Dopo i capitoli dedicati alla grande Italia (I puntata), della Grande Ungheria (II puntata), del Grande Torino (III puntata), vedi la mia pagina personale, nella rivista della storia delle grandi compagini calcistiche, non si può non soffermarsi nel Grande Real.

A differenza di altri esempi di grandiosi progetti tecnici, coltivati nella sagacia tattica dei propri allenatori come la grande Juve e la grande Italia; la pazienza, anno dopo anno, di assemblare l'11 vincente, come fatto col grande Torino, la semplice fortuna di ritrovarsi un patrimonio umano e tecnico tutto nella stessa generazione e nella stessa nazione/città come nel caso dell'Honved e la Grande Ungheria, nacque intorno ad un progetto imprenditoriale.

Il Grande Bernabeu semplicemente decide di ingaggiare i più forti calciatori dell'epoca, anno dopo anno, a partire dal più forte, e leader tecnico, Di Stefano, attorno a cui sbocciarono talenti come Gento e furono acquistati a peso d'oro, per l'epoca, fuoriclasse come Rial, Kopà, Santamaria fin all'ultimo di quel  ciclo vincente, Puskas.

Tatticamente si schierava con un 3.2.2.3, il Sistema inventato da Chapman, che dominava dalla fine del ciclo della grande Italia, complice la guerra mondiale, in europa e nel mondo. Con quel modulo tattico si schierava il Grande Torino e con una variante allo schema, 3.2.3.2 si schierava  la Grande Ungheria, per sfruttare il su citato Puskas e non risultar penalizzata dall'assenza di un vero centravanti di sfondamento.

Due mediani, il gigante uruguagio Santamaria e Zarraga, davanti a 3 difensori, in marcatura a uomo su ali e centravanti avversario, a quel tempo giocavan tutti con un tridente siffatto, a costituire un quadrilatero che aveva opposti due rifinitori/suggeritori, rappresentati da Rial e, all'apice della gloria, da Puskas. Il centrattacco, Alfredo Di Stefano, e le ali, Gento a sinistra, Kopà a destra.

"Nessuna squadra vincerebbe oggi contro quel Real Madrid", ha scritto una volta il giornalista francese Jean Eskenazi. "Il loro gioco è stato il più spettacolare mai visto". 

Probabilmente i grandi nomi contavano, no togliamolo pure il probabilmente, quanto se non di più delle tattiche in un periodo in cui la scienza del calcio era ai suoi albori. Il dato reale è che in quel periodo alle 5 Coppa dei Campioni, si accompagnano per due volte il doblete con la Liga, vinta l'anno prima del ciclo d'oro europeo e per 8 anni consecutivi dopo quel ciclo d'oro. 

"Quando puoi contare su talenti come Raymond Kopa, Ferenc Puskás e Alfredo di Stéfano, li schierari tutti insieme e il risultato sarà una squadra, invincibile anche se qualcuno la vedrebbe troppo votata all'attacco", ha ricordato Francisco Gento, parlando come se non facesse parte di quella categoria, a proposito di uno schema tattico che sfociava spesso e volentieri in  un ultra offensivo 3-2-5.

Lui, Gento, che è l'unico giocatore ad aver vinto la Coppa dei Campioni 6 volte,  l'unico calciatore – insieme a Paolo Maldini – ad aver disputato otto finali. 

La continuità in campo è un fattore cruciale dell'epoca d'oro – Di Stéfano va a segno in tutte e cinque le finali vinte.

Molto più degli schemi e della guida tecnica, 3 diversi tecnici invece si succedono sulla panchina del Madrid in quel periodo, l'ultimo un suo compagno di squadra in tre di quelle campagne di conquista, Miguel Muñoz.

L'apice di quella meravigliosa avventura la finale che oppose il Real contro l’Eintracht Francoforte, in cui Puskas, esibendosi anche in un insolito colpo di testa, segnò 4 reti.

Vicino gli era Alfredo di Stefano, che segnò altre tre volte per il 7-3 conclusivo.

