"Come una madre, la terra 
nutre e accoglie i suoi figli sempre, 
e noi dobbiamo amarla 
senza riserve.
La terra ci parla 
anche attraverso i suoi silenzi 
e ci insegna a rispettare 
tutti gli esseri viventi.
È fonte di vita 
e di armonia,
e della bellezza 
un'allegoria.
Un dono,
che dobbiamo custodire con amore, perché è la casa che ci ospita 
e ci dà calore".

Vajont è il nome di un torrente che, a cavallo tra Friuli Venezia-Giulia e Veneto, scorre nella valle di Erto e Casso per confluire poi nel Piave in provincia di Belluno. Purtroppo, questo nome è tristemente associato al disastro ambientale di sessant'anni fa.
Infatti nel 1963... una montagna di fango e pietre distrusse il mondo, la storia, le vite della gente dei paesi devastati dalla costruzione della diga del Vajont.
I lavori cominciarono nel 1957; furono consultati i migliori specialisti internazionali per valutare la stabilità della roccia.
Le caratteristiche della diga erano numerose; aveva, innanzitutto, una forma ad arco con una doppia curvatura. Il materiale utilizzato fu il calcestruzzo: presentava un'altezza di 261,60 metri; la quota alla base era di 463,90 m.s.l.m., mentre quella dal piano della strada di 725,50 m.s.l.m. Presentava una larghezza di 22,11 metri ed una, nella sommità, di 2,92 metri. Furono diverse le imprese che collaborarono con quella principale, le quali contribuirono alla "buona" riuscita della diga; quella che la portò a termine fu la "Giuseppe Torno & C. S.p.A. Milano" e venne inaugurata il 17 ottobre del 1961.
In seguito alla frana, si cercò di capire il motivo e vennero condotti diversi studi, tra cui l'ultimo, più accertato, avvenne nel 1985 da parte di Müller, Trevisan e Hendron-Patton.
In questo primo studio non si rivelarono problemi anche se la conclusione fu che la riserva idrica poteva causare frane.
Nel 1959 il geologo Edoardo Semenza scoprì, in una ricognizione sul campo, la presenza, nel versante sinistro, di evidenti pericoli, ipotizzando la possibilità di una frana. Mentre le ispezioni geofisiche del Prof. Pietro Caloi sembravano invece indicare, nello studio successivo, che la zona a sinistra della vallata fosse "eccezionalmente" solida.
Nel 1959 la diga fu terminata e si iniziò a riempire l'invaso, ma il 4 novembre 1960, con il livello del lago a 650, vi fu una frana di medie dimensioni (800.000 m³) sul versante sinistro. Dopo questo evento si studiò il territorio e si proposero varie ipotesi per evitare frane ma tutte giudicate troppo costose e difficili da realizzare.
Nel 1960 ripresero gli studi geosismici e nel 1961 un modello in scala del bacino del Vajont fu approntato e testato presso l'Università di Padova ipotizzando l'eventualità di una frana.
Fu considerato sufficiente, per non dover temere né cedimenti della diga né svasi oltre la stessa da parte delle onde anomale generate, non più alte di una trentina di metri, corrispondenti a 40 milioni di metri cubi nella peggiore delle ipotesi.
Nella realtà la frana fu di quasi 300 milioni di metri cubi (circa 8 volte il valore massimo previsto) e si mosse a velocità tripla di quella prevista; tutto ciò produsse un'energia cinetica di quasi cento volte superiore al massimo previsto, e il livello dell'onda superò i 200 metri sul coronamento della diga.
Nel frattempo furono impiantati dei marcatori di terreno per visualizzare i movimenti della frana.
La strategia fu lo svuotamento lento del bacino, da realizzare con molteplici manovre di diminuzione del livello, intervallate ciascuna da una pausa di alcuni giorni per dare il modo e il tempo al materiale di assestarsi nonostante il cambiamento di condizione idraulica.
Così, il movimento della frana "quasi" si bloccò in breve tempo, e non si sarebbe riattivata.
Dal 1961 al 1963 furono praticati numerosi invasi e svasi per limitare il più possibile le possibilità di smottamento del terreno circostante la diga. Gli abitanti della zona denunciarono scosse del terreno e telluriche; inoltre venivano chiaramente uditi boati provenienti dalla montagna.
Alla fine dell'estate del 1963, poiché i sensori rilevarono sussulti preoccupanti della montagna, venne deciso di diminuire gradualmente l'altezza dell'invaso per cercare di evitare il distacco di una frana affinché potesse provocare un'onda che scavalcasse la diga.

Alle 22:39 del 9 ottobre 1963 si staccò una costa del Monte Toc lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra.
In circa 20 secondi la frana arrivò a valle, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale.

L'impatto con l'acqua generò tre onde: una si diresse verso l'alto, lambì le abitazioni di Casso e, ricadendo sulla frana, andò a scavare il bacino del laghetto di Massalezza; un'altra si diresse verso le sponde del lago e, attraverso un'azione di dilavamento delle stesse, distrusse alcune località in comune di Erto e Casso e la terza (50 milioni di metri cubi) scavalcò il ciglio della diga, che rimase intatta, ad eccezione del coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al versante sinistro del Vajont, e precipitò nella stretta valle sottostante.
I circa 25 milioni di metri cubi d'acqua, che riuscirono a scavalcare l'opera, raggiunsero il greto sassoso della valle del Piave e asportarono consistenti detriti che si riversarono sul settore meridionale di Longarone, causando la quasi completa distruzione della cittadina e di altri nuclei limitrofi e la morte, nel complesso, di 1917 persone.

Nessuno parli a meno che non si possa migliorare il silenzio...

