Ieri è stato il giorno dei funerali di Siniša Mihajlović, ex calciatore di Borovo, Vojvodina, Stella Rossa, Roma, Sampdoria, Lazio, Inter, nazionale juogoslava (con la quale nel 1990 perse una finale di europeo under 21 contro l’Unione Sovietica) e per una partita anche per quella serba, ed ex allenatore di Inter (vice), Bologna, Catania, Fiorentina, Serbia, Sampdoria, Milan, Torino e per qualche giorno anche dello Sporting Lisbona.
Uno “zingaro” del calcio, nell’accezione positiva del termine.
La cosa curiosa è che lui, sempre dichiaratosi nazionalista serbo, è nato a Vukovar in Croazia da padre serbo, ma da madre croata.
Sinisa,
come un po’ tutti lo chiamano affettuosamente in questi giorni della sua scomparsa, è stato a volte uomo di contraddizioni, anche del predicare bene e razzolare male come si suol dire.
Più volte ha giustamente definito aberrante quello che dal 1991 al 1995 successe nell’ex Jugoslavia, con amici che il giorno prima giocavano a carte al bar e il giorno dopo si sparavano in nome di una bandiera diversa da quella sotto la quale erano nati e cresciuti insieme.

Le guerre sono tutte assurde, fanno tutte schifo, e il pensiero di Mihajlović in merito a quella da lui in parte vissuta è ovviamente condiviso dalla stragrande maggioranza delle persone, ma quello che le persone non condividono con lui è il suo voler santificare il signor Željko Ražnatović, in arte Arkan, suo grandissimo amico, ma soprattutto uno dei più grandi criminali di guerra della storia dell’umanità. Ma si sa, un amico è sempre un amico, anche quando sbaglia, anche quando fa del male, anche quando è un delinquente, anche quando è un criminale.

Nel 2010, quando era allenatore del Catania, in conferenza stampa, alla domanda “alleneresti mai il Palermo?” rispose con un secco no, a quella “alleneresti mai il Milan?” rispose deciso “no, non potrei mai, ho troppo rispetto per le squadre per cui ho giocato e per quelle che ho allenato, e poi, sono interista”. Cinque anni più tardi, nel 2015, accettò la panchina rossonera, come una ventina d’anni prima giocò per la Lazio dopo aver indossato la maglia della Roma che lo portò in Italia togliendolo dagli spari tra ex amici.
Per me, interista vero, quello fu un tradimento pari a quello subito da Ronaldo qualche anno prima, ma si sa, il lavoro è lavoro, non conosce bandiera, riconoscenza, sentimento.

Sinisa era un essere umano come tutti noi, con i suoi pregi e i suoi difetti, non era perfetto come non lo è nessuno, ma era sicuramente un grande combattente che incominciò ad aver paura quando per la prima volta si trovò di fronte un avversario che non poteva guardare negli occhi, che non poteva sfidare a suon di tackle e punizioni, un avversario che sentiva dentro di sé senza avere a disposizione, per contrastarlo, le armi che aveva sempre avuto nelle guerre che aveva combattuto.
Io di lui ho un’immagine indelebile che in questi giorni mi è tornata spesso alla mente. Lo ricordo battere quella magnifica punizione a San Siro nella finale di Coppa Italia Inter-Roma del 2005. Fece un goal straordinario mettendo il sigillo al trionfo nerazzurro. Ero sugli spalti dietro alla porta, fu l’inizio di un ciclo di vittorie incredibile, culminato con il Triplete.

La famiglia ha perso un padre, un marito, gli amici hanno perso un compagno, i suoi calciatori hanno perso una guida, noi appassionati di calcio abbiamo perso un uomo sicuramente diverso, mai uguale agli altri.
Ciao Sinisa