Basta camminare per le strade del Barrio Gotico, nella Ciutat Vella, il quartiere della Città Vecchia, per innamorarsi. Per essere fieri, di essersi persi in luogo che sprizza meraviglia. Senza meta, ma solo curiosaggine, sete di sapere, per osservare Barcellona.

Luogo di grandi artisti, fonte di ispirazione di grandi menti: La Sagrada Família di Gaudì, ancora oggi incompiuta; il paseo – la passeggiata – lungo la Rambla, dove, si ammirano artisti di strada e si respira aria di piacere e felicità; come anche la Casa Milà e la Casa Batllò, commissionate sempre dall’architetto spagnolo, oggi trasformate in musei,  dove riposano i concetti innovativi di questo eterno visionario; La Barceloneta, prima, uno dei quartieri più malfamati della città, ma rimesso a nuovo per i lavori delle Olimpiadi del ’92, è diventato un luogo simbolo.

A Barcellona si possono fare tante cose. Cose grandi, come quelle realizzate da Pep Guardiola. 

Un amore platonico

La storia d’amore tra Pep e Barcellona non è nata dal calcio. Non dalla pelota – la palla – e nemmeno dalla squadra stessa. C’è tanta cultura calcistica nella sua infanzia: l’idolo Platini, che correva per la Juventus; il nonno materno, con cui condivideva gran parte dei suoi sentimenti, legato all’Espanyol; e il papà, Valenti Guardiola, che esultava per la squadra della sua città natale, Santpedor.

L’attrazione per il Barcellona, non era qualcosa di fisico, ma poetico. Un amore platonico per certi versi, che sviscerava la cultura del equipo. L’innamoramento che viaggiava nell’interno, attraverso l’onnipotenza del Camp Nou, quando, nel 1982, sussurrò ad un amico il desiderio di correre su quel campo.

La Masia, luogo di sapere scientifico, quello che poi trasformerà in un vero e proprio laboratorio tattico. Era un periodo in cui scopriva il piacere della musica, in cui si dilettava ad ascoltare Lluís Llach e Miquel Martí i Pol.

<<Non devo tornare perché non partirò mai>>

11 anni trascorsi da centrocampista e capitano. Guardiola andava oltre però. Perché, nella sua mente, imperversavano schemi, tattiche e visioni di quello che lo avrebbe reso ancora più grande di lì a pochi anni di distanza.

E a dirlo, è anche il buon Fabio, che lo ha accudito, seppur per poco tempo, alla Roma, elogiandone la sua miglior dote:

«L’intelligenza. Si capiva anche da giocatore che aveva una testa particolare. Era curioso, domandava, sebbene possedesse già le sue idee».

Ha viaggiato e conosciuto culture diverse: quella italiana – con Roma e Brescia -, quella qatariota – con l’Al-Ahli Doha – e quella messicana – con i Dorados -.

A Barcellona ha fatto la storia da allenatore, vincendo tutto e innovando il calcio. Dinnanzi a quello stadio, con tutti quei tifosi, su quel manto che avrebbe voluto giocare prima o poi, nel giorno del suo addio, disse: << Non devo tornare perché non partirò mai>>.

Il concetto di spazio di Pep Guardiola

Il principio sulla quale ha fondato i suoi presupposti è semplice, per alcuni banale, ma che nessuno mai è riuscito a confezionare emblematicamente come la macchina blaugrana.

Il tutto parte dal concetto di spazio. <<Il nostro miglior centravanti è lo spazio>> dirà Guardiola. Ed è da qui che ne nasce un complesso unico, innovativo, che produce spettacolo, emozioni e che macina risultati. Un giocatore avanza con la palla, fin quando avrà spazio; poi, verso di lui, gli si prostrerà un marcatore, che abbandonerà la propria posizione, lasciando così vuoto e smarcato un compagno utile per il portatore della palla. E così via, all’infinito. Un concetto di superiorità che vede la sua genesi dal portiere, volto a giocare con i piedi, per servire il play.

638 gol in quattro anni, 14 trofei, con i due più importanti che trovano il nome di Champions.

