• Un risveglio

Vivida, la mattina mi scalda già un po’ la pelle, mentre attraverso chiazze di sole mattutino a passo veloce. L’ombra si ritirerà in fretta quasi ovunque e l’aria sarà ben calda, in alcuni momenti tanto fastidiosamente invadente da costringerti a cercare rifugio tra le piante del giardino pubblico, per vagolare tra i sentieri tracciati nelle pagine dei libri, mentre il muro del suono, tipico da gruppuscolo punk-rock tecnicamente male in arnese, eretto dalle cicale, fa da contraltare ad altri suoni vicini, piacevoli cinquettii o chiacchiericcio umano, più o meno pacato, in lento avvicinarsi e allontanarsi. Nulla che possa scalfire la forza della tua fantasia tra le parole scritte.

Adesso è il momento iniziale della giornata e, per la mia, ho bisogno di riti precisi che siano di auspicio per il suo evolversi bene o, quantomeno, per attenuarne eventuali contrarietà. Giunto alla base della salita che porta in centro, ho un attimo di incertezza perché, ancora, i piedi vorrebbero approcciarla e vincerla e permettermi di raggiungere un luogo del desiderio che, però, non esiste più: il bar “Judica e Trieste” era rimasto aperto una manciata di giorni appena dopo la mia partenza, nell'ancora giovanissimo autunno del duemilaventi, e poi aveva chiuso per sempre. Un sempre non accettato, in verità, al ritorno l'anno successivo: quando passavo dal centro storico i miei passi andavano sempre in quella direzione, quasi scorressero su un solco segnato o su binari usurati. Poi, solleticando il senso di ridicolo, mio e altrui, rallentavo a guardare oltre la porta a vetri che apriva al corso Principe Umberto di Savoia, sperando in qualche segno che rimettesse in discussione ciò che sapevo, perché ripetutamente mi era stato detto. Ma il vetro era sempre più opacizzato dalla polvere e, dentro, la cassa di bottiglie vuote, per terra, era sempre ferma allo stesso posto. Come i tavolini e le sedie impilate in attesa di un nuovo giorno sempre mancato. Forse tutto più impolverato. No, nessun segno di ripensamento scritto in quella polvere, come magari l'impronta di qualcuno passato di recente. Non mi facevo mancare neppure il passaggio davanti alle vetrine della Discesa Collegio, appena svoltato l'angolo. I posti vuoti e silenziosi mostrano le vere dimensioni. Sembrano rimpiccioliti, rispetto a come li immaginavi... non più grandi, perché non più affollati. Le persone, le voci e il muoversi continuo espandono gli spazi, perché li riempiono di vita per quanta ne possono contenere e oltre. Tanto oltre. Perfino le abitudini ne forzano la reale percezione.

Proseguo: ho imparato a resistere alla tentazione di quella ripida salita. Nessuno, volesse osservarmi, capirebbe quell’incertezza, mascherata anche dal saluto all’ortolano, l’ultimo rimasto a fare quell’attività, che io conosca, che sta sistemando al meglio le sue verdure fresche. Sbircio velocemente se ha della “tenerume” o delle erbette selvatiche, perché per il “senapone” e i finocchietti selvatici è ancora presto, da comprare e da lasciare al fresco fino a quando ritorno. Ma no... Proseguo verso quel carburante personale a base di ricotta di pecora che mi stimola le papille gustative al solo pensiero. Mentre sto già pregustando come sarà il primo morso al panzerotto, un clangore fastidioso mi allerta.

Mi trovo ancora appena all’altezza dell’officinetta dell’elettrauto, con le vallate, dall'altra parte della strada, in lieve degradare verso il solco che le avvicina alle colline oltre l'estensione degli orti, così nitide da sembrare meno lontane di quanto sono in realtà, lì in mostra di fronte ma, per qualche altro passo, ancora parzialmente nascoste dall'immenso albero di fico che, dalla depressione del suolo in cui è nato, è riuscito a portare le sue fronde di qualche metro sopra il livello della strada. L’officina è ancora chiusa. Mi chiedo se venisse da dentro, quel rumoraccio. Dovrei capirlo: sono qua a due passi! Che strano. E perché non sono più in piedi? Che ci faccio sdraiato?!

