A metà degli anni sessanta ci fu una squadra che dominò incontrastata in Italia, Europa e nel mondo: l’Inter di Herrera e Moratti, la Grande Inter.

BRILLANO LE LUCI della grande Ruota quella sera sotto il cielo del Prater. I blancos di Di Stefano e Puskas son imponenti dall'alto delle loro 5 coppe dei campioni consecutive. Dall'altra parte le facce anonime degli avversari  nelle loro maglie scure. Tutti illustri sconosciuti, per lo più, tranne uno. Quello lo conoscono bene. 

Loro sono, presi in blocco, una leggenda vivente ma anche dall’altra parte, in verità, c’è una leggenda od almeno una eredità di una Leggenda del calcio. Una pesante eredità. Il capitano dei bianchi gli tende la mano: «Sono Alfredo Di Stefano. Conoscevo tuo padre. Sii degno di lui». Sandrino Mazzola ne esce soltanto con un emozionato, banalissimo, «gracias». Alfredo Di Stefano è sempre stato il suo idolo.

Lo speaker intanto scandisce le formazioni delle due squadre.

INTER: Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso.

REAL MADRID: Vicente, Isidro, Pachin, Muller, Santamaria, Zoco, Amancio, Felo, Di Stefano, Puskas, Gento.

Anche Puskas lo aveva avvicinato: «Conoscevo tuo padre, ho giocato contro di lui», gli aveva ricordato, affabile, l’antico capitano della mitica Honved. E lì, Sandrino, si era trovato a rispondere con un pizzico di ribalda ironia: «Mio padre l’aveva battuta, Colonnello». Puskas era scoppiato a ridere.

SULLA PANCHINA DELL’INTER,  Helenio Herrera, detto H.H. oppure “il Mago”, non è tipo da dimenticare o perdonare le offese, come la mano rifiutatagli dal grande Di Stefano in un "clasico" di qualche anno addietro. E sì, Helenio Herrera quella sera ha molte vendette da compiere. E un sogno da realizzare: distruggere il Real Madrid. Portare a termine il lavoro iniziato sulla panchina del Barcellona, dimostrare al mondo, e agli spagnoli che non lo avevano capito, che lui non è un ciarlatano ma un uomo che ha il coraggio delle sue idee,

Con lui il Barcellona aveva vinto un campionato e poi un altro. Una Coppa di Spagna e poi un’altra. Ma a loro non bastava, perché il Real Madrid intanto era il padrone d’Europa. E a Madrid, in una tremenda semifinale aveva fatto sentire al suo Barca la legge del più forte. La stampa lo aveva flagellato, e i tifosi lo avevano inseguito, furenti, lungo le ramblas. Così se ne era andato, ma non aveva dimenticato.

Era emigrato in Italia, alla corte di Moratti, munifico signore rinascimentale del calcio milanese, che da anni aspettava, inutilmente, uno scudetto.

Glielo aveva regalato lui, H.H., infine, al terzo tentativo, attraverso un mare di polemiche e una girandola di acquisti provati e scartati. E l’avversione di stanche primedonne che non ne volevano sapere del suo modo maniacale di intendere il calcio, dei suoi allenamenti snervanti, della sua concentrazione feroce. Della prima ultraspecializzazione organica dei ruoli, dal terzino marcatore al terzino fluidificante, sconosciuto in italia. Dall'ala associativa a quella classica, una vera punta esterna, fin al primo esempio di un ruolo, quello del libero, strutturato.

Il calcio moderno è ritmo, signori, ritmo più fantasia. E a volte sono più utili gli onesti faticatori di certi campioni sfaticati. All’Inter, sostenuto da Moratti, alla fine l’aveva spuntata, si era liberato di Angelillo, l'uomo che prima di Higuain aveva il record di segnature in un campionato a 20 squadre, 33.

E a poco a poco si era costruito la sua squadra che era un mix perfetto di talento e aggressività amalgamati con ferrea disciplina.  

I suoi ragazzi son digiuni di calcio internazionale! Ma in campo ci sono Suarez e Picchi.

Picchi, il livornese furente, che lui ha scoperto e valorizzato, è il leader della squadra ed è il libero, il primo esempio di libero della storia del calcio. Libero da compiti di marcatura (da qui il nome italiano di quello che è comunemente conosciuto all’estero come “sweeper”) 

E' vero gli svizzeri lo avevan già inventato, Viani nel Milan poi di Rocco aveva iniziato a costruirne la figura. Ma il primo vero libero della storia è il livornese. L'uomo con il piglio, l'intelligenza tattica, il piede, per vedere tutto, prevedere tutto, coprire gli errori di marcatura a uomo dei suoi stopper, Burgnich e Guarnieri.