Quel Real era galattico ma più convenzionale della grande esperienza ungherese. Arrivava dieci anni dopo le invenzioni ungheresi: grande qualità di palleggio dei giocatori, ruoli intercambiabili, capacità di alternare i lanci lunghi allo scambio rapido e ravvicinato, il centravanti che partiva da centrocampo costituivano intuizioni che quella squadra seppe far propri dall'alto delle immense doti tecniche dei suoi fuoriclasse.

Su tutti, Alfredo Di Stefano, la «Saeta rubia» («Saetta bionda»), è stato qualcosa di più di un grande campione, e non ci sono schemi dove collocarlo 

Di Stefano è l’arte del comando, la disciplina tattica. 

1.75 di atleta per 77 chili oscillanti che sul prato verde diventava un gigante con cento occhi e mille piedi, l’espressione fuori da iperbole del calcio eclettico, per cui assolveva al lavoro di tutti i ruoli, sapeva essere difensore incontrista e attaccante rifinitore, nonché lussuoso elegante leggero e possente centravanti. Si assommavano in Di Stefano effettivamente tutte le doti del calciatore.

In vent’anni di carriera ha infilato la bellezza di 529 gol, in Spagna  in 284 partite in Liga segna ben 216 reti. Quattro volte capocannoniere della Liga. Quando non lo è stato è perché non ne aveva voglia, si diceva senza discordarsi troppo dal vero.

Un aneddoto rivela il peso dell'uomo nello spogliatoio e la veridicità dell'affermazione.

Puskas era uno che Alfredo Di Stefano, non uno qualunque, chiamava Professore. Un fuoriclasse, tuttavia, talmente furbo da capire, il primo anno a Madrid, che sarebbe stato uno sgarbo alla «saeta rubia» vincergli il trofeo del «pichichi» (il miglior marcatore) sotto il naso. Lui che ha sfornato 620 gol in 616 partite giocate, in 20 anni di carriera, 1 gol a partita.

All’ultima partita erano arrivati segnando lo stesso numero di gol. Puskas dribblò anche il portiere, lo mise a sedere con una finta, e a porta vuota preferì toccare indietro per Di Stefano, che, ovviamente, non respinse l’omaggio...

Il giocatore meno noto e celebrato del devastante attacco del Real Madrid fu sicuramente José Hector Rial. Decisivo già nella prima finale di Coppa Campioni a Parigi contro lo Stade Reims, nuovamente decisivo nella finale con il Milan a Bruxelles. Era un interno argentino di classe internazionale

Ríal è uno di quelli tosti.

All'inizio del ciclo, quando si annusava la nascita di qualcosa che sarebbe rimasto  nella storia del calcio,,a testimonianza di quanto gli uomini di campo contassero più dei tecnici, prese da parte un giovanissimo Francisco Gento, ancora acerbo: «Fermati un attimo ragazzo, che ti spiego io come devi giocare, ti dico io come devi usare questa tua arma incredibile, questa velocità che ti porta dove vuoi, ma a volte troppo lontano da noi». 

Il problema di Gento era infatti che quando riceveva la palla, schizzava sulla fascia sinistra, arriva in fondo e si ritrova solo, la palla ai piedi, e nessun compagno che ce l’abbia fatta a seguire quella corsa vertiginosa. Il grande Di Stefano capisce prima di tutti che quel ragazzo è un fenomeno e manda Ríal a spiegargli il calcio

«Lui è appena meno veloce di te, sennò perché credi che lo chiamiamo saeta? La premessa per non commettere lesa maesta.

