Un altro campionato a senso unico

Da quando il mondo ha conosciuto il nuovo millennio, quella attuale, si è presentata come una delle stagioni più difficili.

Sicuramente il discorso è legato al Covid. Se nella passata stagione si è abbattuto come un fulmine al ciel sereno, quest’anno, c’è stato modo di prenderlo a spallate sin dall’inizio. Squadre decimate per via del nemico; quarantene che hanno impedito una regolare preparazione atletica; il rinvio di partite che è costato caro al calendario (Lazio-Torino è ancora da recuperare). Insomma, chi più ne ha più ne metta.

Senza dimenticare la situazione correlata agli stadi vuoti. Se da una parte questa situazione ha giovato a chi possiede una carta d’identità più leggera, per molti, specie i senatori, è stata davvero penalizzante. Gente come Ronaldo e Ibra che vive di applausi e provocazioni, un clima così, diventa surreale.

Surreale perfino per i conti economici. Stadi vuoti, casse vuote. Un binomio tanto vero quanto distruttivo. Tanto da far creare una Superlega come luogo di salvezza. Un posto magico per evadere dai problemi. Sfuggire anziché affrontarli. Un posto magico, che però non ha fatto i conti con le “rune dei tifosi”.

Un campionato, però, che se ha messo in auge tutti questi problemi, sicuramente non ha dato chissà quali grandi segnali di competitività. Titolo parlando, perché per la lotta alla Champions è ancora tutta da vivere. Nel senso che se si dovesse scrivere un libro penso che lo scrittore starebbe ancora alla prima pagina.

Un altro campionato che si è concluso in anticipo, salvato solo da una lotta europea. Dove vincere può significare secondo posto e perdere può significare sesto. Abbiamo dato tutti per scontato che fosse l’anno dell’Inter. Abbiamo tentennato perché il Milan per un attimo sembrava potesse vincerle tutte. Poi sono crollati e, alla fine, abbiamo avuto ragione.

Ad aprire un nuovo ciclo sono gli stessi di dieci anni fa

Conte e Marotta, due uomini vincenti.

Lo hanno fatto alla Juventus, riportandola nel calcio che conta. E poi di nuovo insieme, all’Inter. Senza farsi prendere dal sentimento ma cavalcando l’onda della professionalità. Mettendosi in gioco e dimostrando di essere dei vincenti.

Il gatto e la volpe, Sherlock e Watson. Beppe Marotta e Antonio Conte sono il pragmatismo fatto in persona. Dove vince la competenza e dove non c’è posto per la fortuna. Si vince perché si è capaci, non perché si “becca l’anno buono”.

Lo ha dimostrato Marotta. Un uomo che ha portato ristrutturazione e costruzione ovunque è andato. Come direttore prima e come amministratore delegato poi. Ravenna, Venezia, Atalanta. Ha scoperto Bobo Vieri, ha portato la Samp a giocarsi i preliminari di Champions contro il Werder Brema. Poi la Juve e infine l’Inter. I vincenti scelgono i vincenti e, Marotta, ha scelto Antonio. Per due volte.

Conte, l’uomo in cui ovunque è andato ha portato grinta, tenacia e sicurezza. Aveva riportato il Bari in Serie A dopo otto anni e con quattro giornate d’anticipo; aveva inanellato vittorie e trofei con la Juve; ha dato una nuova identità alla nostra Nazionale; ha creato un Chelsea made in Italy raggiungendo il titolo alla prima stagione; e poi L’Inter, con una finale di EL (persa) e il titolo quest’anno.

I giocatori ti fanno vincere. Ma, dietro di loro, ci deve essere un conduttore. Ecco, l’Inter ne ha due.

Come ha giocato l’Inter di Antonio Conte?

L’Inter di Conte è partita con un 3-4-1-2. Al di fuori dei canoni del leccese, ma pur sempre il modulo per poter inserire un top player: Eriksen. Un modulo che gli affidava il ruolo di trequartista puro e che gli permetteva di situarsi alle spalle della Lu-La per formare un triangolo micidiale.