Alle ore 5:30 della mattina del 10 ottobre 1963 i primi militari dell'Esercito Italiano arrivarono sul luogo per portare soccorso e recuperare i morti. Tra i militari intervenuti vi erano soprattutto Alpini, alcuni dei quali appartenenti all'arma del Genio, che scavarono anche a mano per riuscire a trovare i corpi dei dispersi.
Furono recuperati solo 1500 cadaveri, la metà dei quali non fu possibile riconoscere.
Si parlò di fatalità, ma non fu così. C'era stato chi aveva previsto la tragedia essendo la diga costruita su un terreno inadatto. La bravissima giornalista de l'Unità, Tina Merlin, cercò di portare alla luce la verità, indagando fra omertà e scarichi di responsabilità. Un funzionario si tolse la vita. Il processo, durato decenni, produsse solo condanne ridicole.
Dal 15 al 25 marzo del 1971 a Roma si svolse la Cassazione, dove venne confermato il verdetto del processo di secondo grado, ma, al contempo, ridotte le pene a Biadene e a Sensidoni: il primo fu condannato a cinque anni di reclusione (poi in parte condonati per problemi di salute), il secondo a dieci mesi.

Oggi la diga, che appartiene all'Enel, è stata in parte aperta al pubblico nel 2002 con visite guidate e accesso alla passerella lungo la sommità e in altri luoghi limitrofi. Nel 2006 è stata inaugurata una manifestazione annuale di pista intitolata "Sentieri della Memoria", che permette ai partecipanti di accedere ad alcune località all'interno della montagna. Nel 2008, nell'Anno Internazionale del Pianeta Terra, l'UNESCO ha ricordato la tragedia della diga del Vajont come uno dei cinque "racconti cautelativi" causati dalla mancata professionalità di ingegneri e geologi. Nel 2013, in occasione del cinquantesimo anniversario del disastro, la Regione Veneto ha stanziato un milione di euro per le opere di messa in sicurezza e recupero dei corridoi interni alla montagna appartenenti alla Strada Colomber.
Consiglio, per chi vorrà, guardare il docufilm che sta trasmettendo Sky: una pellicola verità davvero ben fatta.
Longarone e i paesi colpiti sono stati ricostruiti, ma il disastro rimane una cicatrice indelebile, soprattutto alla luce del fatto che poteva essere evitato. Il giorno antecedente la catastrofe gli strumenti di rilevazione avevano mostrato che il versante del Monte Toc si era mosso in poche ore di più di mezzo metro: si era dunque deciso di svuotare il lago, e ciò, paradossalmente, fu uno dei fattori scatenanti della frana. Nel 2008 l'Onu ha classificato la tragedia del Vajont come il peggior esempio tra i disastri evitabili provocati dall'uomo.

Alberico Biadene: "Pancini?!"
Pancini: "Ingegnere? Che fa lei qui?"
Alberico Biadene: "Avevo bisogno di stare un po' da solo. In certi momenti non si sa più a che Santo votarsi... Abbiamo portato il lago a 710 m di quota, e quella maledetta montagna ci sta scivolando dentro!"
Pancini: "Da Roma che dicono?"
Alberico Biadene: "Roma è lontana, credo che l'unica cosa da fare sia togliere quanta più acqua possibile, almeno fino a quota 700, ma voglio scendere più sotto almeno a 690, sa, per creare una fascia di sicurezza, per le ondate, capisce?"
Pancini: "Non ha paura che possa essere peggio? Forse, è proprio l'acqua che tiene su la frana".
Alberico Biadene: "Lo so che è pericoloso, ma è pericoloso comunque. Non ho altre alternative. Il fatto è che negli ultimi giorni la velocità di slittamento della frana è notevolmente aumentata..."
Pancini: "Mi ascolti, io le consiglierei di fare così..."
Alberico Biadene: "Io non pensavo che non... veda, ormai tutto fa pensare al peggio! Sul Toc, verso la zona del Piano della Pozza gli alberi sono tutti inclinati, e inoltre la linea della frana si è aperta in modo impressionante, anche più su, verso Pineda, dove è sempre rimasta ferma, anche lì si è mossa... Dobbiamo svasare, se la sente di occuparsene lei?"
Pancini: "No, forse lei non si ricorda, ho preso le ferie, domani parto per quel viaggio negli Stati Uniti..."
Alberico Biadene: "Domani?!"
Pancini: "Ci sarebbe Montaner..."
Alberico Biadene: "No, il fatto è che non mi fido più di nessuno, neanche di me stesso, sennò, forse non sarei qui..."
Pancini: "La religione non è un portafortuna. Non si può estrarre dalla tasca quando serve".

Uno dei sopravvissuti, come ultimo frame, afferma che: "Ogni tanto qualcuno mi chiede se ho perdonato. No. Non ho perdonato. Non potrò mai perdonare gli uomini che hanno consentito tutto questo".


Questa è una delle tante, troppe storie italiane, che finiscono sovente in un cassetto e non sempre della memoria. Giusto dopo oltre mezzo secolo perdonare? Non posso dirlo né tantomeno immaginarlo; le tragedie, anche solo per valutarle, devono aver creato solchi nell'anima.
Una cosa certa è che il perdono non sostituisce la giustizia, se veramente giusta. C'è una bella differenza, infatti, tra perdonare e dimenticare. Perdono e vado avanti perché voglio farlo, ma ciò che ha fatto male ha lasciato delle cicatrici che non se ne andranno mai. Non faranno più male, ma resteranno lì a ricordare che dare troppa fiducia a volte è un errore che si paga caro.
E allora? So già cosa volete dirmi miei cari amici: tu su quale piedistallo prendi posizione Ginni?
Perdonare e dimenticare? Non sono Gesù Cristo e non ho l'Alzheimer...