Allora: lui dà la palla a me, io la tengo un attimo, il tempo che gli serve per scattare verso l’area. Sì, gli serve giusto un attimo prima di te. A quel punto io ti innesco, la palla e i tuoi piedi diventano una cosa sola e tu voli fino in fondo, e vedrai che Alfredo sarà lì, pronto a fare della tua corsa il primo pezzo di un grande gol, la prima pennellata di un’ opera d’ arte»

Gento segue i consigli di Rial puntando meno sulla pura velocità e imparando a dosare meglio la corsa e concentrarsi maggiormente sui cross al centro e usando il suo potente sinistro per centrare la rete. Nel 1954/55 è un calciatore trasformato giocando un ruolo cruciale nel bis del Real in Liga. Ormai Gento è parte fissa di una delle linee d’attacco più efficaci che siano mai state assemblate e contribuisce al successo del Real nella prima edizione della Coppa dei Campioni nel 1956.

«E se non ci sarà Alfredo, ci sarà Kopa». Finiva quel discorso tra i due, sotto lo sguardo attento del General, Di Stefano.

Già, Kopà, ma chi era Kopa? 

Kopa non è stato un giocatore come tanti, no. Lui è semplicemente il primo grande calciatore che la Francia abbia avuto, il primo ad aver vinto il Pallone d’Oro, dovette il titolo alla sua straordinaria performance che gli valse il titolo di miglior calciatore nella coppa del Mondo nel 58, nonostante l'eliminazione in semifinale patita per merito del Brasile di un giovanissimo Pelé. Non un centravanti puro, Napoleon, come era soprannominato per la statura, 164. Ma un pò  seconda punta, un pò  ala e un pò trequartista: duttilità mostrata in particolare nei suoi anni al Real Madrid, ci arrivò nel 56, dove il ruolo di centravanti era occupato da un certo Alfredo Di Stefano (tanto per rimanere in tema di fenomeni). Kopa era un esteta del bel calcio, uno dal dribbling facile e a volte, un po’ troppo egoista e innamorato del pallone. Fece l'ala destra in quel Real e che ala, il 57-58 surclassò sua maestà Di Stefano togliendogli il pallone d'oro per arrivargli dietro l'anno dopo.

In ultimo ma non ultimo, Ferenc Puskás 

Arriva dalla sua pensione, ingrassante, 15 kg oltre il suo peso forma, in quel di Bordighera, già Bordighera, Liguria, oramai 31enne.

E' il 1958, il prodigioso sinistro di Puskás aggiunge una nuova dimensione al gioco del Real.

In 85 partite disputate con l'Ungheria, Puskás aveva segnato 84 gol, prima della squalifica inflittagli per aver abbandonato la sua terra preda delle repressioni sovietiche post rivoluzione.

La sua storia è nota, Messi prima di Messi, ed al contrario di Messi, uomo decisivo ovunque e comunque. Quanto fosse grande il suo talento è sintentizzabile dall'elogio di  Di Stefano: "Puskás controllava la palla con il suo sinistro meglio di come potrei fare io con le mie mani", raccontava il conducator.

E pensare che, a chi gli chiedeva il perché delle tante reti, Ferenc Puskás rispondeva "Penso sia solo dovuto al fatto che mi trovavo vicino la porta!"

La stagione 1959-60 fu indubbiamente la sua più brillante con la maglia del Real, un anno per rimettersi in forma era anche dovuto, dopo di fatto anni di inattività.

Padrone ormai del gioco, affiatatissimo con Di Stefano (col quale molto opportunamente aveva subito stretto all’arrivo una alleanza di ferro), era pressoché irresistibile. In quel campionato, come detto, aveva messo a segno 26 reti in 24 partite, poi aveva segnato 4 gol nella finale di Coppa dei Campioni nel clamoroso 7-3 all’Eintracht di Francoforte a Glasgow. Il suo sinistro dominò la partita di ritorno della coppa intercontinentale col Peñarol: segnò due gol e vi aggiunse gli assist per gli altri 3 gol di Di Stefano, Herrera e Gento.

E sì, non fu frutto di uno studio tattico, di intuizioni tecniche, la grande innovazione fu la più semplice di tutte, quella per cui i grandi giocatori vincono le grandi competizioni.

La prossima puntata, la V, sarà dedicata alla grande Inter di Helenio Herrera