Come a dire che se vuoi conquistare la loro fiducia devi aver sbattuto la faccia contro la porta una volta nella vita. I cinesi, invece, sono un popolo orgoglioso e pensano (anche nell'impresa privata) come un tutt'unico e perciò l'esperienza del fallimento viene vissuta in maniera più corale e distante dal concetto di impresa, di rischio d'impresa e di imprenditore. Per loro è importante, se non fondamentale, ridurre al minimo le ripercussioni per gli investitori cinesi. Anche a costo di indurre lo Stato ad intervenire nella questione. 

In quest'ottica si possono interpretare, ad esempio, le rimostranze fatte recentemente sugli investimenti non giustificati nel mondo del calcio e che sembra abbia coinvolto il Suning Group. La tv statale cinese Cctv aveva espresso critiche proprio sull’acquisizione dell’Inter, chiusa a giugno 2016, al prezzo di 270 milioni di euro, definendola «irrazionale». L’Authority di vigilanza cinese ha ordinato alle principali banche nazionali (noi un provvedimento simile ce lo potremmo solo sognare) di bloccare i prestiti a Dalian Wanda Group, colosso dell’immobiliare e dell’entertainment che ha Infront nel suo paniere, società che come sappiamo molto bene controlla i diritti tv per la Lega Calcio, lo sponsoring di Milan e Lazio, l’Ironman e i diritti della Coppa del mondo di sci. Il problema fondamentale per la Cina però, in ognuno di questi casi, è che vengano tutelati gli interessi degli investitori del Continente.
Noi lo chiameremmo protezionismo. Nella saga dei luoghi comuni sulla Cina si potrebbe chiamare... prassi.