Sabato pomeriggio 25 novembre 2023, partiamo da lì, dal momento in cui, con l’Italia sotto di un match nella semifinale di Davis con la Serbia, Djokovic ha tre palle break sul 5 a 4 nel terzo e decisivo set contro il nostro Sinner.
Io e il mio amico barista eravamo attaccati alla TV da mezzogiorno, quando Arnaldi aveva aperto le danze, eravamo lì con le mani sudate dall’ansia, con il tormento di chi, super appassionato di tennis, aspetta da una vita di vedere la propria nazione portare a casa quella che è forse la più bella, affascinante e importante coppa del mondo.

Essendo io, oltre ad un appassionato, anche un modesto “giocatore della domenica”, conosco abbastanza bene quanto è unico il tennis, quanto la testa, a parità o quasi di valori, conta più della tecnica, delle gambe veloci e resistenti.
Proprio un attimo prima dei tre punti consecutivi del serbo, sul servizio dell’italiano, avevo detto al mio compagno di tifo: due minuti, servono due minuti di passaggio a vuoto di Nole, Jannik deve stare lì con la testa e aspettare quei due minuti che nel tennis possono arrivare improvvisamente, inavvertitamente come un’onda anomala, come uno tsunami, e spazzare via tutto ciò che di buono hai magari fatto per un’ora.

Il tennis è unico, sei te contro te, il rivale di giornata è come quel muro contro il quale giocavamo da bambini con la racchetta di legno segata nel manico e con almeno un paio di corde rotte, è come quel gioco che mi faceva fare nel cortile di casa il vicino che mi regalò quella prima racchetta, quel gioco di cui non ricordo esattamente le regole, ma ricordo benissimo che non vincevo mai, la vittoria non era una possibilità in quel “maledetto” gioco che mi faceva dare il massimo, mi faceva andare oltre i limiti, ma mi faceva sempre perdere.

Nel tennis, a parte nel doppio, non si hanno compagni che ti possono aiutare, non ci sono i Gattuso che corrono per te, non ci sono i Maradona che inventano goal impossibili, non ci sono gli Zenga che parano l’imparabile, devi essere mediano, fantasista, portiere e goleador.
Nel tennis non hai come nel nuoto e nella corsa il contendente che ti gareggia a fianco e ti dà riferimenti, c’è solo un muro che dalla l’altra parte ti fa tornare indietro la palla che tu provi a muovere in mille maniere diverse, con effetti disuguali, con un braccio che nei momenti chiave della partita il più delle volte si indurisce, si blocca, si muove a metà.

A Sinner, sullo 0 – 40, non è venuto da piangere come sarebbe successo probabilmente al 90% dei tennisti, non gli si è neanche bloccato il braccio, ha sorriso alla vita e ha continuato a spingere fluidamente di là la pallina, come se stesse giocando contro quel muro immaginario, lo ha fatto facendo crollare quel muro, sgretolandolo, andandosi a prendere il mito di chi dopo 47 anni, insieme a compagni umili e coraggiosi, ha riportato a casa quella che è forse la più bella, affascinante e importante coppa del mondo.

Jannik quasi sicuramente vincerà tornei del Grande Slam, diventerà il numero uno del mondo, ma questa Davis, per il significato che ha per la gente, vale più di qualsiasi coppa, più di qualsiasi montepremi.
La vittoria di ieri in finale contro l’Australia porta lui, Sonego, Arnaldi, Musetti, il capitano non giocatore Volandri e anche quelli come Berrettini, che erano in panchina infortunati nella storia dello sport, nella storia di un Paese.
Nick Pietrangeli e Adriano Panatta hanno vinto a Parigi, ma tutti li ricordiamo per il trionfo in Davis nel 1976 in Cile. Insieme a loro ricordiamo Zugarelli, Bertolucci e Barazzutti, giocatori di buon livello che senza quella coppa sarebbero ricordati solo dai più affezionati alla pallina verde.

Djokovic quei due minuti li ha avuti, Sinner li ha sfruttati, il resto è già nei libri di storia e per sempre nella mente di tutti gli italiani.
Una Davis vale più di uno Slam... grazie di cuore ragazzi!