Come in una partita di calcio, Pallotta abbandona lo stadio. Il solito, perché di quello nuovo c’è solo il disegno su carta. Mentre si appresta ad abbandonare il terreno di gioco, i tifosi lo fischiano. Nessuno lo risparmia. Al suo posto, pronto ad esordire Dan, Dan Friedkin. Sempre a stelle e strisce, ma stavolta di origine texana. I tifosi lo applaudono, perché è così che si fa quando si dà il benvenuto a qualcuno. Dan apprezza, gli piace il calore della piazza. E mentre calpesta l’erba sintetica, inizia la sua era.

Non da solo, perché al suo fianco c’è e ci sarà suo figlio Ryan. E, probabilmente, nella prossima stagione vedremo questa successione di testimoni. Hanno scelto la politica del silenzio, ma, come scritto qualche giorno fa, la loro “presenza invisibile” è ormai palpabile. Anzi, nell’ultima partita contro il Napoli, il gesto di Dan, un “no” con la testa, vuol dire tanto, più di qualsiasi discorso che ci si possa spendere.
Perché, tra le tante operazioni che hanno messo in atto qui a Trigoria da quando sono arrivati, una è rimasta invariata: il discorso allenatore.

La pazienza è la via maestra
Perché tra i primi cambiamenti che hanno portato la loro firma, qualcosa è rimasto invariato. Uno fra tutti l’allenatore, Paulo Fonseca. Il tecnico portoghese apparteneva alla vecchia società, quella di Pallotta, e i Friedkin lo hanno lasciato lì al suo posto. In verità, la voglia di un volto nuovo c’era, ma hanno messo davanti la pazienza piuttosto che l’impulsività. Hanno ascoltato prima di parlare.
Ma, quest’anno, l’andamento fa pensare tutto tranne che la conferma di Fonseca. Un po’ perché il contratto è in scadenza e si rinnova soltanto se arriva tra le prime quattro, un po’ perché sono più gli interrogativi che le certezze; e un po’ anche perché quel “no” con la testa vale più di mille parole.
Un “no” che arriva dopo l’ennesima sconfitta contro una grande. Una grande che per Paulo supera i confini del tabù, tanto da fare un baffo alla legge dei grandi numeri.

La doppia identità della Roma
Il problema non sorge quando la Roma deve affrontare le “piccole” del nostro campionato. Le uniche eccezioni sono arrivate nel 2021, dove ha pareggiato con il Benevento e perso con il Parma. Escludendo questi due casi, la Roma ha sempre vinto.
Il nodo – attualmente impossibile da sciogliere – emerge quando l’asticella si alza un po’ di più. Perché se si parla di big match la banda di Fonseca tira fuori dei numeri impietosi: 0 vittorie, 3 pareggi e 6 sconfitte. Su 27 punti disponibili, la Roma ne ha portati a casa 3. Dati raggelanti, che non appartengono nemmeno a chi, come obiettivo, ha la salvezza.
E questo porta ad avere una squadra double face, dove è luminosa - quindi gialla -, nelle partite “alla mano” e sanguinante - quindi rossa - in quelle che richiedono alte prestazioni. Peggio quando, in alcune partite, o non scende proprio in campo – il derby – o scende solo per un tempo.

La doppia identità a Roma
Prima un articolo partitivo, poi una preposizione. Prima la Roma squadra, poi la Roma città.
Perché è proprio qui, su qualsiasi venatura della Capitale, che si ascolterà sempre e comunque, un giorno bene e un giorno male; un giorno l’esaltazione e un altro la demoralizzazione. Si vive la giornata e si dimentica – anche facilmente aggiungerei – quello che si era fatto ieri o l’altro ieri. Un pessimismo che si tinge di entusiasmo in pochissimi nanosecondi. Nemmeno il tempo di mettere a fuoco il primo stato d’animo, che già si è passati a quello di sponda opposta.
Quando la classifica raccontava di una Roma terza – nemmeno troppo tempo fa – a 5/6 punti di distanza dalla vetta, una parte infervorata del tifo già gridava a qualcosa di grande, usando la scusa del “campionato strano”; appena poi si è incappati in un vortice di risultati negativi, ecco che l’adrenalina si è tramutata in depressione.