Vabbè! Per strada, dev’essere sfuggito un contenitore del vetro che stanno raccogliendo. Io sono sotto le coperte e ci metto un attimo a rinunciare al tentativo di riprendere il sonno nella speranza di riuscire ad assaporare il panzerotto alla ricotta del sogno interrotto: un gioco che non mi è mai riuscito. Assaporo invece ancora un po' del piacevole e rilassante tepore, prima di allungare la mano e afferrare il libro che stavo leggendo prima di addormentarmi, fare scivolare i piedi dentro le ciabatte e avviarmi, trascinandomi ancora incerto avvolto nella sonnolenza residua, verso il bagno.

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  • Il quartiere

“...nelle strade dell’Isola, un quartiere popolare in via di frenetico infighettimento”, me lo sono trovato scritto nell'ultimo libro di Alessandro Robecchi e, alla prima lettura, mi ha divertito. Po,i rimbalzata casualmente tra i neuroni distratti da altro, questa frase è riemersa con una sensazione di smarrimento per un mondo sottratto poco a poco, per una vita scivolata via altrove, con poco tempo per le nostalgie e i ritorni, che non fossero quelli estivi in Sicilia. Più precisamente, tra i vecchi carruggi di Caltagirone o, ancora meglio, nell'isolamento terragno di una campagna non ancora raggiunta dai “comfort” cittadini e dove acqua corrente, luce e gas erano servizi neppure immaginabili. Né pesava l'approvvigionarsi di una capiente bombola del gas, leggere e cenare alla luce tremolante del lume a petrolio, dopo il tramonto, e restarsene all'aperto alla luce lunare, chiacchierando con parole quasi sussurrate perché esaltate dal finto silenzio, ché le cicale avevano anche loro instancabilmente da dire, i cani in lontananza da abbaiare alle ombre, gli alberi da esprimere fruscii e qualche uccello, notturno o casualmente nottambulo, da muoversi tra i rami. Per poi ritornare al lavoro e a quel nostro quartiere a Milano.

E così l'avevo riletto a modo mio: un giudizio crudo, se non crudele, spietato e pieno di non detta nostalgia per il tempo che è passato e per quello che ha lasciato, dalla gioventù imprecisa, affaccendata, curiosa e sempre fuori tempo, se non nei campetti di calcio, alle macerie personali e non risolte questioni esistenziali.

Inciampato in quelle parole, ancora barcollante, non ho saputo sfuggire velocemente, come faccio di solito, e così la strada che mi trovo oltre il portone mi fa sentire un po' estraneo a questo tempo. Oltre, a ritroso, anche scavando l'imbellettamento edilizio, pure gradevole, opera di archistar e artefici meno popolari, non riesco a trovare che pochi rimasugli della Milano popolare che mi aveva accolto. Poco più in là, la strada che ha ancora il teatro Verdi, di quei tempi, al posto della drogheria che vendeva un po' di tutto quando non c'erano ancora i supermercati, adesso ha un locale alla moda. Fatico a rivedere nella memoria le sporte della spesa, non ancora di plastica, appesantire braccia di quella vita tanto stancante eppure piena di prospettive, delle donne che ancora non avevano “conquistato” appieno il diritto di lavorare, ma vi erano ormai vicine, e si schiantavano di fatica su e giù per quelle scale di gradini levigati da decenni di passi continui di esseri grandi e piccoli, passi allegri o trascinati, vigorosi o affaticati, in quelle case di ringhiera, per padri, mariti e figli.

