Il concetto d’identità – almeno per quanto concerne le scienze sociali – è quella concezione che l’individuo ha di se stesso e della società. È quell’insieme di caratteristiche che plasmano l’individuo, lo forgiano e lo rendono unico in confronto agli altri. Non solo, perché l’identità varia, muta. È un processo che prevede un inizio – la nostra nascita – ma che non prevede una fine.

L’identità è ovunque, perfino nel linguaggio.
Saussure affermava che i significati sono differenziali, e cioè che nella lingua non vi è altro che differenza. Gli elementi acquisiscono significato perché sono differenti dagli altri elementi. Come noi dalle persone. Questo perché l’identità del singolo elemento (la parola) è data dalla differenza da tutti gli altri significati. La loro unica identità è tutto quello che gli altri non sono.
Acquisiamo un’identità anche quando ci troviamo in un contesto. Un contesto omogeneo composto da persone eterogenee. Esempio? La squadra.

Identità di squadra
Questo è un contesto omogeneo. Persone diverse che si muovono in maniera coordinata per raggiungere un obiettivo comune. Una solidarietà organica – per citare Durkheim – dove prevale la divisione del lavoro e dove ogni individuo svolge funzioni differenti: i calciatori, l’allenatore, i dirigenti, il presidente. Gli individui si trovano assieme perché nessuno è in grado di lavorare solo per se stesso. Tutti dipendono dagli altri e una turbolenza metterebbe in crisi l’intero sistema.
Mansioni distinte, ma per rincorrere lo stesso traguardo. L’identità di squadra è qualcosa che abbraccia chiunque ne faccia parte, addensando tutti lo stesso ombrello. L’Io viene messo da parte per lasciar posto al Noi.
Ci si riconosce tra compagni; si sostituisce l’altruismo all’egoismo; si esulta e si piange insieme. Un tutt’uno. Ed è la prima cosa che si insegna ai bambini quando rincorrono la palla. Anche quando lo slalom tra i birilli sembra mera esercitazione. Dribblare i birilli per affrontare i problemi, calciare in porta e segnare per andare avanti.

La divisa come identità di squadra
E niente, più della maglia indossata, rappresenta la versione speculare dell’identità della squadra.
Perché dietro la divisa, quella che apparentemente è soltanto un modo per distinguersi dagli avversari, è una massa di valori. È il veicolo del club. È il testimone della missione che la squadra si pone da sempre. Non si ferma agli obiettivi annuali, ma è qualcosa di ancora più grande. Esprime il senso di appartenenza. Caratterizza la versione più razionale dell’impeto emotivo che trasuda dai tifosi. Dalle loro corde vocali allo stadio o da casa.
La divisa è ciò che rende compatto il gruppo. Il collante che permette di essere erede di un amore che si tramanda da anni. La divisa è il senso di responsabilità che hanno i giocatori quando scendono in campo. La divisa come identità di squadra è la causa comune, è la sposa che si bacia ogni volta sotto la curva.

Identità come brand
La divisa tocca anche quello che trascende i valori immateriali di un club. Va bene l’amore, il sudore per la maglia, l’omogeneità del gruppo, la tradizione di un sentimento tramandato, ma la divisa è anche capitalismo.
Non esistono più le maglie caratterizzate soltanto dal colore, ma, in ognuna di essa, c’è uno sponsor o più sponsor. Un simbolo piccolino o immenso, dove valgono suon di milioni. Gli sponsor sono ovunque: affissi negli stadi, all’interno delle palestre, nei calzettoni, sul web. Perfino gli eventi sono sponsor. Esportano l’identità del club in tutto il mondo.
Il logo, oggi, ha un valore inestimabile. Non viene più considerato stemma, bensì brand awareness, e cioè <<il grado di notorietà e di conoscenza di un marchio>>. Perché è di un marchio che si parla, non più di uno stemma. Le partnership che si pattuiscono con i videogiochi – pensiamo a PES e FIFA -, il farsi conoscere e riconoscere attraverso i social; anche una persona, testimonial della società, può essere un catalizzatore dell’azienda in tutto il globo.
Perché non si parla più di società, ma di azienda.

L’identità come hashtag
Con i social, anche l’hashtag questo identifica un club. Prendiamo l’esempio Juventus, che con l’hashtag “fino alla fine” ha colonizzato l’Europa.
I tweet dei giocatori, che sia vittoria o sconfitta, vengono accompagnati sempre dalla stessa frase. È il simbolo della propria riconoscenza. Un modo di porsi al mondo come affamati di vittorie, predatori dei successi.
Una frase che era stata impressa sulla maglia, perché votata dai tifosi. Un voto virtuale, attraverso Facebook, ma che era sinonimo di un cavalcare l’onda del senso di appartenenza. Non solo nei kit da gioco, ma anche nelle t-shirt che accrescevano l’economia del club. Magliette monocolore soltanto con la frase “fino alla fine”.
Dietro al significato di un hashtag, si nasconde il volto di una società – o dell’azienda per meglio dire -, il proprio logo, come manifesto della propria identità e del proprio accrescimento.

