L'ha detto chiaramente, anche ai non "buoni indenditor" ai quali servirebbero più delle poche parole: questione di DNA. Perché ne ha usate molte di parole, nel secondo round del match con Lele Adani, per spiegare quanto, nonostante tutto, si senta a posto con la coscienza. L'eliminazione con l'Ajax è ancora viva nelle espressioni poco filtrate di chi non ha più voglia di sentirsi spiegato il calcio da chi, a suo modo di pensare, il calcio non l'ha mai vissuto in panchina, i teorici. I troppi infortuni, il gol preso sul primo tiro steccato al 38esimo, le quattro ripartenze dell'Ajax, la partita giocata meglio al ritorno che all'andata, sono questi i cavalli - non sempre in forma - schierati nell'ultimo mese in tutte le corse davanti ai microfoni. Eppure non avrebbe bisogno di giustificazioni: uno scudetto mai in discussione, il quinto consecutivo, un piazzamento nelle prime otto d'Europa, in una competizione in cui i dettagli e gli episodi fortunosi (vedi Liverpool Allison/Milik e Tottenham/Var City e ultimo tiro in porta con Ajax) diventano sempre più determinanti e ti portano in finale anziché farti uscire ai gironi, questo sì un vero fallimento.

DNA - Ha parlato dei suoi passati maestri, di un calcio semplice che si vorrebbe complicare, chiaro, basato sulle individualità dei propri calciatori. Ma su una cosa, più di tutte, ha calcato la mano, in un tentativo abbastanza cerchiobottista di far arrivare meglio il messaggio e probabilmente di emettere un grido orgoglioso e definitivo, forse l'ultimo da bianconero, verso chi riesce ancora a nutrire dubbi sull'efficacia del suo credo calcistico: non si tratta di bel gioco o cattivo gioco, si tratta di DNA! Dietro questa dichiarazione la storia di un club, delle sue vittorie e probabilmente delle sue sconfitte. Quello che non ha detto e che ha voluto far intendere è che alla Juventus si parte ad agosto per vincere, sotto quella stella bonipertiana dell'unica cosa che conta, che vale tantissimo in Italia. Quando l'obiettivo è vincere non è importante come ci si arriva ma arrivarci, costruendo una macchina competitiva che sappia gestire i momenti difficili che si presentano nell'arco lungo di una stagione. La Juve, sulla lunga distanza e con una qualità della rosa superiore di molto alla media dell'attuale serie A, non ha avuto problemi in tempi recenti a mettersi dietro tutti. Ma come tutte le medaglie anche questa ha il suo rovescio.

LA CHAMPIONS E RONALDO - Tra i meriti innegabili di Allegri, che lo hanno reso uno dei più vincenti della storia, c'è quello di aver preso una squadra con un complesso europeo ed averla portata ad un livello tale da subire processi infiniti per una eliminazione ai quarti. Ma qui si apre il vero interrogativo legato alla sua permanenza: fino a quando la Juventus ha guardato dal basso verso l'alto i club più prestigiosi lui ha sempre tirato fuori il meglio, tatticamente e nelle scelte, compensando l'equivalente dei cinque metri di ritardo in una corsa da cento, che non è poco. Quest'anno però c'era stato uno sforzo maggiore da parte della società: l'euforia dell'acquisto di Ronaldo aveva spazzato, a ragione, ogni residuo timore sulla competitività della rosa, alzando inevitabilmente le ambizioni sportive, nonostante si sapesse che CR7 avrebbe rivestito una valenza significativa anche e soprattutto fuori dal rettangolo di gioco in chiave economica e di visibilità. Ad Allegri si chiedevano sì i risultati, ma si chiedeva anche un'ottimizzazione delle risorse. La sensazione generale è che non sia stato sfruttato pienamente il fattore Ronaldo, il quale ti ha consentito di superare l'Atletico con una prestazione da fenomeno quale è, ma non è stato supportato a dovere in altri frangenti, con una costante voglia di imporre il gioco e con una produzione di palle gol tali da non doverlo costringere a segnare per lo più di testa o su rigore.

LA VERA SVOLTA NEL GIOCO - Se un fallimento c'è stato non lo è stato quindi solo per il risultato. Nessun tifoso del Manchester City si sarebbe sognato e si sognerebbe di contestare la squadra di Guardiola nonostante l'eliminazione. Perché ha visto i calciatori lottare, muovere la palla, segnare, correre, mantenere un'intensità altissima per novanta minuti più recupero. Si può perdere ma sarebbe stato più accettato che lo si facesse rimanendo nella partita, piuttosto che uscirne come la Juve ha fatto nei secondi tempi con l'Ajax e delle finali contro Barcellona e Real ad esempio. Ecco che forse si è giunti alla vera svolta, che non è un semplice avvicendamento di un allenatore: per vincere in Champions e poter dare tutto non basta avere programmazione, dedizione, disciplina, gestione, tipiche del DNA Juventus. Occorre il coraggio di percorrere le strade mai battute e gli ardui sentieri di una stagione in cui si corra anche il rischio - Liverpool e Tottenham ne hanno corsi tanti - di non vincere uno scudetto (che probabilmente vincerai ugualmente) pur di abituare la squadra ad avere come fine il vincere convincendo. Al popolo sazio juventino vincere lo scudetto non può e non deve bastare più. La mutazione genetica è già in corso, che ci siano Guardiola, Klopp Conte o chi per loro.

 

Paolo Costantino