Houston, abbiamo un problema!
Che qualcosa non va è chiaro a tutti. Da una parte la piazza, che, come già ribadito, soffre di crisi d’identità. Dall’altra, però, i problemi bisogna anche assoggettarli a qualcuno. In primis l’allenatore, responsabile su tutti quando le cose non vanno come andrebbero.
Ma cosa non va? Perché la Roma perde tutti gli scontri diretti?
Il famoso salto di qualità
, quello che la Roma deve fare ormai da mesi, ritarda sempre. Costantemente. Una vittoria nelle partite che contano sembra quasi “aspettando Godot”. Anche Fonseca, per la prima volta, dice che << magari non [si ha] la mentalità per lottare contro questo tipo di squadre>>, facendo mea culpa. Una <<mancanza di coraggio>> che, a guardare l’Europa, quasi si rimane increduli. Non che si siano incontrate squadre insormontabili, ma nemmeno le ultime arrivate.
E allora perché, contro queste famose grandi, non si riesce mai a vincere? Andiamo per gradi.

Un discorso tattico
Contro le grandi, la Roma di Fonseca, non è tra le migliori. Anzi, in alcuni casi, sembra essere una squadra irriconoscibile. Contro il Napoli, oltre all’ennesima sconfitta, nel post match si è evidenziato un fatto grave. Fonseca ha parlato di una Roma priva di coraggio, che, sostanzialmente, non ha fatto ciò che lui aveva chiesto (immagino pressare alto); poi, subito dopo, Pellegrini, ha smentito l’allenatore stesso, dicendo che a suo modo di vedere non è stata una mancanza di coraggio. Anzi, ha aggiunto che non è sempre sbagliato giocare bassi, purché non si è passivi. Ecco, sicuramente la Roma si è concessa al Napoli, lasciandole non solo il pallino del gioco, ma peccando di dinamicità, di combattività, specie quando la squadra di Gattuso cambiava lato del campo e sfruttando benissimo gli half space.
Quello che traspare dalle parole di Pellegrini, però, è che Fonseca abbia chiesto una cosa e la squadra ne abbia fatta un’altra. E questo, non può essere un fattore benevolo. Perché se l’allenatore non riesce a trasmettere giusti ideali alla squadra, beh, allora il guaio è grande.

Non dimentichiamoci gli infortuni
È vero che la Roma ha tanti giocatori di qualità, può permettersi discreti ricambi, ma, insomma, ha anche altri giocatori di estrema qualità che però non stanno vedendo il campo.
Anche l’assenza di un giocatore fa la differenza. Figuriamoci due, tre o più. Lo ha detto anche Max Allegri, ospite al salotto televisivo di Fabio Caressa, che <<due giocatori sono il 20% della squadra>>. E quelli che mancano a Fonseca non sono pochi: Smalling, ha saltato 17 partite per infortunio; l’esito dell’infortunio di Mkhitaryan è stato di 3-4 settimane fuori; Veretout, con la lesione tra primo e secondo grado, si conta di riaverlo per il Sassuolo, ma si parlerebbe sempre di panchina; Zaniolo, si è fatto un anno fuori tra i due infortuni al crociato. Poi subentra anche il discorso di “limiti di alcuni giocatori”: Dzeko, da dopo il Covid e la diatriba con Fonseca, non è più lo stesso; Pedro ha avuto un’involuzione incredibile; lo stesso Pau Lopez ha dei difetti. E si sa quando sia importante l’estremo difensore in una squadra.
Se vogliamo guardare più indietro, ed escludere gli infortunati attuali, altri big match si sono persi con l’assenza di Zaniolo e Smalling. Due giocatori. Il 20% della squadra. Non è poco. Specie se i due giocatori si chiamano Zaniolo e Smalling.