La tipologia sopra indicata resta buona per quasi quarant’anni in cui gli appassionati possono ammirare i più grandi liberi di sempre. Franz Beckenbauer su tutti, poi Bobby Moore, Daniel Passarella. Franco Baresi e Gaetano Scirea. 

E c'era Luisito Suarez, il Grande di Spagna, che Helenio si è portato dal Barcellona .

Quei due sono i supi allenatori in campo. Ma non sono loro la chiave della serata di Vienna, quella che diede inizio alla legge. Lo sarà Tagnin, mediano di ferro. "Di Stefano giocava come aveva giocato prima Hidegkuti nell’Ungheria, come giocò dopo Cruijff nell’Olanda: a tutto campo. Loro applicavano una marcatura quasi a zona: e quello fu forse il primo successo internazionale del modulo all’italiana contro la zona, intendiamoci: azzeccammo la tattica, però eravamo anche più giovani, scattanti, veloci. Loro erano tutti grandi giocatori, ma erano alla fine della carriera" 

Di Stefano in testa, si prefigge di consacrare in ambito europeo la superiorità del proprio principio, un principio che si fonda sulla formula offensiva, sulla creazione del gioco di manovra a ondate successive, e le incursioni avvolgenti delle due ali. Ma questa è tattica, e la tattica si attua sul campo, e si è sempre in due a darle corpo.

Già al 5′ Corso è lì, che interrompe il forcing madrileno con una stupenda punizione da oltre venticinque metri. Herrera ha un sogghigno dolceamaro. Questa sera se lo sorbiranno loro il maledetto mancino pieno di talento e di pigrizia che si fa beffe di lui e gli sbilancia la squadra. Ma è il cocco del presidente, e lui, Herrera, deve tenerselo per forza, e fare miracoli di ingegneria calcistica per raddrizzare un modulo zoppo con quell'ala sinistra dal dribbling ubriacante. 

E’stato Mandrake, ma anche il “participio passato del verbo correre”. Usa il piede sinistro ora come un bastone, ora come un uncino, ora come un pennello, ora come una stecca da biliardo; i suoi lanci sono millimetrici, i suoi tiri a volte secchi e potenti a volte “liftati” e morbidi; inventa la “punizione a foglia morta”, che esegue in maniera ineguagliabile. L'ala sinistra a quel tempo era un attaccante, lui non lo era, almeno nel senso di una punta da 20-30gol a stagione. Non era un centrocampista in senso pieno, per la già citata scarsa propensione alla corsa. Era un regista offensivo che si lasciava guidare dall'estro e dall'istinto. Ma che disegnava poesia da quella mattonella lì. 

UN MODULO quello partorito da Helenio Herrera che raggiunge la perfezione solo perché davanti a una difesa impenetrabile, magistralmente orchestrata da Armando Picchi, opera quel Suarez lì, immenso capace di sacrificarsi in copertura e costruire gioco con la potenza di un motore diesel e la classe della sua regia che illumina di lanci lunghissimi e precisi il contropiede della gazzella nera Jair, l'ala destra di quel meccanismo, ed il dribbling ubriacante di Mazzola che non è più il figlio di Valentino, è Mazzola, anche lui.

Seguendo i consigli di Herrera, Mazzola gioca come mezza punta per sfruttare al meglio lo scatto bruciante del quale è dotato. In pratica da uomo di regia, ruolo al quale si sente vocato, si trasforma in realizzatore del gioco altrui, costretto ad assumere quel pizzico di egoismo che il «goleador» deve avere nel proprio bagaglio tecnico.

Milani centravanti boa e il primo dei terzini fluidificanti  della storia del calcio italiano, Facchetti completan la rosa. La sua intelligenza copriva da quella parte, sostenendola la presenza di Mazzola e Corso, tanto quanto Burgnich proteggeva il fianco dai contropiede scatenati da eventuali dribbling falliti da Jair. Senza paura di sbagliarsi, chiunque poteva dire che per il laterale sinistro, in italia, c’era un Prima e un Dopo Facchetti

Non poteva che partire “il piede sinistro di Dio”, Corso, l'azione che fa arrivare la pallan a Mazzola. Sandrino aggancia al volo e lascia partire un magnifico pallone che si insacca alla destra di Vicente. Per il Real Madrid è come una pugnalata. Le sue stelle di prima grandezza stanno spegnendosi, fisicamente non ce la fanno quasi più.

L’inizio della ripresa è un festival di gioco merengue: al palo colto da Gento si aggiunge quello colto da Puskas, è un palo come se ne vedono pochi in un campo di calcio, il portiere era battutissimo e il Real avrebbe potuto pareggiare.