Tanto tempo fa, quasi fatico a ricordare, vi erano ancora, anche qui, sotto casa, le vene metalliche su cui scorrevano i tram che portavano in giro per Milano la linfa vitale della manodopera che alimentava aziende grandi e piccole dell'apparato produttivo cittadino. Linee già in disuso al mio arrivo e poi cancellate. La curva precisa disegnata sulla strada all'angolo da quei binari morti mi era naturale, quasi che fosse ancora utile. Chissà quanta gente avevano fatto traballare di mattina, ancora insonnolita, dentro quelle vetture ancora in legno, passando davanti a portoni, anch'essi in spesso e vecchio legno, di case di ringhiera, davanti botteghe che aprivano, cominciando a esporre la merce su parte del marciapiede per stimolare un po' più tardi le “casalinghe” ad entrare. Davanti anche alla minuscola officina del meccanico che sapeva tutto delle auto, e forse qualcosa inventava al momento di difficoltà, e che era insieme anche elettrauto e gommista.

Ora c'è un negozietto di abbigliamento che comprende anche quello che allora era l'antro un po' temibile dove ti avventuravi e, in cambio di parte della paga settimanale (la busta), potevi uscire, inaspettatamente ancora incolume, trascinandoti dietro qualche sacco di carbone, qualche ceppo di legno o qualche bidone di cherosene, per scaldarti d'inverno, una bombola del gas, da portarti faticosamente per la strada e su per le scale, se risparmiavi sugli spiccioli e sul tempo di consegna del servizio a domicilio, segatura e altre cose che emergevano dal fondo buio di quella specie di caverna illuminata male solo da una lampadina a incandescenza di pochi watt, che pendeva attaccata a un filo bipolare, che era stato originariamente bianco e quasi subito diventato di colore indefinito, mimetizzandosi quasi con l'ambiente, e dall'apertura verso la strada.

L'uomo, in cenci un po' sporchi da lavoro, impolverato da quello che vendeva per conto di un proprietario mai visto dai clienti, se ne stava, quando non indaffarato, quindi raramente, in una guardiola in legno, dove teneva cassa e anche conti e note su un quadernetto. Tavolta vi segnava appena solo l'impegno a pagare, se ti conosceva, con la disponibilità della paga successiva. Quando non era al suo posto, ti affacciavi e gridavi un “permesso!?” e, se non sentivi immediata risposta, riprovavi con un “c'è nessuno?” speranzoso e indeciso, fino a quando, un po' perché lo udivi avvicinarsi un po' affannato e affaticato dalle sue faccende, un po' perché i tuoi occhi si erano adeguati al buio, ti giravi nella giusta direzione per vedere la sua figura che si materializzava, quasi per una qualche forma di stregoneria, perdendo la sua magica trasparenza contro la profondità del buio.

Sì, in sostituzione di quel posto spettralmente misterioso e dell'officinetta, oggi vi sono delle vetrine luminose, fredde e poco inquietanti, se non forse per il bilancio famigliare. Eppure un tram ce lo farei passare ancora volentieri, in cambio di tutte queste auto che intasano la strada in ogni dove, lecito o meno che sia il farlo.

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In questo “quartiere popolare in via di frenetico infighettimento”, mi mancano anche i bar poco pretenziosi delle colazioni frettolose, eppure socializzanti, e del panino con un bicchiere di rosso, a mezzogiorno. Le trattorie di piatti semplici e di clienti rumorosi.

Chiariamo: non è che la nostalgia del passato sia una malattia per me. Non avrebbe senso non vivere il presente o vivere nella finzione di altro. Però, anche quelle cose descritte avevano per il quartiere una qualche forma identitaria. Anche dal punto di vista politico, in questo quartiere di gente umile ma non umiliata, socialmente maltrattata ma resistente, partiti come PCI e PSI avevano largo seguito, e anche questo era caratterizzante.

