Chi è stato Buffon non l'abbiamo certamente scoperto ieri nella conferenza in compagnia di Andrea Agnelli, il Pres, come lo ha amichevolmente chiamato lui. E se lo può permettere, di abbreviare il titolo, perché quando indossava per la prima volta la maglia della Juve, Andrea era poco più che un promettente rampollo di buonissima famiglia. Tanto è passato, da quando il numero uno bianconero era l'unico numero uno dei due. Da allora sono arrivati trofei, record, ma anche momenti di buio, di sofferenza sportiva e forse neanche solo sportiva.

UNA SCELTA SERENA MA DIFFICILE. Ma nel clima disteso della conferenza stampa di ieri, tra due che sono cresciuti insieme e che si stimano e si rispettano, una luce diversa ha illuminato le sue parole: più sicuro di sè, maturo, consapevole di essere al termine di un'esperienza unica umana prima che professionale. La Juventus per lui non è stata la sua squadra ma la vita stessa. Allenarsi per venti anni, cinque giorni a settimana nello stesso posto, passare domeniche non in famiglia ma in uno stadio con la tua altra famiglia ti segna inevitabilmente. Non sarà facile, come non lo è stato per tutti gli altri che hanno lasciato la Juventus.

QUALE FUTURO? Con sincerità, forse troppa, ha ammesso di avere avuto qualche offerta, tra le quali quella di Agnelli, la migliore a detta sua, che prevederebbe un anno di studio prima di diventare un dirigente a tutti gli effetti, o comunque di assumere un ruolo ben definito all'interno dello staff. Il punto è che Gigi tutto è sembrato tranne che un calciatore che vorrebbe appendere le scarpe al chiodo. Ammettendo di aver avuto quest'anno un gran portiere accanto, del suo livello ma molto più giovane, e di non voler provare disagio in eventuali paragoni che nuocerebbero ad entrambi, ha implicitamente gridato che non si sente affatto un portiere finito. E se è vero che i tempi di reazione nell'andare giù non possono essere quelli di un ventenne, lo è anche il fatto che contare attualmente portieri superiori a lui oltre le cinque dita di una mano è ardua impresa.

L'ORGOGLIO  DI CHI NON SI SENTE FINITO. È chiaro che l'uscita di ieri, composta, misurata, di uno che preferisce l'orgoglio di chi si fa da parte, all'essere messo in disparte dagli altri in un futuro non lontanissimo, è comunque un manifesto con scritto a caratteri cubitali: io sono qui e vi dimostrerò da qualche altra parte, anche se per pochi anni, che la natura con me è stata generosa e mi consentirà ancora di togliere palloni dall'incrocio e forse di vincere ancora. Ci sarà tempo per fare il dirigente, starà pensando come aveva pensato Del Piero, che aveva ancora voglia di calpestare l'erba in pantaloncini in giro per il mondo e che però dirigente alla Juve probabilmente non lo diventerà.

GIOCARE DOVE? Essere arrivato a poche presenze dal record di Maldini senza superarlo non gli avrà lasciato un buon sapore. Ma rimanere in Italia, per lui marchiato dalla sua storia, appare cosa molto improbabile. Né potrebbe accasarsi in un club in cui fatichetebbe a trovare stimoli adeguati. Ecco che l'ipotesi straniera, di un club che partecipi alla prossima Champions League (suo unico grande rimpianto nella carriera), e che decida di offrire un'allettante proposta per il presente ed il futuro prossimo, potrebbe essere la più percorribile per un combattente nato, che difficilmente vorrà deporre i guanti dentro un cassetto. Almeno se abbiamo imparato a conoscere vent'anni del suo non mollare mai.

Paolo Costantino