Ovviamente la squadra era diventata iperoffensiva e la partita contro la Fiorentina ne è stata l’emblema. 4 gol fatti e 3 subiti. Così come anche in quella successiva: vittoria per 2-5 contro il Benevento, ma in soli due match già si era arrivati a 5 gol subiti. Troppi. Con il trequartista la squadra era troppo sbilanciata. Non c’era un equilibrio e gli avversari trovavano praterie e imbucate a centrocampo. Poco dopo Conte è tornato al 3-5-2.

Nella fase di costruzione, il ruolo dei difensori è stato molto importante. Handanovic aveva la possibilità di servire i due difensori ai lati dell’area di rigore – Skriniar e Bastoni – o servire uno dei due play – De Vrij e Brozovic – ai limiti della trequarti. In questo modo si aveva, grazie alla fluidificazione della manovra, la possibilità di far girare il pallone il più velocemente possibile e trovare sempre l’uomo libero a centrocampo.

E proprio a centrocampo, il giocatore più determinante è stato Niccolò Barella. Diverse volte libero, grazie anche alla costruzione che partiva direttamente dai piedi di Handanovic che attirava gli avversari in area di rigore lasciandogli più spazi. Ma lo stesso Barella agiva sia da trequartista che da mezzala, diventando il polmone dell’Inter. Spesso scalava anche nella fase difensiva, così da far allargare i difensori e permettere al gioco di Conte di trovare quella giusta dose di alternanza a lui tanto cara.

Il ruolo di Barella è stato fondamentale. Oltre ad esser stato – e ad essere - malleabile nel terreno di gioco e instancabile in fase di non possesso, è stato essenziale anche fra le linee. Quando si era in fase di possesso, Barella si infilava nelle porzioni di spazio lasciate dalla difesa avversaria, così da sfruttare sia i vari inserimenti, sia la ricerca del varco giusto per servire i due attaccanti. Ruolo che, tardivamente, verrà ricoperto anche da Eriksen, con il gol al Crotone che ne diventa la fotocopia di quanto detto.

E proprio gli inserimenti sono stati cruciali nel gioco di Conte. È capitato di vedere Darmian attaccare la profondità. Ma basti vedere il gol di Vidal contro la Juve, dove salta di testa in area di rigore servito da uno straripante Barella.

In fase di non possesso l’Inter di Conte è cambiata tantissimo. Il pressing esagerato ad inizio stagione ha portato la squadra ad una spaccatura: creare tanto, ma concedendo ampie occasioni da rete agli avversari. Allora ecco che Conte è corso ai ripari: pressing iniziale e poi, in un secondo momento, una disposizione più attendista, tanto abbassare il baricentro e concedendo molto di meno. Di lì in poi, l’Inter, diventerà la squadra con meno gol subiti (attualmente 29) e con più gol fatti su ripartenza (7).

Un cambiamento. Un giusto compresso per arrivare a ciò che ha sempre contraddistinto l’allenatore: il successo.

Il bel gioco ha perso

Ci ha provato l’italianissimo Antonio. Ha provato a rendere estetico il suo calcio inserendo Eriksen nella versione da trequartista alle spalle di una delle coppie più formidabili del campionato e non solo. E i risultati si sono visti. Tanti gol, divertimento, ma anche tanto rischio. Una formazione votata all’attacco, che quasi sembrava sposare la teoria di Zeman, dove <<se fai un gol più degli altri te ne freghi>>. Antonio, con quella formazione, ne faceva anche due o tre più degli altri. Ma non essendo sempre domenica e non essendoci una struttura omogenea tra centrocampo e difesa, la squadra era spostata troppo in avanti. I gol subiti erano troppi, le vittorie non più certe, e l’Inter si era ritrovata per fino sotto ai primi quattro posti.