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  • Il derby

Sto qui a cazzeggiare, o più finemente potrei dire, musicalmente, ad arpeggiare, su questo tema perché, nel tempo, ho perso qualcosa anche calcisticamente. Qualche sapore calcistico è un po' svanito. L'ho avvertito con forza nel vivere gli ultimi derby milanesi. Ecco, il vero valore del derby l'avevo capito arrivando a Milano. Quella che una volta era solo una partita molto importante, per quel che valevano le squadre nella mia infanzia, non la capivo appieno. Allora, come ho scritto altrove, la mia partita di riferimento era quella che vedeva di fronte Inter e Juve, perché in entrambe le squadre vi era un giocatore che mi affascinava (Mariolino Corso da una parte e Omar Sivori nell'altra) e il piacere andava perfino oltre il risultato, anche se l'Inter era già un amore da giurare per tutta una vita.

All'arrivo a Milano avevo avuto modo di capire cosa rappresentassero le due squadre per le loro tifoserie locali e come fosse radicale l'affetto che nutriva quel tifo. Lo ricordo pure meno, o per niente, velenoso, a quei tempi. Ecco, in un quartiere come l'Isola, popolare e operaio, il tifo era vissuto e raccontato, a voci singole o corali, accordate o dissonanti, in ogni luogo di incontro. Bar, trattoria, fermata del tram, nella piazzetta, durante gli incontri domenicali all'aperto, all'oratorio. Il derby era davvero un evento. Certo, modesto, confrontato a questo calcio di tempi dispendiosi e scostanti, di divi social e invadenti oltre misura, da lasciare poco alla fantasia mitizzante del tifoso, come personaggi di libri trasposti male sullo schermo rispetto a come li avevi immaginati nel loro ambito letterario, se ne stanno a volte nudi nella loro frivolezza trasparente, a frustrare ogni tentativo di volo del pensiero creativo di chi porta nel cuore anche una squadra di calcio. Con società che, tra sponsor da soddisfare e voglia di stupire, presentano sempre più spesso anche maglie di colori improponibili per la storicità che dovrebbero rappresentare.

Povero ma bello, mi verrebbe da dire, in modo palesemente abusato e scontato. Vissuto con passione pura non avvelenata, mi ripeto volutamente. Un evento atteso e vissuto oltre i tempi reali che per altre partite, anche importanti, era di pochi giorni. Un evento che valeva una stagione parallela, anche quando entrambe le squadre, o una sola delle due, erano poco competitive. Per questo, assistendo all'ultimo derby, notavo che la mia tachicardia era causata dalla partita importante in sé e non dall'evento ogni volta unico e irripetibile, come era un tempo.

Credo che, nel quartiere, i milanisti fossero più numerosi, anche se non di molto. Uno di questi, un artigiano dall'età indefinibile, ancora in attività, anche se un po' fuori tempo, ma comunque in un campo in qualche modo attinente al calcio, inteso “terra terra” nell'essenza di “pedata”: un calzolaio (o “scarparu” come si dice dalle mie parti, forse più precisamente), espone nella vetrina della sua bottega pochi prodotti della sua arte, che mi dicono e che sembra, dai risultati, sopraffina, circondati da molti simboli del suo amore calcistico, come la foto molto datata di una delle squadre dei suoi campioni, immortalati quasi per rimanere giustamente sempre giovani, una foto di Rivera, firmata, qualche statuina di “eroici” calciatori rossoneri, un gagliardetto, qualche ritaglio di giornale un po' consunto.

Un minuscolo frammento di quel quartiere che era il mio, di una città che mi aveva presto preparato adeguatamente anche a come vivere appieno il derby, e che non riesco a ritrovare in altri luoghi. Ed è per questo che, quando passo per quella strada, sbircio sempre, anche per un riflesso condizionato, la sua vetrinetta. Un po' perché mi fa da promemoria, cosa sempre utile e stimolante ad una certa età, e un po' perché mi fa sentire meno fuori tempo. Dura un attimo, appena quanto basta a che i passi riacquistino velocità e sicurezza, eppure è importante. Infatti, appena qualche passo dopo, il quartiere “in frenetico infighettimento” richiede un pedaggio impersonale che pago distrattamente, scomparendo tra le tante ombre senza volto e in movimento irrefrenabile.