C'era una volta una sirena, una creatura fiabesca dal viso di donna e dal corpo di pesce, che cantava con voce meravigliosa. Si chiamava Partenope e decise di abitare nel golfo più bello del mondo, in Campania, tra verdi colline e con il vulcano grigioazzurro, il Vesuvio, sullo sfondo.
Sarà vera la leggenda? I Greci antichi fondarono lì vicino una città e la chiamarono Neapolis, "città nuova".
Così nacque Napoli, e da allora si dice "partenopeo" tutto ciò che riguarda questa città, unica per i suoi splendori, ma anche per i suoi problemi.

Potrebbe iniziare così un doveroso e degno riconoscimento alla città che ha visto protagonista uno dei più grandi fuoriclasse del mondo pallonaro: Diego Armando Maradona.
Oggi, me la concederete, una immensa standing ovation, invece, deve essere fatta alla mia Fiorentina.

"Staje luntana da stu core,
A te volo cu 'o penziero:
Niente voglio e niente spero
Ca tenerte sempe a fianco a me!
Si' sicura 'e chist'ammore
Comm'i' só' sicuro 'e te...
Oje vita, oje vita mia...
Oje core 'e chistu core...
Si' stata 'o primmo ammore...
E 'o primmo e ll'ùrdemo sarraje pe' me!".

Per comprendere fino in fondo il senso dell'impresa dei ragazzi, guidati in maniera impeccabile da mister Italiano, bisogna decisamente, partire dalla fine. Quando, dopo cinque minuti di recupero, tutta la panchina viola si è rovesciata in campo, come una marea, un abbraccio enorme, a metà fra lo stupore e la gioia: è stato il simbolo di una gioia incontenibile. A quel punto dal settore ospiti, ma credetemi che anche il sottoscritto a casa ha fatto lo stesso, i 300 ultrà della Fiesole hanno intonato "'O surdato 'nnammurato" in uno stadio Maradona, colmo di oltre cinquantacinquemila persone, rimasto annichilito.
Eppure è strano che, come i corsi e ricorsi storici, nella storia recente della società azzurra, si siano sempre intrecciati con quella della squadra viola. Voglio sottolineare le due volte in cui il Napoli ha perduto lo scudetto proprio contro di noi, ma rendergli soprattutto omaggio proprio quando, con un giovanissimo Baggio, la Fiorentina strappò un punto al San Paolo salvandosi matematicamente, consegnando meritatamente l'apoteosi a un pubblico straordinario.
Una ieri pomeriggio; è evidente che lasciare i tre punti in casa, a una manciata di partite dalla fine del campionato, è quanto meno delittuoso.
È vero che le concorrenti non stanno correndo, partecipando di fatto a una sorta di torneo "vinciperdi" dove, chi rinuncia all'ultimo carro del vincitore, sembra, per paradosso, essersi liberato di un peso. Il Milan ha rischiato molto contro i cugini granata che non avevano niente da chiedere; l'Inter, la più forte, ha perso terreno e gran parte del vantaggio dopo la batosta della Champions e forse adesso può sperare di cucirsi addosso il Tricolore (da mio cognato, sfegatato nerazzurro, in giù siete autorizzati a toccarvi...). La Juventus, quest'anno, così come lo scorso, deve ripassare dal via come al gioco dell'Oca.

La seconda volta in cui abbiamo, di fatto, tolto la grande possibilità di vincere lo scudetto è stato il 29 aprile 2018, quando li sconfiggemmo in maniera netta e inequivocabile con una tripletta di Simeone. Si dettero, come scusa da provinciali, che la Juventus, giocando il sabato sera, aveva avuto il vantaggio di "amministrarsi". Purtroppo Sarri e Spalletti, due ottimi allenatori davvero, hanno il difetto di fare giocare bene le proprie squadre ma inadatti a vincere. Solo all'estero ci possono riuscire; non voglio fare la "Volpe e l'uva" in quanto a Firenze, prima di Italiano, li avrei presi di corsa. In altri contesti, purtroppo, vicini al risultato finale, sono inadatti a portare la nave in porto. Tra l'altro, dispiacere doppio, in quanto entrambi simpatizzanti viola e residenti in una delle campagne più belle a pochi chilometri dalla città.