INVECE ARRIVA  il 2°gol di Milani.

La difesa dell’Inter si muove all’unisono, elastica e compatta, come Herrera ha insegnato, e in certi momenti par di sentire un’orchestra, tanto perfetto ne è il ritmo.

Perfetto il gioco di centrocampo e di contropiede dell’Inter. Il Real Madrid è subito alle corde.  Mazzola piazza il terzo gol della serata.

FINIVA QUELLA SERA, al Prater di Vienna, la favolosa avventura di una squadra che, grazie alla Coppa dei Campioni, divenne leggenda.

Puskas si volta a guardare, triste, i nuovi padroni d’Europa, poi segue i suoi compagni. Il re è morto. Viva il re.

Solo il Bologna contrasta il cammino di quell’Inter e ne interrompe il volo all’Olimpico di Roma nello spareggio-scudetto 1964.

Splendida l’impresa del 65 quando dopo una terribile partenza ad handicap con oltre 7punti di distacco in inverno, vince sul Milan con distacco a Maggio, lo stesso anno in cui arriva anche la seconda Coppa dei Campioni consecutiva. La conquistano, sempre a Milano, battendo il Benfica con un gol di Jair, in una partita segnata dall’espulsione del portiere lusitano.

L’Inter riconquisterà ancora il titolo mondiale   

IL 1966, L’ANNO DELLA COREA, vede l’Inter trionfare facilmente in campionato, ma in campo europeo arriva la vendetta del Real Madrid, un Real largamente rinnovato: della formazione che dieci anni prima, a Reims, aveva spaventato i francesi e posto le basi della propria leggenda era rimasto solo il vecchio Gento.  

LA STAGIONE 1967 è la più esaltante e la più triste. In campionato l’Inter sembra non avere avversari, e in Coppa dei Campioni l’avvio è una cavalcata travolgente. A Mosca,  l’Inter realizza, secondo molti, «la più perfetta partita difensiva di tutti i tempi», Picchi e Guarneri dominano, gli altoparlanti dello stadio alla fine spiegano al pubblico che «è difficile trovare nella storia del calcio una difesa più forte di quella della squadra italiana».  

Dopo aver battuto ancora il Real la fatica di una stagione massacrante, che vede la squadra impegnata su molteplici fronti (dopo il disastro coreano è stata trapiantata praticamente in blocco in nazionale), comincia a farsi sentire

E POI SI ARRIVA A LISBONA. Il Celtic non è nessuno sui palcoscenici europei e, anche se l’ambiente è ostile, la partenza sembra favorevole ai nerazzurri che dopo sei minuti sono in vantaggio con un gol di Mazzola, su rigore. Ma la grande avventura cominciata a Vienna in una magica sera di maggio finisce lì, sulle rive dell’Atlantico. L’assenza di Suarez, così indispensabile nel modulo dell’Inter, l’azione incessante degli avversari, e un’improvvisa stanchezza che svuota le energie dei giocatori determinano il tracollo: alla fine è 2-1 per il Celtic. E’ il 25 maggio 1967.

UNA SETTIMANA DOPO, a Mantova, l’Inter è ancora sotto shock, piena di rabbia, ma anche di paura. Si gioca l’ultima partita di campionato e la squadra nerazzurra precede la Juve solo di un punto, mentre il Mantova naviga in una tranquilla posizione di centro classifica. L’Inter attacca subito, in massa, ma la porta di Zoff sembra stregata, Mazzola colpisce anche la traversa dopo aver superato il portiere con un pallonetto: è il segnale definitivo della fine, non ci sono appelli, il bel giocattolo chiamato Inter è andato in tilt. A quattro minuti dal termine arriva addirittura la beffa: segna il Mantova, con l’ex nerazzurro Beniamino Di Giacomo. Negli spogliatoi Mazzola piange, e sulle sue spalle piange anche Di Giacomo, che ha dovuto segnare il gol più ingrato della sua vita. La festa è finita. 

Un grande scudetto, con una prodigiosa rimonta sul Milan, di un Inter orfana di Herrera e Suarez con Boninsegna nel motore, l’ultimo grande successo della grande Inter. Siamo nella stagione 70-71, l’anno dopo, nella Coppa dei Campioni, i nerazzurri raggiungono la finale di Rotterdam contro i nuovi dominatori della scena Europea: l’Ajax di Cruijff. Non c’è scampo nella finale, il fuoriclasse olandese, con una doppietta fantastica, frustra le speranze restauratrici degli interisti.

Ed afferma l'inizio della nuova era, quella del calcio totale, di cui ci occuperemo nella puntata VII dei Titani del Calcio.