L’allenatore è qualcosa di grande. Non si ferma soltanto all’appellativo che gli viene conferito. Sarebbe troppo superficiale. Va oltre. È qualcosa di lungimirante, che forgia passione e sentimento per farne nascere una creatura con poteri incommensurabili. Perché dietro quei novanta minuti dove lo si vede sbraitare a bordo campo, dove si alza e si risiede sulla propria panchina, c’è molto di più.
C’è il lavoro della settimana, degli allenamenti, delle partite se è stato il caso di un infrasettimanale; vivono le grida ai suoi uomini, i plausi che gli riserva, i sorrisi per una battuta e le incazzature per delle leggerezze. C’è la carica per match importanti, ma anche la costanza da versare durante il percorso, perché ogni partita, è sempre una partita a sé. Esiste l’unione, il gruppo, l’alchimia in campo, ma soprattutto negli spogliatoi.
Poi giacca e cravatta per le occasioni eleganti e, infine, prendiamoci i tre punti!

Perché proprio io?

È la domanda che Conte riserva ai suoi tifosi nel video di presentazione. Un attimo di pausa, magari per lasciar spazio a secondi fini. Quei fini appartenenti al cuore della curva, al sangue nerazzurro. Perché di fratture ne ha generate. Alcune si sono colmate, altre meno. Altre ancora si sono aperte, ma per altri motivi. Però poi si sogna e si dimentica tutto.
Poi continua:
Perché condividiamo la stessa ambizione, il coraggio, la fame e la determinazione.
Una pausa con l’obiettivo di far riflettere, pensare, ma senza essere troppo lunga. Con questa frase rompe quel filo di tensione che si era venuto a creare. Coraggio, fame e determinazione: sono qualità che ad Antonio non mancano. Lo sa bene lui, lo sanno bene le squadre ove ha allenato e, soprattutto, quelle che ha affrontato.
L’Inter ha scelto Antonio per vincere, ma sta ancora aspettando.

Il percorso dei nerazzurri

Il primo anno non si può pretendere tutto. Ci sono una moltitudine di variabili che galleggiano come alibi, ma tutte accettabili. Si fa il mercato, arrivano i giocatori e poi bisogna plasmare la squadra. Intesa, schemi, movenze, dettami tattici: sono alcune delle variabili galleggiabili nel terreno della nuova matricola che si siede in panchina.
Si taglia il traguardo con tanto fumo – secondo posto in campionato, semifinali di Coppa Italia e secondo posto in Europa Leaguee niente arrosto – nessun trofeo -. Ma, come scritto poc’anzi, sono alibi più che giustificabili. Poi bisogna rammentare la tetra stagione che si è giocata. Senza tutti quei singhiozzi, magari, avremmo visto un atto conclusivo differente.
Poi inizia la nuova stagione – quella attuale – e, a dicembre, si erano già demarcate alcune linee non indifferenti: knockout in Champions, esacerbato da un quarto posto che saluta anche l’altra coppa “minore”.
Qui, di alibi, non ce ne sono.

Secondo miglior attacco e miglior difesa

Chi ben comincia è a metà dell’opera. 81 gol – secondo solo a quello mostruoso della Dea a quota 98 – e la miglior difesa con 36. Vero, le retroguardie degli anni passati ci avevano abituato a corazzate più solide, ma il campionato è stato quel che è stato. Poi bisogna rapportarlo in merito ai gol concretizzati.
Un punto dalla capolista Juventus e quel sogno soltanto sfiorato dell’Europa League, che, dopo il Parma del buon Malesani, nessuno è riuscito più ad alzare. Tanta delusione, ma tanta voglia di rifarsi. Un rapporto che sembrava fosse arrivato ai minimi termini, ma che poi, si è ricongiunto.
Un altro mercato – senza esagerare – nuovi arrivi, nuovi innesti e tanti buoni propositi. Una squadra completa, imbattibile. In più, l’ausilio dei cinque cambi, che, a mio modo di vedere, sembra privilegiare le grandi squadre. Quindi, tutto a loro favore, bisogna solo vincere.