Forse così banale non lo è mai stato.

Pep Guardiola infatuato dalle idee di Cruijff

Nei suoi pensieri, nei suoi ricordi, ci sarà sempre assemblata il volto di Johann Cruijff.

Perché nell’infatuazione per la cultura catalana, lo stadio e La Masia, si ergeva anche l’imponente calcio di un giocatore elegante, magico, che ha trasportato il tutto anche con le idee. E Pep, ne rimase estasiato da queste idee, sin da quando era un novello alla cantera.

L’uomo è curioso si sa, vuole sapere, conoscere, ingigantire la propria esperienza. E quando venne chiamato in prima squadra, nel 1990, Guardiola fece una quantità esagerata di domande. Un’iperbole positiva e non millantata, tant’è che lo stesso Cruijff, disse:

Pep è un grande giocatore e diventerà un grandissimo allenatore.

E proprio da questa linea teorica, si traduce l’empirismo del guardiolismo, facendone del 3-4-3 dell’olandese, un’evoluzione al 4-3-3, con un pressing molto alto, che mandava in apnea gli avversari. Come quel 5-0 al Real Madrid di Mourinho.

Tiki-taka

Era il 2006. Durante il campionato del mondo, sulla Sexta – canale televisivo spagnolo -, Andrés Montes, descrivendo il calcio della nazionale spagnolo, che aveva come pioniere Luis Aragonés, disse: << Estamos tocando tiqui-taca tiqui-taca>>.

Di lì ad un paio d’anni, uno dei principali fautori di questo calcio, fu proprio Guardiola. Pep ha basato il suo ciclo blaugrana su il tiki-taka, facendo pagare un conto salatissimo agli avversari.

Ricevo la palla, passo, ho la palla, passo, ho la palla, passo, ho la palla, passo.

Parole di Xavi, in cui spiegava in cosa consistesse.

Una circolazione di palla estenuante, con l’obiettivo di monopolizzare il campo, il gioco e il possesso. Rapido, forse monotono, ma di certo non statico, anche se privo di verticalizzazioni. Bisognava stancare le difese, farle correre a vuoto. Un tipo di calcio che non era alla portata di tutti. Occorreva talento e collettivo.

Ingredienti onnipresenti a Pep.

I falsi terzini

Un concetto che in Spagna è soprannominato come “salida Lavolpiana”, prendendo il nome da Ricardo La Volpe. Un’idea che ha affascinato Pep Guardiola, ma che a Barcellona non è riuscito a replicare. Ci ha provato con Busquets fra i centrali, ma alzò bandiera bianca perché il meccanismo non funzionò.

In cosa consiste?

Per avviare il movimento è essenziale che il mediano superi la linea avversaria. Che sia con un passaggio, che sia con la custodia del pallone, l’importante è che si oltrepassi la barriera. A questo punto, entrano in scena i due centrali di difesa, la quale devono saper trarre vantaggio da questa occasione. Quindi, si allargano una volta che il mediano scala e avanzano negli spazi vuoti, per comportare l’uscita di un altro mediano avversario e rendendo libero un giocatore in fase avanzata.

Se questo non avviene, allora si riparte con la circolazione del pallone in modo orizzontale.

I falsi terzini al Bayern

Lahm è stato il protagonista di questo schema.

Rammentando quanto scritto qui sopra, il movimento, serviva per controbilanciare il lavoro di Lahm: quando gli avversari schieravano due players in prima linea, allora, l’ex calciatore tedesco, scalava di posizione tra Boateng e Dante, che, di contro, si allargavano.

In seguito, per avere superiorità in mezzo al campo, dopo il “buco” lasciato da Lahm, Rafinha e Alaba stringevano nei pressi del centrocampo, cosicché Boateng (che ricordiamo essersi spostato in alto) rimpiazzava la voragine di Rafinha.

Lo step successivo era quello di superare la linea. Una volta scavalcata, Lahm tornava ad essere l’uomo in più del centrocampo, mentre uno dei due falsi terzini tornava alla sua posizione d’origine. L’altro, di contro, poteva rimanere anche per accorciare, così da formare una base insieme al tedesco.

