Da quando lo so, cioè da quando mio nipote con un messaggio su WhatsApp mi ha scritto: "Ciao T..., ho letto che è mancato Mario Corso", un dolore mi si è incastrato da qualche parte, di quelli che se ne stanno in sottofondo e di cui vorresti liberarti parlandone in qualche modo, con tutti o con nessuno, purché questa forma di dolore subdolo, ma giustificato, venga allo scoperto. Magari scavandosi un solco di lacrime. Da quelle salate e dolci della memoria a quelle salate e amare dell'assenza. Non ne ho fatto niente perché qualche problema mi reclama e perché la parestesia, maturata in mesi di chemio, non vuole lasciare le mie dita e le rende restie ad accarezzare i tasti di un computer o, ancora di più, a tracciare dei simboli e a costruire parole, guidando, ormai maldestramente, una penna sulla carta.

Con mio nipote ho scambiato qualche frase, sempre su WhatsApp, in cui gli ripetevo per l'ennesima volta chi era Mariolino Corso e, soprattutto, cosa rappresentava per me. Ma lui sapeva già. E da tanto. Da quando ho lasciato un pezzo di cuore in Sicilia, a farmi da segnalibro per quando, più maturo, avessi potuto riprovare a fare il percorso inverso e ritrovare tutti i momenti e le persone lasciate, in quel giugno così tanto lontano, per riprendere un filo di discorsi e sentimenti diventato nel tempo troppo delicato per caricarlo troppo di tensione emotiva, rischiando di strapparlo. Da allora, dicevo, quando iniziavo a ricordare, con lui bambino, sapeva che mi ero portato dietro, da quelle zone assolate un pezzo di storia che mi apparteneva e che era già collocata a Milano (perché i ricordi, se buoni, hanno sempre un sapore grato e profumato di cibo e giornate soleggiate, nulla di amaro e inquieto può, né deve, contaminare la voglia di riprovare sentimenti di un tempo che, in realtà, invece, ha vissuto anche di buio e di amarezze). La Milano nerazzurra, a precisare meglio, volendo, anche se, allora, il tifo era meno rinchiuso in se stesso.
Quel pezzo di Milano, che mi apparteneva già, anche se non aspiravo a raggiungerlo, ma me l'ero, invece, avvicinato in tutti i campetti polverosi e secchi che avevo calcato, correndo dietro un pallone, era lui. Mariolino Corso è stato l'unico amore calcistico. Sopravvissuto a tutte le stagioni della mia vita, come la prima volta che, con i grandi, davanti un rarissimo, per quei tempi, televisore in bianco e nero, a casa di una mia zia, lo vidi giocare in un derby vinto in modo molto netto dall'Inter, anche se non sapevo nulla di calcio, di derby e di colori sociali. Mentre gli altri, forse giustamente, badavano al sodo delle giocate, anche rudi, degli altri giocatori, io ero rimasto impressionato dalle stranezze di questo che sembrava giocare un gioco diverso dagli altri ma che, comunque, a quel gioco apparteneva e in quel gioco era anche determinante.

Prima di allora, mi piaceva stare tra i grandi, quando vedevano la partita, solo perché procurava loro delle reazioni che suscitavano la mia curiosità. Reazioni che a volte mi sentivo di emulare, non sapendo cosa significassero, solo per potermi sentire parte di qualcosa che sembrava fosse entusiasmante, anche se aveva nulla a che vedere con i giochi di quell'infanzia, ché di gioco non si trattava, visto che i grandi facevano discorsi ben seri, per questa o quella squadra, per quel risultato o quell'altro. Ancora prima di vedere quelle immagini, era lo stesso davanti alla radio il pomeriggio o la sera a riepilogare i risultati. Ma era tutto incomprensibile. Lo era stato, almeno, fino a quando lui mi apparve in quella partita, con quel gioco diverso, con l'aria di sapere che lui era altro e che, impudentemente, era anche quello. Tutto quello che c'era di complicato e incomprensibile, istantaneamente apparve chiaro e semplice.
Luminoso quasi... e m'innamorai del calcio.

Tempo dopo, alle medie, durante le tante partite, scoprivo che non bisognava per forza essere interisti per cercare di emularlo, perché lui era altro che squadra e colore. Così, compagni di scuola milanisti, abbassavano i calzettoni (parlo di quelli che ce li avevano e li indossavano, in quei tornei parrocchiali), per assomigliargli, almeno in qualche parvenza, anche loro. E colpivamo il pallore in modo da imprimere traiettorie ad effetto e ci contendevamo punizioni da battere in modo "strano", anche se mai davvero come lui.
Io, per assomigliargli a modo mio, pazientemente, educavo il mio piede sinistro, dribblando, lungo un percorso creato appositamente per quello, dei sassi posti ad una certa distanza l'uno dagli altri, per sfiorarli, conducendo il pallone solo con quel piede e, ogni volta che toccavo un sasso, ricominciavo il percorso. Forse era un po' stupido ma, alla fine, si rivelò utile perché nessuno dei non mancini voleva giocare a sinistra e io trovavo facilmente collocazione ovunque, anche se, in verità, non ero veramente, o completamente, ambidestro.
Ovviamente, erano i tempi della grande Inter e di partite importanti per le squadre di Milano e, quindi, per quanto il calcio avesse uno spazio ben ridotto, allora, in televisione, capitava, con una certa frequenza, di vedere giocare i propri beniamini e, di conseguenza, anche il mio idolo.