Costante tensione

Il problema di quando si sfiorano diversi traguardi, per l’anno successivo, non esistono uscite d’emergenza. La porta è una, e occorre varcarla con qualcosa in mano. Già ripetere lo stesso copione sarebbe fallimentare. Addirittura alzare qualcosa di “snobbante” non andrebbe bene. Si forma un cortocircuito senza precedenti, che fa navigare la nave in un mare nervoso, frenetico e con la corrente che osa far andare il timone in un’altra direzione.
Ad oggi, giorno di giro di boa del campionato (anche se per l’Inter si tratta di una pre-vigilia), i numeri non sono rassicuranti: la difesa non è più la migliore, la classifica è comandata dal Milan e si è fuori dai giochi europei.
Ora, a parte l’ultima, le altre due sono migliorabili. Ma quello che si avverte attorno alla squadra, è un clima di costante tensione, in cui basta un movimento di troppo e si rischia un’esplosione.

Dr. Jekyll and Mr. Hyde

Perché a vederla l’Inter, è perfetta. Una macchina arrembante che fabbrica e macina gol a profusione. Ti fa assaporare l’impressione di poterla graffiare e azzannare. Poi, però, si trasforma e, in poco tempo, da preda diventa predatrice: il 4-3 con la Fiorentina, il 2-5 con il Benevento, il 6-2 con il Crotone. Ma non è sempre così.
Basta volgere uno sguardo alla panchina e, con qualche cambio, si passa da un sorriso a trentadue denti a un sorriso falso, finto, come per testimoniare che tutto va per il verso giusto. Un’Inter che, in poco tempo, con qualche sostituzione, diventa la versione concreta di Dr. Jekyll and Mr. Hyde.
Un undici titolare elegante, delizioso, sensuale e capace di far indietreggiare i propri avversari. Più tardi, però, è come se si presentasse ad un gran galà in tuta, con scarpe da ginnastica diventando più suscettibile dinnanzi ai suoi antagonisti.

Conte non sa cambiare?

Dopo il 2-2 contro la Roma, la domanda è sorta automaticamente. Dopo 45’ da attendisti, la squadra di Antonio Conte, aveva ribaltato completamente il match, andando in vantaggio. Venti minuti di fuoco e poi la fiamma si è spenta.
Entrano Perisic, Gagliardini e Kolarov e l’Inter si è abbassata. Conte parla di un timore inconscio, che ha portato man mano la squadra ad indietreggiare. Che i cambi hanno invertito la rotta della gara è un dato oggettivo: i nerazzurri regredivano, lasciando Lukaku davanti come boa e, la Roma, avanzava. Una compattezza che si sgretolata al gol di Mancini.
Ora, che le uscite di Hakimi e Lautaro abbiano indirizzato altrove il match, mette d’accordo tutti. Quello che crea discrepanze è se il motivo della sconfitta sia assoggettabile all’allenatore. Non solo per quanto concerne la gara dell’Olimpico, ma anche altre.
Perché il vespaio sembra esser annidato più alla panchina che al mister…

