Un 2020 che fa da tappeto rosso a tutti i film apocalittici a cui siamo stati abituati: Australia in fiamme, un’ombra della terza guerra mondiale, la morte di Kobe Bryant, l’eruzione del vulcano Taal, fino ad episodi di razzismo (sì, nel 2020 esiste ancora) indirizzati a Silvia Romano e al caso Floyd, che sta scaturendo rivolte nella grande mela. Ah già, dimenticavo, in tutto questo, anche il Coronavirus. Ma a scenari devastanti che hanno condizionato il nostro immaginario nelle sale cinematografiche o sulla poltrona di casa, una volta terminata la riproduzione, uscivamo dal cinema, commentavamo il film e poi ognuno per la sua strada; oppure, se rimasti a casa, cambiavamo canale o semplicemente spegnevamo la tv. Qui, invece, è una routine continua, una fine senza fine, come il cane che si morde la coda e gira su se stesso. Un loop. Per diversi mesi si è fermato tutto: produzione, negozi, bar, pub, centro commerciali. Di tutto, persino le riprese per i film sono state tutte posticipate. Qualsiasi cosa. Anche il calcio, ma questo merita un discorso a parte.

Un lavoro sporco, ma qualcuno dovrà pur farlo
Quando si sta male emotivamente si beve. Molti credono che il giusto rimedio sia annegare i problemi nell’alcool; bene, lo stesso lo si sta facendo con il calcio: annegare i problemi dietro ad un pallone. Sebbene non tutti abbiano cantato in coro, Bundesliga, Premier, Ligue 1 e Serie A hanno deciso di ripartire. La prima tra queste già ha iniziato. “Il calcio deve ripartire perché i tifosi lo vogliono” è la frase più sentita degli ultimi dieci anni, dietro solo a “Prima gli italiani” di Salvini.

Ma i tifosi, siamo proprio sicuri che lo vogliono?
Cominciamo con il dire che i tifosi sono quelli che pagano per andare allo stadio, quelli che pagano servizi pay per view, quelli che, nella totalità, sono stati colpiti dal Covid-19. Colpiti sia materialmente – chi ha perso un lavoro, chi ancora deve ricevere la cassa integrazione dei mesi passati, chi non ha più le stesse entrate – sia immaterialmente – con la perdita dei cari e di chi ha visto entrare un proprio familiare nelle mura ospedaliere e ancora deve uscire. Insomma, ferite che di certo non verranno mai risanate da due calci al pallone o una partita da novanta minuti. E se una parte di questi ha perso il lavoro, non sa dove mettere le mani perché i soldi non ci sono e deve scegliere se mangiare il lunedì o il martedì, può permettersi di pagare un abbonamento per risanare queste ferite? Una partita di novanta minuti vale davvero così tanto?
Ovviamente a pagarne le conseguenze sono anche i calciatori. Badate bene che, seppur prendono stipendi stellari, che nemmeno in trent’anni di vita è possibile raggiungere cifre che qualche star guadagna in un mese, sono sempre esseri umani; umani con una vita alle spalle; umani con delle famiglie; umani che a casa ad aspettarli ci sono mogli e figli.

Burattini del business economico
Persone che si sono ammalate dentro casa, rispettando il periodo di quarantena, senza neppure sapere se avessero contratto il Covid-19; persone che hanno contratto il virus, ma essendo asintomatiche e non essendogli stati fatti tamponi, hanno continuato a contagiare chiunque avessero incontrato per la loro strada; persone che sono state a casa per due mesi, in attesa dei tamponi promessi, senza sapere cosa sarebbe successo loro, visto il rapido progredirsi della malattia se non curata e che hanno dovuto leggere – su internet, su articoli di giornale online perché non potevano scendere all’edicola, o in televisione – che i calciatori venivano bombardati da tamponi. Tre, quattro, cinque tamponi a non finire. Mogli incluse ovviamente.
Ritorno al paragrafo precedente riscrivendo la stessa frase: “ovviamente a pagarne le conseguenze sono anche i calciatori”. Il fatto che gli venga fatto un tampone, anzi, più tamponi alla volta, non è per un gesto di carità o perché è importante la loro salute come quella dei loro cari. Assolutamente no. Sono burattini del business economico. Manovrati dalle mani dei poteri forti, di chi sta nei piani alti. Perché se a Paulo Dybala sono stati fatti una miriade di tamponi e al signor Mario Rossi nemmeno uno, è perché il sig. Mario Rossi non gioca a pallone. Non è carità quella che viene fatta nei loro confronti, ma è la stessa identica cosa di chi sposa per l’eredità; bene, i calciatori sono l’eredità annuale che lasciano alle loro società di appartenenza. Anche loro hanno contratto il virus e sicuramente hanno avuto paura, come qualsiasi altro cittadino italiano. Ma sono stati ipercontrollati, sono stati bombardati da tamponi e seguiti dai medici. Perché loro mandano avanti la società di appartenenza, il cittadino italiano no.
Ma senza di loro le società si indebitano o falliscono, quindi per forza devono scendere in campo.
Vero, tant’è che diversi giocatori si sono tagliati lo stipendio. Scelta della società o scelta magnanima? Nessuno lo sa, ma resta il fatto che se un presidente si indebita tutti ne parlano, se un cittadino muore di fame, rimane solo un numero del bollettino delle 18.

La contraddizione della sicurezza
Stadi vuoti e le voci delle urla dei giocatori e degli allenatori ora percepibili. Hanno pensato perfino di mettere delle sagome al posto dei tifosi, così da rendere più realistico l’ambiente. Un campionato che parte solo se è possibile mantenere le norme di sicurezza. Non più strette di mano e niente più abbracci al momento del gol; distanziamento in panchina; ci si allena rispettando le distanze. Tutto perfetto, peccato solo che in campo scendono ventidue giocatori, undici di una squadra e undici di un’altra; peccato che i falli esistono ed è possibile trovarsi uno sopra l’altro; peccato che i giocatori non possono marcarsi con la mente; peccato che sudano, corrono e si scambiano potenziali batteri pericolosi in continuazione, sia con i propri compagni sia con gli avversari. Una carrellata di contraddizioni che è possibile vedere negli highlights di tre minuti, figuriamoci in una partita di un’ora e mezza.

E se un giocatore si contagia durante la riapertura del campionato?
Questo è successo nel periodo di fermo. Decine e decine di giocatori, inclusi staff e anche familiari (come ha affermato Pradè che ha portato il virus alla figlia, alla moglie, ai nipoti, ai cognati e ai suoceri), tutti venivano sottoposti al periodo di quarantena. Ovviamente fin quando il campionato è fermo non è un problema se tutta la squadra rimane dentro le proprie mura domestiche. Lo diventerà sicuramente se questo accadesse appena si riparte. In quel caso cosa faranno, stopperanno tutto di nuovo affermando che la propria scelta sia stata fallimentare? Faranno in modo che non si venga a sapere e quindi le società taceranno? Inventeranno un nuovo infortunio per il possibile contagiato, fin quando tutta la squadra non sarà vittima di questo “infortunio”?
Ai posteri l’ardua sentenza.