Il caso Dzeko pesa e non poco
Si va avanti per amore della squadra, per il bene della Roma. Ma quando un problema si demanda al tempo, non si può chiamarla soluzione. La si è soltanto nascosta, coperta per un po’ di mesi. E il caso Dzeko è uno di quelli. Perché si parla di un giocatore che con ogni probabilità entrerà nella hall of fame della Roma. Un giocatore magnifico, con 116 gol all’attivo ed è il terzo marcatore della storia della Roma; il primo marcatore in Europa dei giallorossi, scavalcando anche Totti; perché era il capitano, e scriverlo al passato è un dolore per ogni appassionato di calcio.
Ma la diatriba con l’allenatore pesa, e come se pesa. È un macigno che ha pervaso la squadra e che ha spostato la responsabilità a Lorenzo Pellegrini, uno dei migliori amici di Edin, ed uno che si trova a rappresentare la Roma. Così, da un momento all’altro.
E questo non significa che un ragazzo come Lorenzo non sia pronto per essere leader di questa squadra, assolutamente. È un ragazzo giovane, romano e che tifa Roma da quando è bambino. Una tradizione che a Roma si cerca di conservare il più possibile. Il problema è che il tutto non è stato programmato, ma è capitato. E portare la fascia a Roma, è un fardello enorme.
Vedere Dzeko con lo sguardo perso nel vuoto, come di chi sa già il finale di questa storia, è drammatico. Per lui, per la squadra e soprattutto per i tifosi.

Mancano i leader
E senza l’alzata di voce dei più grandi, la squadra si disperde. Manca lo spirito battagliero dei giocatori d’esperienza, di quelli che sì, hanno una carta d’identità non irrilevante, ma anche un peso incisivo nel loro ruolo in campo.
E vedere soltanto Cristante che va a difendere il suo compagno di squadra Mancini, dopo un battibecco con Osimhen, fa capire tanto. Non c’è cattiveria, spavalderia, sfacciataggine. Di Dzeko ho appena scritto, ma Pedro? Anche lui un’involuzione paurosa, che sembra anche battibeccare con l’allenatore. Ed è già la seconda volta. I giocatori d’esperienza, quelli che dovrebbero prendere per mano la squadra, specie i più giovani, e accompagnarli soprattutto nelle partite più importanti, mancano. Qualitativamente e quantitativamente.

E se si pensasse solo all’Europa League?
Per la prima volta, da quando si chiama Europa League, la Roma accederà ai quarti.
Incontrerà l’Ajax, in una sfida che si prospetta già meravigliosa di suo. E, il cammino dei giallorossi in questa competizione, è tutt’altro che irrisorio: 8 vittorie, 1 pareggio e 1 sconfitta (l’unica è arrivata ai gironi, con il primo posto già consolidato). Di queste 8, 4 sono arrivate nelle fasi eliminatorie: 5 gol al Braga, tra andata e ritorno – e altri 5 allo Shakhtar – sempre nei due scontri -. In tanti hanno bollato gli ucraini come una squadra finita, a fine ciclo, la peggiore degli ultimi dieci anni e che ha preso 10 gol ai gironi dal Borussia Monchengladbach. Tutto vero, ma se dobbiamo farne una prospettiva così negativa, allora scriviamo anche che la squadra di Castro ha battuto due volte il Real Madrid e, con i due 0-0 contro l’Inter, l’ha spedita in fondo al girone.

Con l’Ajax l’asticella si alza un pochino di più e sarà una sfida che ci dirà molto sulle motivazioni dei giallorossi. Fatto sta che la Roma in campionato e la Roma in Europa sembrano due squadre diverse. Almeno sul piano propositivo. Questa è una domanda che resterà aperta almeno fino al 15 aprile, quando si saprà chi avrà avuto accesso alla fase successiva. Fatto sta che, un accesso alle semifinali o un arresto ai quarti, avranno un significato lampante.