Poi, dalla nona giornata, dalla sfida con il Sassuolo (la più complessa visto che i neroverdi avevano sempre vinto o pareggiato), Antonio ritorna al suo 3-5-2. Ha messo da parte il giochismo, ed è ritornato ai suoi principi fondamentali. Non importava più se nella squadra avesse uno dei passatori più determinanti nel panorama calcistico, ma bisognava vincere. Non era Antonio che si doveva adattare ai giocatori, ma erano i giocatori che dovevano adattarsi al modus operandi di Conte. Perfino Vidal, da lui tanto amato e voluto, ha fatto panchina ad un certo punto.

Antonio ha voluto trionfare con il suo credo e non con l’estetismo del bel gioco. Perché con l’estetica sapeva di non poter arrivare fin dove l’Inter è arrivata. Sapeva di non poter rompere il muro bianconero da lui stesso costruito. “Se n’è sbattuto” ed ha avuto ragione. Qui in Italia gli allenatori più determinanti sono stati il Trap, Lippi, Capello, Max Allegri. Nessuno esteta. Tutti pragmatici. Tutti vincenti.

L’esercito di Antonio Conte

Vincere non è mai scontato. Dire che si aveva una squadra troppo forte è una scorciatoia facile. E l’Inter di Conte ne ha dato atto di questo. Ha vinto il campionato non con la formazione più forte che potesse mettere in campo, ma con quella giusta. Uomini forti e uomini aggiunti, guidati da un condottiero che è riuscito a far sentire “primo” anche l’ultimo della squadra.

I tre baluardi del campo

Hakimi Imprendibile e insostituibile. Un giocatore perfetto per il gioco di Conte, forse per tutti azzarderei. Uno così in squadra non potrebbe portare altro che benefici. Corsa, sprint, incisione. Non perde la lucidità nemmeno dopo 50 metri di corsa. All’inizio un po’ di sbandamento, poi Conte lo ha rimesso in carreggiata e non si è più fermato. 33 presenze, 7 gol e 7 assist. Micidiale.

Barella Il polmone, il centro dell’Inter. Così giovane (24 anni) eppure già il faro della squadra. In tanti lo hanno inquadrato come prossimo capitano nerazzurro. Come biasimarli. Possiede una stamina infinita, che quando gli avversari stramazzano per la stanchezza, lui sembra esser appena sceso in campo. Catalizzatore, abile negli inserimenti e nel far inserire. La carreggiata di destra – Hakimi, Barella, Lukaku – è stata quella più sfruttata, chissà perché. Il più completo anche in Europa. Dopo Inter-Juve disse: <<Per Conte mi farei ammazzare>>. Più bella di una dichiarazione d’amore.

Lukaku 21 gol e 9 assist in campionato. Con lui in campo l’Inter ha raggiunto i 2.45 punti a partita. Con Antonio Conte ha trovato il suo habitat naturale, esplodendo definitivamente, dimostrando di essere “il Re” di Milano. Stima reciproca e una simbiosi tale che se il leccese dovesse rimanere altri dieci anni nella panchina nerazzurra, Big Rom non sentirebbe nessuna altra offerta. Ha guidato l’attacco e tutto il gruppo. Prendendosi responsabilità da leader, dicendo <<non siamo una grande squadra>> dopo la vittoria contro il Torino. Impattante e devastante sotto ogni punto di vista.

L’importanza dei gregari

Saper rende funzionale una squadra è un lavoro che appartiene a pochi. È difficile avere la stima dei titolari, figuriamoci di chi non gioca mai. Per questo l’allenatore non può essere solo un uomo di campo. Deve curare anche i rapporti umani, deve dire la verità anche quando è dura da accettare. Ma è proprio lì che si è stimati. Da tutti.

Conte ha fatto esattamente questo. Ha creato un’empatia tale da far considerare chiunque della sua squadra il numero 1. Darmian, D’Ambrosio, Gagliardini, Sanchez. Tutti sono stati pronti quando sono stati chiamati in causa. Ed è stata questa la ricetta fondamentale che gli ha permesso di arrivare al successo. Convergere tutto il gruppo, senza nessuna discrepanza, dalla propria parte. Anche se si fanno 37 partite in panchina e una sola da titolare.

