Un amico qualche giorno fa mi ha suggerito di scrivere qualcosa sul suo idolo cestistico, su quella passione che è riuscito a trasmettere al figlio, il quale i parquet di basket li ha anche calpestati.
Mi ha chiesto di parlare di Kobe Bryant, del Black Mamba dello Staples Center di Los Angeles, purtroppo morto, insieme alla figlia tredicenne Gianna e ad altre sette persone, in un incidente in elicottero il 20 gennaio dello scorso anno.
La mia risposta d’acchito è stata no, non perché Kobe non abbia diritto ad essere raccontato, glorificato, ma perché la sua immensa grandezza dovrebbe essere spiegata da chi lo conosce bene, da chi sa scrivere bene, e il mio primo pensiero è stato di non essere all’altezza.
Nelle ventiquattro/quarantotto ore successive alla richiesta ricevuta, ho poi pensato: non sarebbe gentile deludere la richiesta di qualcuno che non dimentica mai di leggermi e di farmi un incoraggiante applauso dopo averlo fatto.

Ed eccomi qui a provare a non fare brutta figura, a scrivere magari banalità, cose già scritte da altri mille volte, ma provando a farlo nel modo più giusto possibile. Parlare delle vittorie di Kobe, dei record personali, degli 81 punti in una sola partita contro i Toronto Raptors sarebbe troppo facile. E’ ad oggi il quarto realizzatore all time della NBA, ha vinto cinque titoli con i Lakers e due medaglie d’oro alle olimpiadi (Pechino 2008 e Londra 2012) con la nazionale degli Stati Uniti d’America. E’ l’Uomo quello che in pochissime righe mi interessa esplorare, provare a spiegare.

Kobe era un po’ italiano, parlava fluentemente la nostra lingua imparata alle scuole elementari e medie italiane, a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, dove, per il lavoro del padre, anch’esso cestista, aveva vissuto dai 6 ai 13 anni (dal 1984 al 1991).
Dell’Italia aveva un ricordo bellissimo, quando poteva ci tornava, la adorava, ne parlava sempre da uomo innamorato. Amava Capri e la sua incantevole bellezza che tutto il mondo ci invidia, ed era tifoso, tifosissimo del Milan. In un’intervista, confidando il suo tifo per i rossoneri, disse che se gli avessero tagliato il braccio sinistro, sarebbe sanguinato rossonero. Kobe metteva la stessa passione ovunque, per questo, insieme al grandissimo talento che madre natura gli aveva donato, era forse il più forte, sicuramente uno dei più forti.

A Reggio Emilia, nelle giovanili della squadra Cantine Riunite, incominciò a giocare il basket “vero”, quello di squadra, quello di competizione, quello del vinci o perdi. Qualche anno più tardi, a proposito della sua formazione cestistica giovanile disse: "Crescere in Italia mi ha dato un incredibile vantaggio, non ho imparato come passarmi la palla sotto le gambe o dietro la schiena, bensì la tattica, come muovermi senza palla, fare passaggi semplici, usare entrambe le mani, come usare l’angolo per appoggiare la palla al tabellone e come muovermi sui blocchi. Quando sono tornato in America, gli altri ragazzi non sapevano fare quelle cose". Ecco, se per un attimo chiudessimo gli occhi e lo immaginassimo con la canotta viola, vedremmo proprio quei movimenti, quel suo uscire dai blocchi e infilare un tiro da tre punti dai sei metri e venticinque (dal 2009 6,75), oppure andare in penetrazione ed appoggiarla dolcemente al tabellone facendola finire al centro del canestro. Ci apparirebbe playmaker a dare tempi ed assist ai compagni, difensore e attaccante in tutte le zone del campo, uomo squadra, leader, fuoriclasse in campo, nelle pause in panchina e nello spogliatoio. Un po’ come LeBron James oggi.

Kobe fu anche fuoriclasse fuori dai palazzetti, fondò la Kobe Bryant China Fund per aiutare i ragazzi cinesi nell’educazione scolastica e sportiva e la Kobe & Vanessa Bryant Family Foundation per i giovani disagiati di Los Angeles, oltre ad essere ambasciatore dell’organizzazione no profit After-School All-Stars che tutt’ora provvede al doposcuola dei ragazzi in alcuni dei cinquanta Stati USA.

Un episodio che in qualche modo può raccontare la sua grandezza è quello successo nel 2010 con Matt Barnes, all’epoca ala piccola degli Orlando Magic. In quella partita tra i Lakers e Orlando ci furono dei contrasti (per usare un termine calcistico) non proprio legali tra Kobe e Barnes, con i quali il secondo cercò in ogni modo di far saltare i nervi all’avversario. Bryant non cadde nelle provocazioni, al contrario, con il suo atteggiamento composto, fece prendere due falli tecnici al provocatore. Il momento simbolo del match fu quando Barnes, incaricato di battere una rimessa laterale, fece finta di tirare la palla in faccia a Bryant, il quale non si spostò di un centimetro e guardò l’avversario dritto negli occhi sorridendogli, facendolo sentire piccolo piccolo.

Ci sono pochi uomini che hanno fatto la storia e non hanno diviso. Per esempio Maradona è riconosciuto da tutti come forse il più grande, sicuramente tra i più grandi calciatori di sempre, ma non è amato da tutti, ha diviso un popolo, quello italiano, quella notte al San Paolo nel 1990, e continua a dividere per le idee politiche e il modus vivendi avuti in vita. Lui no, Kobe Bryant no, lui ha unito due o tre generazioni di appassionati di basket in tutto il mondo.
The Black Mamba, la 24 per sempre.