È di notevole conforto prendere atto che noi esseri umani non viviamo in un mondo perfetto, ma allo stesso tempo la maggior parte della responsabilità appartiene anche al nostro istinto superbo, reso ancora più forte dalla convinzione di sentirci padroni di un pianeta che non ha firmato con noi un vincolo contrattuale. Come recita una frase ormai scolpita nella roccia della Storia, la cosa più importante non è arrivare al traguardo, ma ciò che ognuno di noi prova durante il percorso che deve coprire. Anche lo sport aiuta a riflettere sul tema del viaggio, metafora di vita e tema affrontato dai più grandi autori della letteratura; neanche a farlo apposta, tutto ruota attorno ad un fatto che mi è capitato non più di una settimana fa e che ancora oggi mi rende felice, ma allo stesso tempo un po’ preoccupato.

Mi trovavo in piscina ad allenarmi, visto che ho 20 anni e pratico nuoto agonistico da ormai troppo tempo. Per fortuna, negli spogliatoi, ho sempre avuto la possibilità di scambiare due parole anche con i ragazzini più piccoli, una serie di bambini che frequentano il quinto anno di scuola elementare. Tra tutti, iniziai per puro caso a parlare con un cucciolotto che, praticando il mio stesso sport, si divertiva a chiedermi dei consigli e ad affrontare altri argomenti. Non lo avevo mai visto prima e ancora oggi mi chiedo che cosa abbia visto in me di così tanto grazioso da iniziare una conversazione come se fossi un amico di famiglia. Un quesito che forse resterà appeso alle supposizioni, ma a volte anche in un piccolo gesto subentrano dei sentimenti che grazie alla memoria fanno riflettere. Nei giorni scorsi, mentre nuotavo con la mia squadra nella corsia di riferimento, il bambino si apprestava a fare il proprio allenamento con i suoi compagni, allenati dal proprio istruttore; non ricordo bene il motivo, ma dopo una serie infinita di vasche, mi misi a sedere sul classico muretto di fine corsia a rifiatare un attimo. Quel momento coincideva con il termine dell’allenamento per il mio nuovo amico che, non appena uscito dall’acqua, non andò a salutare il suo allenatore, ma venne da me e, con un sorriso, mi dette la mano salutandomi con un semplice “ciao Matte”. Un gesto molto comune, non di certo all’avanguardia, eppure a distanza di qualche giorno mi chiedo: che cosa aveva visto quel bambino in me? Forse una guida, un porto sicuro, o magari un amico più grande che poteva aiutarlo attraverso quella funzione di “guerriero” che ha reso grande Marco Mengoni. 

Come affermava anche il grandissimo autore Italo Svevo, il ricordo e la memoria sono strettamente collegati, attraverso quell’immaginazione che permette di soddisfare il desiderio. Mi chiedo come mai quello spirito affettivo mostrato da quel bambino non si riversa anche nel calcio, sempre più contornato da superbia e mancanza di rispetto. Non parlo delle categorie maggiori, perché forse il problema viene dal basso, dai classici allenatori rudi e avari che indirizzano i bambini verso la cattiveria agonistica e l’obbligo del successo; un po’ il comportamento che attribuisco anche ad alcuni genitori, convinti di avere davanti ai loro occhi i nuovi Messi o Ronaldo e capaci persino di preferire il calcio all’istruzione. Una vergogna a mio modesto parere. 

Eppure, nonostante tutto, qualcuno si diverte davvero a fomentare odio ed eccessivo disprezzo.
È il caso delle rivalità cittadine, tappezzate sempre più da pregiudizi che da eventi sportivi; persino tra ragazzi di 15/16 anni si vedono atteggiamenti di rancore verso alcune squadre, forse perché colpevoli di impedire il salto di qualità nell’elitè del calcio europeo che dovrebbe riguardare il ragazzino convinto di arrivare al livello di Leo Messi. È giusto avere ambizione, credere in un ideale, ma a volte nelle classiche partite becere delle giovanili viene proprio a mancare l’educazione, quel pilastro che dovrebbe essere trasmesso dai genitori, molto spesso assenti e arrossati negli occhi dalla brama agonistica. Un po’ troppo per le fondamenta del movimento calcistico.
Conosco tanti ragazzi della mia età che si atteggiano in un modo superbo e assai scorretto, sentendosi i capostipiti del nuovo football e convinti di avere la meglio in ambito sociale perché calciatori, e quindi superiori a qualunque altro atleta. Come afferma Cristiano Ronaldo, un campione deve essere quadrato, mangiare sano e iniziare con il divertimento, per poi chissà trasformare il suo svago in un lavoro. Proprio quella componente che manca oggi, dagli allenatori ai genitori dei ragazzi.

Ripensando a quel semplice gesto in piscina, mi soffermo sull’amoroso spettacolo che potrebbe offrire anche il mondo del calcio se in ogni partita ci fosse il Fair Play e se tutto ruotasse attorno al concetto di puro divertimento; un mondo che forse si respira in parte in Inghilterra, ma che al momento si può solo idealizzare. Come la figura dell’uomo perfetto, appartenente soltanto ai vecchi manoscritti custoditi nei sotterranei dei monasteri.
Ogni tanto un po’ di realismo farebbe bene e forse, in un pianeta che sta scoppiando sotto tutti i punti di vista, non c’era bisogno di trasformare il nostro calcio in una partita di superbia e strafottenza.