Brozovic, Eriksen, Perisic. Giocatori che dovevano salutare nel mercato estivo. Il danese anche in quello invernale, dopo le parole di Marotta. E invece sono diventati giocatori inscindibili. Brozo è diventato il play determinante per la costruzione di gioco; Eriksen si è italianizzato e reinventato nel ruolo da mezzala, entrando definitivamente nei titolari, scavalcando colui che se Conte dovesse andare in guerra porterebbe con sé, Vidal; e poi il croato, che con 29 presenze, di cui 19 da titolare e 10 da subentrante, è stato risolutorio nella sua fascia. Ha ascoltato le parole di Conte e si è immedesimato nel ruolo di Eto’o con Mourinho.

Antonio ha fatto del gruppo, un vero gruppo.

Pillole statistiche

La Lu-La è la coppia micidiale. In Italia, ma anche in giro per l’Europa. Se fino adesso l’Inter ha realizzato 74 reti, 36 sono derivati da loro. Lukaku ha confezionato 21 centri, di cui 14 di sinistro, 6 di destro e 1 di testa. 16 gol su azione, deliziandoci di alcuni coast to coast che solo un attaccante come lui può fare. 5 gol su rigore e devastante nell’aiuto con i compagni, facendo salire la squadra e amplificando la portata offensiva. Il compagno di reparto, il 10 argentino, Lautaro, ha realizzato 15 reti, di cui 5 di destro, 6 di sinistro e 4 di testa, dando prova della sua completezza. Sfrutta appieno le sponde del belga, facendosi trovare sempre attorno a lui o libero per sfruttare gli inserimenti.

La difesa è fondamentale per Antonio Conte, ma in generale per qualsiasi squadra ambisca a grandi palcoscenici. Se dapprima c’era un problema, con i difensori poco adatti ad inseguire i vari contropiede avversari (complice anche la scollatura con il centrocampo), da quando l’allenatore ha abbassato il baricentro, la storia è cambiata. 29 le reti subite (attualmente) e per 14 volte la porta è rimasta inviolata. Pochi gol subiti, ma tanti realizzati: la difesa ha realizzato 11 centri, divisi tra Skriniar (3), D’Ambrosio (3), Darmian (3) e De Vrij (1). Senza dimenticare gli assist che, tra Darmian e Bastoni, portano il bottino a 5.

La forza del gruppo non si è vista solo nel modo gestionale, ma anche in campo. Nessuna squadra, in campionato, è riuscita a far realizzare più di 3 centri a 9 giocatori differenti, tra cui: Skriniar, D’Ambrosio, Darmian, Hakimi, Perisic, Barella Sanchez e la Lu-La. Una compattezza vista anche nella forza di squadra, visto che per 16 volte ha recuperato una situazione di svantaggio e 13 vittorie sono arrivate con un possesso palla inferiore al 50%.

L’Inter di Antonio Conte, fenomenologia di una vittoria

In dieci anni due squadre hanno vinto lo scudetto. Entrambe, hanno aperto il ciclo con lo stesso uomo, Antonio Conte. La sua Inter ha distrutto un impero che durava da troppo tempo e lo ha fatto con 4 giornate d’anticipo. Matematicamente, perché qualcosa si era già intuito lo scorso anno.

Un mercato stellare, è vero. Ma così come il suo lavoro di compattezza. Ossessione maniacale del lavoro dove tutti devono remare dalla stessa parte. Giocatori, staff, dirigenza. Chiunque. Solo così si può raggiungere l’obiettivo comune. Un obiettivo che può ampliarsi, diventare sempre più grande.

Perché questo c’è nell’idea di Zhang. Costruire un impero nerazzurro che vada oltre le acque nazionali. Bisogna guardare avanti e ripartire da quanto si è riuscito a realizzare quest’anno. Tutti sanno quale sia il tallone d’Achille di Conte. E lui lo sa più di tutti noi. E sta lottando da anni affinché il problema si trasformi in successo.

Successo che oggi ha il sapore d’Italia. Domani, chissà, magari d’Europa.

                                                                                        

[fonti paragrafo “Pillole statistiche”, GdS e Transfermarkt]