L’identità non solo calcistica: il caso Barcellona
Més que un club recita il motto del Barcellona. Ed è la prima cosa che si nota nel Camp Nou, stampato sulla tribuna centrale. Ora più che mai, vista l’assenza dei tifosi.
Una frase coniata da colui che, a suo tempo, era il Presidente del Barcellona, Narcis de Carreras. Era il 17 gennaio del ’68 e, quella frase, si apprestava ad avere una valenza identitaria inscindibile. Quelle quattro parole che avrebbero accompagnato il club per sempre e che si sono trasformate in un tatuaggio impresso nel cuore dei catalani.
Oltre la squadra, che parte dallo sport e raggiunge la politica. Citando le parole di Albertini <<il Barcellona è la Nazionale della Catalogna>>, un senso di appartenenza verso la propria casa, dove i tifosi si identificano in un popolo.
Un’identità che trascende i valori calcistici, che non si ferma al divertimento, alla maglia, alla squadra o a Leo Messi. Va oltre.

Paulo Fonseca: la differenza tra identità e strategia
Molto spesso si fa confusione tra la parola “identità” e la parola “strategia”. Un errore involontario, intendendo l’uno, la stessa cosa dell’altro. In realtà non è proprio così e lo ha ribadito Paulo Fonseca in una conferenza stampa:
[…] Tutti cambiano modo di giocare? Tutti cambiano le intenzioni? Non mi sembra. il Milan gioca sempre allo stesso modo; la Lazio gioca sempre allo stesso modo; l’Atalanta gioca sempre allo stesso modo; Napoli e Juve sempre nello stesso modo.
Continua dicendo:
Cambiano identità? No. Quello che cambia è la strategia ad ogni partita. Contro il Milan abbiamo pressato alto? No. Ma non abbiamo cambiato identità, è la strategia che è cambiata.
Fonseca ribadisce che l’identità è un fattore immutabile. Le grandi squadre presentano sempre un’identità unica, che non muta a seconda della sconfitta o di una vittoria. Ciò che evolve è la strategia, <<diversa per ogni partita>>.  

L’identità della Nazionale
Questo è il campo neutro delle inimicizie. Con la maglia della Nazionale, si annullano tutte le avversità presenti. Non regnano più quelle identità appartenenti alla propria squadra, ma vige la nazione, il popolo. Quella maglia blu che non si sofferma al solo colore.
La Nazionale è un sentimento che accomuna non solo i giocatori, ma anche i tifosi. La nazione intera. Dove, in passato, si allestivano maxi schermi sulle piazze più importanti per i grandi eventi e, ad ogni gol, ci si ritrovava a festeggiare con lo sconosciuto a fianco. Sconosciuto che, in quel momento, valeva più della persona più cara.
La Nazionale fa diventare estroversi gli introversi. Mette in pausa tutti i dissidi che galleggiano quotidianamente su di noi. Perfino Calciopoli, nel 2006, era scalato in secondo piano. L’identità della nazionale si riconosce in questo: è un attimo dove si posano le armi e ci si stringe la mano.

Oggi i giocatori si identificano ancora?
Con il tempo le cose sono cambiate. Prima, dopo un match, si rientrava negli spogliatoi e si parlava. Si scherzava, si esultava o si spaccavano gli armadietti dopo aver perso un derby. Ora è diverso. Diverso perché, qualunque sia il risultato, i giocatori hanno la testa china sul proprio smartphone. Emblematica in questo senso la foto di Mourinho, in cui disse <<è segno dei tempi>>.
O altre volte, involontariamente, come se per loro fosse normale ma per i tifosi è pura fantascienza, è sventolare una maglia rivale o scattarsi un selfie insieme. Era stato il caso di Jacopo Segre, centrocampista del Torino – ora in prestito alla Spal – che, dopo il derby con la Juve, aveva postato la maglia del suo idolo Dybala; oppure, di Lorenzo Pellegrini centrocampista della Roma, che aveva postato una foto con Ciro Immobile – capitano della Lazio – scrivendo “fratello”.
Tutto questo crea spaccature. Da una parte i tifosi più conservatori, attaccati alla maglia, fautori del valore identitario della propria squadra che li hanno “elogiati di critiche”; dall’altra le nuove generazioni, quelle che vivono il calcio moderno e non quello di una volta, dove tutto questo è pura normalità.

È difficile, se non impossibile, paragonare i giocatori di ieri con quelli di oggi. Il confronto tra epoche non porta mai ad una strada oggettiva, ma solo ad una verità che bacia entrambe le vie. Il calcio di oggi è meno di squadra e più individuale. L'identità di squadra sembra aver abbandonato i suoi propositi altruistici e sembra aver accettato quelli individualistici delle scienze sociali. E allora, forse bisogna abbandonare il vezzo identitario e tutelare solo più attentamente l’immagine del club.
O meglio, dell’azienda.