Mercoledì 4 luglio 1984 alle 14:05 Maradona tocca il suolo italiano, a Fiumicino, proveniente da Barcellona. Ancora una volta la società è impietosa, decide di giocare a rimpiattino, dice e non dice, mantiene assurdi segreti sul programma, sembra un affare di Stato. Arduo il correre dei cronisti d’ogni Paese per le mille piste che s’indovinano e s’incrociano tra la città. Finisce che il Napoli calcio vince la sua inspiegabile battaglia: il blitz per le visite mediche, poi la firma in sede e infine il trasferimento a Capri per la cena. È il sintomo di una organizzazione fragile, che vacilla paurosamente sotto il peso di una vicenda che assume contorni quasi grotteschi. Così anche la grande cerimonia della presentazione trascura lo spettacolo (l’elicottero è stato scartato, pare, per motivi di sicurezza) e si tuffa nella confusione e nel pressappochismo.
Ho visto l'ultimo film di Sorrentino imperniato sulle proprie vicende personali intrecciando la storia con l'arrivo del Pibe de Oro; lo consiglio perché rende perfettamente l'idea con quello che accadde in città in quei giorni.
E dire che cinquantamila napoletani pagarono un simbolico biglietto imposto dalle autorità di polizia per motivi di ordine pubblico, con incasso devoluto in beneficenza.
L’addetto stampa urlò emozionatissimo dall’altoparlante: "Sportivi napoletani, oggi che il mondo ci guarda, cerchiamo di essere correttissimi". Non è l’ora delle decisioni irrevocabili, né d’altronde l’invito appare indispensabile, dato che sugli spalti la disciplina, pur nell’esplosione incontenibile di tifo e affetto, è completa e inattaccabile.
In campo invece batte l’ora del caos: Diego esce dal sottopassaggio sommerso dall’assedio di fotografi, dirigenti, addetti, forza pubblica. Si prende paura, torna giù, poi risale, mentre l’urlo non solo del San Paolo, ma di tutta Napoli, si leva altissimo al cielo; è un rombo impressionante, una incitazione continua a tutta gola che durerà ininterrotta fino alla fine.
Per un po’ gridano sulla fiducia: Dieguito è sovrastato dai tanti che gli stanno attorno, non si riesce a vederlo.
La gente allora è un unico coro: "Fuori, fuori". I ricci argentini appaiono finalmente al tifo e al cuore di Napoli. La confusione è totale, due fotografi vengono addentati dai cani della forza pubblica, il mucchio selvaggio con al centro, invisibile dagli spalti, il campione, ondeggia paurosamente.
Finalmente Diego rompe l’assedio, infrange il cerimoniale, parte di corsa per un giro di pista al piccolo trotto in mezzo alla bolgia sonora che lo copre e quasi vorrebbe rapirlo. Un ragazzino di ventitré anni e mezzo dal sorriso velato di malinconia è laggiù, minuscolo e riccioluto, epicentro finalmente visibile di una intera inarrestabile sommossa d’ovazioni. Manda baci e saluti, fa il segno della vittoria, pare ammiccare con una smorfia da scugnizzo: li ha già conquistati. Quella che avrebbe dovuto limitarsi, nelle assurde intenzioni della società, a una fugace apparizione, è già una marcia trionfale. Poi torna al centro del campo, chi lo attornia finalmente si siede in cerchio.

La futura "Mano di Dio" chiede il microfono, e tutto d’un tratto la montagna di suoni assordanti si sbriciola al suolo come d’incanto, mentre cala un irreale silenzio, quasi qualcuno avesse spento un invisibile interruttore.
"Buonasera napoletani -  squilla il campione - io sono molto felice di essere con voi". Nel boato che si riaccende incontenibile prende un pallone, accenna un palleggio, poi calcia altissimo di sinistro a campanile. "Forza Napoli", conclude mentre il tripudio si leva assordante come un bombardamento di voci. Il più forte calciatore del mondo ora è di un’intera città impazzita. Dopo poco sparirà inghiottito dal sottopassaggio, e la festa, pur così povera per inspiegabile volere della società, dilagherà come un fiume in piena per ogni strada di Napoli.

Il torrente esce dallo stadio e corre a distesa fino al lungomare, paralizza per ore la città al suono di clacson e cori scanditi a squarciagola, come neanche per un trionfo Mundial. Dieguito ingrosserà le schiere di napoletani ai botteghini degli abbonamenti e delle partite domenicali, offrirà spettacolo e rivincite per tutti quelli che così poco hanno dalla vita in dono per gioire. Porterà allo stadio plotoni di ragazzi, dirottandoli magari dalle vie sbagliate che come rivoli si dipanano dal cuore ferito di questa città. E allora? È proprio un delitto questo "affare Maradona", come molti si sono affrettati a proclamare, spargendo sale sulle piaghe di Napoli? Quelle piaghe che certo non provvedono loro a guarire. I cronisti non sportivi, che un po’ da ogni parte son piovuti nei giorni immolati a Maradona, son venuti a cercare qua e là le pennellate d’ineguagliabile colore partenopeo: quelle manifestazioni di affetto e gioia che ai loro occhi appaiono più incomprensibili, le curiosità e i mille appigli per ironizzare su una civiltà che continuano a considerare irrimediabilmente pietrificata su una incorreggibile smorfia di irrazionalità.

Con tutti i problemi che hanno, sussurrano i loro sguardi di disarmato rimprovero, gli basta Maradona per accendere i fuochi d’artificio d’una felicità fugace come uno scroscio di luce nel cielo notturno. Eppure, avverti allora ammiccare prontamente le voci della gente, è per Maradona e solo per lui che voi siete qui: non fosse stato per Dieguito oggi non riempireste i nostri alberghi, non svuotereste le nostre bancarelle, non comprereste le mille invenzioni partenopee che apposta vi abbiamo fatto trovare.