Una metà campo folta, permetteva ad una delle due mezzali di avanzare sulla trequarti creando confusione nelle marcature avversarie.

I falsi terzini al City

Qui, invece, più che per scelta è stato per necessità. Guardiola immaginava le difficoltà della Premier, per questo, richiese due terzini fisici: Mendy e Walker.

La scelta che ha portato all’esportazione del “falso terzino” è stata causata da due fattori: la rottura del crociato di Mendy e le troppe incombenze incontrate sulla fascia centrale del campo, dove il monopolio del possesso scarseggiava. Infatti, erano pochi gli scambi a terra e molti quelli in aria.

Per ottemperare al problema, Guardiola ha chiesto a Delph di ricoprire il ruolo di terzino sinistro e di accentrarsi per affiancare Fernandinho. Walker formava la linea a 3 con Otamendi e Stones. In tal senso, si veniva a creare la superiorità numerica a centrocampo e una transizione molto più razionale in uscita.

L’ampiezza veniva garantita anche sulle fasce, con Sterling e Sané, così da presentarsi con 6 players nella propria metà di campo e 5 dietro.

L’influenza del portiere libero

Un’idea che cominciò a svilupparsi negli anni ’70, ma chi l’ha portata concretamente nel calcio moderno, è stato Guardiola. Cambia la filosofia in Premier, dove, attorno alla concezione dell’estremo difensore erano richieste tre caratteristiche: bravo nei lanci per far ripartire l’azione; ottimo nelle uscite; e, ovviamente, elastico nel parare.

Guardiola aveva “scartato” Hart e aveva richiesto Ederson, perché abile con il pallone. Tale scelta ricadeva sul suo piano tattico, soprattutto nelle transizioni difensive. Occorreva un portiere abile nel gioco al di fuori dell’area di rigore, specie per quelle squadre in cui il baricentro è sbilanciato in avanti.  Per questo le caratteristiche del portiere brasiliano erano speculari agli impianti teorici di Pep.

In questo modo, sono diminuiti i lanci lunghi a tagliare la difesa, perché l’estremo difensore si sarebbe fatto trovare pronto.

Caso strano, arrivarono Kepa al Chelsea, Leno all’Arsenal e Alisson al Liverpool. In comune? L’abilità con i piedi.

Il falso centrale

Nessuna invenzione, ma tanto studio, applicazione e una trasportazione da un mondo ad un altro. Tale meccanismo era stato adottato da Cruijff, e vedeva il centrocampista Miquel Ángel Nadal, iniziare dalla difesa e alzarsi fino all’altezza del regista. A quel tempo, il regista era Pep. Non solo teoria, ma tanto, tanto empirismo.

In cosa consiste?

Anziché vedere il terzino accentrarsi in mezzo al campo, viene utilizzato un centrale. Nel caso del City – e qui sta il lavoro teorico e pratico di Guardiola – Fernandinho occupava la mattonella difensiva e portava la palla fino a centrocampo. In questo caso, il giocatore, ricopriva due ruoli, utile per aumentare le linee di passaggio ed evitare che, l’avanzamento eccessivo dei terzini, portasse ad un contropiede (passivo) micidiale.

Lo scopo è avere superiorità numerica in uscita e in fase di impostazione, ma richiede estrema meticolosità e fiducia in chi ne è protagonista.

Pep Guardiola ha manipolato la Premier

Un’altra tendenza di Pep è stata quella di cambiare il modo di giocare nella dimensione inglese. Abbiamo percorso molte delle sue innovazioni, come anche l’apporto che ha dato nel trapiantare modelli di gioco non di sua intuizione, ma di sua applicazione.

Si sa, il calcio inglese è conosciuto per la sua fisicità, possenza; è un calcio dinamico, dove si lascia correre; un calcio basato sui lanci lunghi, volto a usufruire delle dimensioni legate all’altitudine dei giocatori. Guardiola, invece, ha voluto basare la sua filosofia sui cross bassi.