I cambi di Antonio Conte

  • Ivan Perisic: 22 presenze, 11 da subentrato, 1058 minuti giocati, 2 gol, 0 gol da subentrato, 3 assist, 0 assist da subentrato;
  • Roberto Gagliardini: 17 presenze, 5 da subentrato, 955 minuti giocati, 2 gol, 0 gol da subentrato, 2 assist, 0 assist da subentrato;
  • Danilo D’Ambrosio: 16 presenze, 9 a subentrato, 699 minuti, 3 gol, 1 gol da subentrato, 0 assist, 0 assist da subentrato;
  • Alexis Sanchez: 15 presenze, 7 da subentrato, 726 minuti giocati, 2 gol, 0 gol da subentrato, 3 assist, 1 assist da subentrato;
  • Matteo Darmian: 14 presenze, 5 da subentrato, 711 minuti giocati, 1 gol, 0 gol da subentrato, 2 assist, 1 assist da subentrato;
  • Christian Eriksen: 13 presenze, 8 da subentrato, 395 minuti giocati, 0 gol, 0 gol da subentrato, 0 assist, 0 assist da subentrato;
  • Stefano Sensi: 9 presenze, 8 da subentrato, 272 minuti giocati, 0 gol, 0 gol da subentrato, 0 assist, 0 assist da subentrato;
  • Aleksandar Kolarov: 8 presenze, 3 da subentrato, 477 minuti giocati, 0 gol, 0 gol da subentrato, 1 assist, 0 assist da subentrato;
  • Andrea Ranocchia: 3 presenze, 0 da subentrato, 254 minuti giocati, 0 gol, 0 gol da subentrato, 0 assist, 0 assist da subentrato;
  • Andrea Pinamonti: 3 presenze, 3 da subentrato, 45 minuti giocati, 0 gol, 0 gol da subentrato, 0 assist, 0 assist da subentrato.

Incidenza zero dalla panchina

Il dato è abbastanza chiaro. C’è una differenza abissale tra squadra titolare e giocatori che subentrano. Oltre qualche errore, umano a chiunque, il vero problema dell’Inter è chi entra dalla panchina a gara in corso.
Le giocate decisive arrivate a match ongoing salirebbero a dieci. Peccato che sarebbero titolari inamovibili entrati successivamente solo per dar loro un po’ più d’ossigeno. Perisic è quello più utilizzato, ma anche quello che ha deluso di più; al contrario di Sensi, che invece ha dato sempre un po’ più di brio, pur giocando in maniera minimale; D’Ambrosio si è sempre comportato correttamente e adesso è anche infortunato.
Insomma, la seconda versione dell’Inter, è una brutta copia degli undici che scendono in campo. Le garanzie non arrivano e, i titolari, non possono far fronte a tutte le partite.

Da esubero a titolare

C’è anche una nota positiva nella sinfonia cupa della panchina nerazzurra. Perché se in estate Marcelo Brozovic fosse fuori dal progetto, Conte, ha fatto di necessità virtù. È diventato il play della squadra, mettendo all’attivo un gol e sei assist. Testimonia la sia centralità non solo nel gioco, ma anche nelle idee di centrocampo.
11,12 km in media percorsi a partita. Un dato che lo rende non solo il primatista della squadra, ma anche uno dei più funzionali: Brozovic è la mente che guida i suoi ragazzi in campo. Raccoglie il pallone dinnanzi alla difesa (come è accaduto contro la Roma, dove si abbassava per ricevere il pallone, andando a ricoprire perfino il ruolo da centrale con De Vrij al suo fianco) e lo fa girare.
Smista idee, conferisce equilibri e rende più sicuro un reparto che aveva il sinonimo del dubbio.

Qual è la soluzione?

Se Conte facesse con tutti i giocatori la stessa scoperta che ha fatto con Brozovic, allora parleremmo di un Inter senza problemi. Di una squadra ordinata, senza inquietudini rispetto a chi gioca e chi non gioca. E lo stesso Antonio lo ha ribadito:
Penso che una squadra come l’Inter, se ha delle ambizioni, deve avere una rosa importante. Non posso mica essere preoccupato nel cambiare giocatori ruolo per ruolo a 15’ dalla fine.
Quindi, o bisogna trovare giocatori importanti anche per chi entrerà a gara in corso, oppure trovare la pietra filosofale in ognuno di loro e far di necessità virtù. Non si può contare soltanto sulla forza dei titolari, non hanno il dono dell’eternità. E nemmeno quello dell’ubiquità. Il mercato non ci sarà, ne era e ne è tuttora consapevole. Quindi, l’oro per vincere le partite, andrà trovato in casa propria.