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Erano tempi di grandi cambiamenti e di vere e finte possibilità: spesso solo esca prelibata per strapparci ad un faticoso lavoro agricolo per calamitarci nelle città industriali del nord, malsopportati e emarginati a lungo, fino a quando le nuove generazioni non cominciarono a parlare lo stesso linguaggio, alla fine degli anni sessanta, mettendo in discussione tanto e parlando di eguaglianza, diritti e libertà per tutti.
Fu con un treno che mi lasciai rapire i miei quindici anni, portandoli a Milano, con un lunghissimo e interminabile viaggio. Da lì, tanto avrei dovuto vivere e subire, conquistare e perdere, ma, in campo calcistico, c'era ancora lui a farmi da faro, anche sollevando la polvetre dei campetti delle periferie milanesi: migliore versione dei campetti della periferia di una piccola città siciliana, ma sempre lo stesso copione, e con la stessa gioia consolatoria e avvincente, da recitare.
Fu una grande emozione ad accompagnarmi, per la prima volta, allo stadio di San Siro, seguendo il percorso che da piazzale Lotto porta a quella mitica costruzione, per poi lasciarmi annegare di passione condivisa con quel popolo tifoso delle due squadre, ché allora non era motivo di odio tifare per squadre diverse, in attesa che venissero date le formazioni e di vedere apparire finalmente, nella mia vita, di persona, quei ragazzi che erano la "mia" squadra e, con loro, a coccolarmelo con gli occhi, lui, Mariolino Corso.
Gli anni oramai non erano più quelli della prima partita vista in tv, ma ebbi ancora il piacere, gustatissimo, di vedergli condurre una fantastica stagione all'inseguimento del Milan, distante ben 7 punti di allora, quando le partite ne distribuivano solo due. Una gioia assordante quello scudetto. Poi, la Coppa dei Campioni con la partita contro il Borussia Mönchengladbach, con l'amarissima e umiliante sconfitta, la lattina, l'arbitro che scrive sul referto di avere subito un calcio da lui, in mischia (cosa che forse, invece, fece Ghio), la conseguente squalifica per le partite internazionali, che gli avrebbe impedito di continuare con l'appena ritrovata Nazionale, il "tradimento" del presidente Fraizzoli, che cedette alle richieste di cessione del Mago Herrera ritornato all'Inter, a quella tanto triste, per me, partita a San Siro del suo ritorno con la maglia del Genoa e al suo grave infortunio che lo costrinse a ritirarsi dal calcio giocato.
Qui si spezzò il filo diretto con il mio idolo.
Pur continuando a giocare a pallone per gli stessi campi di periferia, o ovunque possibile, e pur tornando a San Siro innumerevoli volte, e per tanti altri campioni, non avevo più l'età per avere idoli, giacché del calcio tutto mi era stato svelato.

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Dopo lo scritto, bellissimo, di nostalgico rossonero (Mario Corso, "il piede sinistro di Dio"), di qualche settimana fa, teso a rendere omaggio ad un calciatore che non ha avuto, per me, quanto meritava, forse anche per via di un carattere introverso e non facile ai compromessi (vedi atteggiamento con alcuni CT della Nazionale), oggi ho letto vari articoli che lo riguardavano e lo ricordavano.
Quello che mi ha colpito maggiormente, e maggiormente ho apprezzato, tra i tanti di altissimo livello, anche a rivangare episodi lontani, è stato quello di Mario Sconcerti sul Corriere: "Un talento puro in anticipo sui tempi. Divino ed esatto, sempre decisivo". Un gran pezzo, lucido ed essenziale, perfino poetico in tanti passaggi. Forse maggiormente comprensibile a chi ha una certa età e può collocare i suoi ricordi in un preciso contesto. Ricorda le parole di Tagnin: "se era in buona giornata Suarez, sapevamo che non avremmo perso, se era in buona giornata Corso, sapevamo che avremmo vinto", per esaltarne il peso in squadra, e afferma, tra l'altro, ma sarebbe un articolo da riportare tutto, "Il poco che era la Nazionale di allora non ne ha fatto un giocatore di tutti, solo degli interisti. Ma Corso era infinito e divisivo, era il faro che non vuole essere visto, aveva dentro Coppi e Bartali insieme, l'intera valigia del calcio che portava senza avvertirne il peso, irraggiungibile..."

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Ecco, adesso che ho finito, posso lasciare scorrere via un po' di umido dolore.
Non me ne vogliate se ho parlato di me, per farvi capire quanto fosse importante per un ragazzino "quel" calciatore che gli fece scoprire e amare il calcio, né se vi ho usato per spacciarvi parole di cui potevate assolutamente fare a meno, come un qualsiasi leone da tastiera. A volte, anche l'illusione di un'attenzione aiuta, senza sottrarre troppo.