Adesso Diego Armando, che è già il nome di centinaia di piccoli napoletani nati in queste settimane, è in volo per l’Argentina verso quindici giorni di vacanze. Adesso, tra poco, i clacson si placheranno lentamente. Domani è un altro giorno: ma, nel segno di Maradona, è forse già fin d’ora un po’ meno buio. La gioia stasera a Napoli sembra così sconfinata che pare essersi ipotecata il futuro.

L'impatto di Maradona col campionato italiano è decisamente buono. Ma i suoi 14 gol non cambiano volto a un Napoli che, nonostante gli innesti di Bagni e dell’ala argentina Bertoni, ex funambolo viola, non riesce ad andare oltre l’ottavo posto. Per migliorare Ferlaino si affida nell'estate del 1985 a Italo Allodi, dirigente che sul mercato ha pochi rivali. Prima mossa: in panchina, al posto di Rino Marchesi, finisce l’emergente Ottavio Bianchi, che ha appena condotto alla salvezza il Como. La squadra che gli viene affidata ha una spina dorsale nuova di zecca: in porta c’è Garella, fresco campione d’Italia col Verona; in regia spazio a Eraldo Pecci e, in attacco, ecco finalmente il centravanti che mancava: l’ex bandiera della Lazio Bruno Giordano. L’obiettivo è palese, ma sulla strada degli azzurri c’è una Juve quasi imbattibile, che a metà stagione si è già ritagliata sei punti di vantaggio.
Servono ulteriori rinforzi, chiaro. Così l’attacco viene completato con l’inserimento di Andrea Carnevale, che si era distinto nell’Udinese, e il centrocampo col giovane cursore Nando De Napoli. Nell’ottobre del 1986, a campionato già iniziato, l’ultimo tassello: dalla Triestina arriva il playmaker Francesco Romano. Fu, inaspettatamente, la ciliegina sulla torta.
Che sia la volta buona? Un segnale positivo giunge già alla nona giornata. Al San Paolo Napoli e Juve, appaiate in cima alla classifica, si giocano il primato. Segna Laudrup, ma a un quarto d’ora dalla fine Ferrario e Giordano ribaltano il risultato in un minuto. Al 90’ Volpecina segna addirittura il 3-1 e il Napoli vola. Campione d’inverno con due punti di vantaggio sull’Inter. Arriverà adaverne cinque, in parte dilapidati con una sciagurata sconfitta interna per mano del Verona. A due giornate dalla fine Napoli 40 e Inter 37: al San Paolo c’è Napoli-Fiorentina.
Pensai che sarebbe stato impossibile uscirne senza le ossa rotte e forse, per nostra Grazia, una volta che a loro risultò sufficiente il pareggio, staccarono il piede dall'acceleratore...
La città paralizzata, i bagarini si arricchiscono. Pareggiammo 1-1: al goal di Carnevale al 29′, rispose la punizione di Baggio che pareggiò i conti dieci minuti più tardi. Quel pomeriggio fu una partita che si giocava col corpo al San Paolo, ma con la mente e soprattutto le orecchie a Bergamo, dove l’Inter, che contendeva lo scudetto al Napoli, perse sorprendentemente contro l’Atalanta. Non c’era più storia, o meglio, la storia era ormai scritta e il punto finale alla frase conclusiva dell’ultima pagina del libro più bello di sempre era stato messo: "17.47, 10 maggio 1987, il Napoli è Campione d’Italia".
Garella, Bruscolotti, Volpecina, Bagni, Ferrario, Renica, Carnevale, De Napoli, Giordano, Maradona, Romano.
Questi eroi fecero vincere la città di Napoli, ancora prima dello scudetto. Il primo di una squadra del sud Italia.
"Maradona ha detto una cosa molto bella sul calcio, che vale anche per il cinema. Diceva che il calcio è un gioco che si basa sulle finte: fai finta di andare a sinistra e poi vai a destra. La stessa cosa vale per il cinema" - sottolineava il The Guardian.
"Grazie a Toni Servillo e Nicola Giuliano, grazie agli attori e ai produttori. Grazie alle mie fonti di ispirazione, i Talking Heads, Federico Fellini, Martin Scorsese, Diego Armando Maradona", le parole di Sorrentino sul palco del Kodak Theatre, nell'ambito della 86esima edizione degli Academy Adwards. "Mi hanno insegnato tutti come fare un grande spettacolo, la base per il cinema. Grazie a Napoli e a Roma, e alla mia personale grande bellezza, Daniela e i nostri due figli. Sono molto emozionato...".

Ti hanno ringraziato tutti, Diego. Ti voglio omaggiare anche io ricordando un tuo goal all'Artemio Franchi dopo che il giorno prima, insieme ad altri ragazzi della Fiesole, ci eravamo messi a spalare una insolita nevicata a Firenze pur di fare disputare la partita.
Perdemmo e andai a casa con la "coda tra le gambe" ma ricordo ancora le emozioni per aver avuto la possibilità di ammirarti dal vivo. Mi succederà poco dopo con l'altro immenso Genio Assoluto: il Cigno di Utrecht Marco Van Basten.

L'imperfezione è bellezza, la pazzia è genialità; meglio essere folli, per meritare un applauso, che ridicoli.
In fondo, ardere in un'unica fiamma è molto meglio che spegnersi lentamente.