Matteo Berrettini è un ragazzone di 26 anni alto 196 cm, nato a Roma da famiglia in parte di origini fiorentine.
Firenze, culla dell’arte e della cultura, luogo d’origine del Rinascimento e della lingua italiana, seconda capitale d’Italia dopo Torino (dal 1865 al 1871), terra calpestata e resa celebre, eterna, inimitabile da campioni dell’arte, della cultura, da geni come Dante, Petrarca, Boccaccio, Giotto, Brunelleschi, Donatello, Lorenzo De Medici, Botticelli, Leonardo Da Vinci, Michelangelo Buonarroti, Machiavelli e Galileo Galilei.
Di quelle origini toscane Matteo deve aver sicuramente ereditato qualcosa, lui che assomiglia alla famosa scultura David, creata dalle geniali mani di Michelangelo presumibilmente tra il 1501 e il 1504.
Bello come un attore di Hollywood, alto come un cestista NBA, muscoloso e asciutto come un nuotatore fondista in acque aperte…insomma, diciamo la verità, un gran figo, l’uomo che fa impazzire le donne, quello che tutti noi comuni mortali vorremmo essere.
Una bellezza che però non fa invidia, perché la sua esemplare educazione, il suo sapersi comportare, il suo non ostentare un’evidente superiorità, la sua capacità di essere normale con quegli sguardi verso il suo angolo in cui tutti ci riconosciamo, tutto questo lo rende normale, lo fa apparire come l’amico del baretto di quartiere dove siamo cresciuti e dove ancora oggi ci troviamo, quel luogo dove non esiste il bello, il brutto, il buono, il cattivo, l’intelligente e lo stupido, esiste solo quel boccale di birra che ci rende tutti simili ed uniti.

Ieri Matteo (mi piace chiamarlo solo per nome proprio perché lo considero un amico da sempre a me vicino a quel bancone da bar) ha, a mio parere, dato la più grande dimostrazione della sua grandezza, del suo talento, della sua superiorità, del suo essere normale in un mondo ahimè troppe volte anormale.
Ieri mattina ha superato se stesso, ha superato tutti, ha fatto molto di più di quello in cui era riuscito fino ad ora, ossia essere il numero 6 del mondo nel tennis.
Ci eravamo stupiti, impressionati nel vederlo arrivare alle semifinali degli US Open e degli Australian Open, alla finale di Wimbledon (vi ricordo che la pronuncia corretta è Uimbeldon), lo avevamo applaudito per ore nelle scorse settimane per i trionfi consecutivi a Stoccarda e al Queen’s, ma il gesto da campione di ieri merita una standing ovation infinita, una medaglia, un’onorificenza.
Più o meno tutti sappiamo che lunedì è iniziato Wimbledon tra mille polemiche per l’esclusione dei tennisti russi e bielorussi a causa delle vicende di guerra in Ucraina e per il fatto che non verranno assegnati punti per la classifica mondiale. Si ritorna all’antico, si gioca per il prestigio, per alzare la coppa davanti alla Regina d’Inghilterra… e naturalmente per il ricchissimo montepremi.

L’Inghilterra sotto certi punti di vista è un Paese strano, un Paese a sé, come se non facesse parte di una regione del Mondo, di un continente, come se gli inglesi si sentissero loro un continente o ancora di più un mondo isolato, unico.
Lo scorso anno, a fine agosto inizio settembre, sono stato a Londra qualche giorno, poco meno di una settimana, e mi sono reso conto, in tempi di pandemia, che noi italiani, considerati erroneamente meno civili rispetto ai “parenti” del nord Europa, siamo in realtà molto più educati, responsabili, rispettosi degli altri di quanto si possa pensare.
In una Londra piena zeppa di Covid, nessuno indossava la mascherina, neanche in metropolitana. Tutti ammassati, io con la mia Ffp2 mi sentivo un alieno, un diverso, quasi uno stupido, uno sfigato.
Wimbledon quest’anno ha deciso “Fuori russi e bielorussi, dentro i positivi al Covid”. Qualcuno presumo sia scoppiato a ridere, stia ridendo come un matto dopo aver letto il mio virgolettato qui sopra.
No signori, non sto scherzando, gli inglesi considerano inaccettabili gli atleti sfortunatamente nati dalle parti del Cremlino e invece assolutamente ospitabili quelli che arrivano da ogni parte del mondo, portandosi con sé valigie colme di un virus che in due anni e mezzo ha fatto milioni di morti.
Sì signori, lo so che non ci credete, ma è la verità, a Wimbledon non esistono i tamponi, non esistono i controlli, si può giocare con febbre, tosse, raffreddore… entrando in campo con un tampone fai da te positivo incollato al palmo della mano aperta a salutare il pubblico festante.

Matteo Berrettini, l’italiano Matteo Berrettini (questa volta sento l’obbligo morale di scrivere, urlare all’universo intero il nome e il cognome e la nazionalità), ieri ha fatto di testa sua, si è messo una mano sulla coscienza, e non sentendosi perfettamente in forma ha deciso di fare un tampone risultato negativo.
La sua coscienza a quel punto era pulita, ma lui ha voluto di più, non ha creduto a quel tampone che nel 25/30% dei casi sbaglia. Ha aspettato qualche ora e lo ha rifatto. Risultato: positivo.
Matteo
, quello del baretto di sempre, poteva fregarsene, il regolamento parla chiaro: del Covid a noi non ce ne frega…
E invece no, Matteo, sì sempre lui, quello del baretto di sempre, si è ritirato dal torneo rinunciando a tantissimi soldi e al sogno di vincerlo
.

Questo ragazzo è un esempio per tutti, dentro e fuori dal campo.
Viva Matteo Berrettini, un italiano, un campione vero.