Sfruttando, molto spesso, l’ampiezza dei suoi giocatori, e la superiorità numerica garantitagli a centrocampo, a febbraio del 2019, è stata la squadra che ha tirato più di ogni altra nell’area piccola. Creando una quantità pari a 66.83 xG. Una capcità che ha evidenziato la regolarità con cui il City segna a porta vuota.

Pep Guardiola si autocensurò

L’anno scorso, il City, aveva molti punti in meno rispetto al Liverpool. Eravamo a febbraio e la distanza era siderale: 22 punti. Una distanza micidiale, che ha visto il suo bel gioco, innovativo e visionario, ritirarsi completamente. Come se le nuvole dei cieli inglesi fossero le sue idee evaporate.

In un’intervista, si autocensurò. Nella domanda se si sentisse migliore al mondo ha risposto così:

Lo ero. Qual è il miglior allenatore? Non mi sono mai sentito come il migliore, dammi una squadra che non è come il Manchester City e non sarò capace di vincere.

Per poi continuare:

Stiamo dando un brutto messaggio alle nuove generazioni sul vincere i trofei. La gente crede che dato che tu sia Pep devi vincere tutti i titoli ogni stagione, ma è impossibile.

Per lui, si vince assieme, perché ha avuto giocatori straordinari, contrariamente ad altri club.

Pep, il merito è anche tuo però.

Parla il palmarès

Da giocatore:

  • Liga: 6;
  • Coppe del Re: 2;
  • Supercoppe spagnole: 4;
  • Coppa dei Campioni: 1;
  • Supercoppe europee: 2;
  • Coppa delle Coppe UEFA: 1;
  • Oro olimpico: 1

Da allenatore:

  • Liga: 3;
  • Coppa del Re: 2;
  • Supercoppe spagnole: 3;
  • Bundesliga: 3;
  • Coppe di Germania: 2;
  • Premier League: 2;
  • Coppe di Lega: 3;
  • FA Cup: 1;
  • Supercoppe inglesi: 2;
  • Champions: 2;
  • Supercoppe europee: 3;
  • Mondiali per club: 3

L’Italia è nel cuore di Pep

Nel nuovo millennio, Pep, si è affacciato al nostro calcio. Intraprendendo quel viaggio tra culture, ha conosciuto Brescia, e, più di ogni altro, il mitico Carlo Mazzone.

Dicevano: Mazzone è il Trapattoni dei poveri. E io rispondevo: amici miei, Trapattoni è il Mazzone dei ricchi.

Parole al miele di Guardiola, talmente legato a Carlo che gli regalò anche il biglietto per la finale di Champions all’Olimpico. L’ex allenatore rimase di stucco, inconsapevole all’inizio di chi lo stesse chiamando.

Anche la breve parentesi a Roma ha fruttato qualcosa nel suo inconscio. Oltre a Capello, che lo ha definito <<un uomo che ha influenzato in profondità il nostro calcio>>, conobbe i testi di Francesco De Gregori. Tant’è che una sera, fu ospite nella sua abitazione.

L’Italia è nel cuore di Pep. E arriverà il giorno che un club fortunato si sposerà con le sue idee. Ma prima, la Champions con il City.

Pep Guardiola: 50 anni di un uomo visionario

Ha inventato, reinventato, traslato, mutato, manipolato e trasceso ogni mera visione calcistica. Pep ha fatto suo ogni progetto che avesse in mente. Ha portato le idee ai giocatori e, grazie a loro, le ha trasformate in azioni. Anzi, in trofei.

Un uomo intelligente, visionario, lungimirante. Capace di dialogare e di assaggiare ogni tipo di cultura. Un uomo pervaso da un insaziabile senso di sapienza e di continua ricerca della conoscenza.

Nonostante le sue numerose vittorie, è stato altruista e le ha spartite con chi gli stava attorno. Anzi, nemmeno. Perché con quell’autocensura non si è preso nemmanco una fetta di torta. Ha fatto in modo che si glorificassero gli altri, perché <<senza i [suoi] giocatori non [va] da nessuna parte>>

Creativo, passionale e mitologico. Lui, è Pep Guardiola.