• FRANCO BATTIATO

Non è giusto iniziare la giornata così. Con un dolore che sa di sole e di luce, come quel posto della sua Sicilia. Non sapevo che fosse ammalato. Non pensavo che se ne andasse così presto, perché per alcuni è sempre troppo presto quando se ne vanno. Ci ha regalato e lasciato tanto e durerà nel tempo. Quello che mi mancherà è l'originalità del pensiero, il volersi schierare, sapendolo fare, dalla parte meno in vista del pensiero, quello meno allineato, quello che se ne sta in ombra perché meno cercato, meno compreso.
Tempo fa, da una scatola che conteneva la fotocopia del libretto di circolazione della mia vecchia e amata R4 beige, con cui scorrazzavo a costruire i miei ricordi degli anni '80 del secolo scorso, è venuta fuori, quasi da sé, una coppia di cassette audio: “Giubbe Rosse”. La canzone che dava il titolo a quella raccolta live era quella che, tra le tante belle presenze scelte, più aveva il potere di trasportarmi in quei posti amati da lui e immaginati come anche miei da me. “Abito in una casa di collina // E userò la macchina tre volte al mese // Con duemila lire di benzina // Scendo giù in paese // Quante lucertole attraversano la strada // Vanno veloci ed io più piano ad evitarle // Quanti giardini di aranci e limoni // Balconi traboccanti di gerani...”.
Erano gli ultimi anni di quel decennio. Crollavano muri che sembravano non dovessero cedere mai e sembrava che un'era di pace sconfinata potesse avviarsi, ma, di quella opportunità, non ne sapemmo fare buon uso, a vedere i conflitti vivi dei nostri tempi e di questi giorni, pur sotto assedio da parte di un male universale e comune.
Che fossi per le strade del Chianti o in Umbria, lui mi seguiva con quel pezzo di Sicilia che usciva da un impianto che mi ero assemblato da solo, fissando uno spartano mangiacassette, che aveva una leva antiestetica sporgente, ma comoda però per fargli sputare fuori la cassetta senza distrarmi dalla guida e che, alla fine, faceva un po' compagnia, geometricamente, al maniglione della leva del cambio della R4. L'avevo avvitato sulla base del vano portaoggetti, spartano anch'esso, come tutto il resto del modello base di quella macchina. Perfino sulle strade siciliane del calatino, quelle delle mie radici, mi descriveva “la mia essenza” che mi circondava, certo diversa ma forse un pochino somigliante alla sua e, infine, a quella di ogni essere vivente. In compagnia dell'immancabile Guccini, dei grandi Travelling Wilburys, tutti insieme o del solo Bob Dylan, e di altre occasionali compagnie, Dire Straits, Eric clapton, ZZ Top... che ricordi io su due piedi. Poi, mica tanto occasionali, a pensarci bene. Le colonne sonore delle mie country roads, vicine all'amato fiume Ticino, i fine settimana, o in Sicilia, d'estate.

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In Sicilia sembra difficile che possa tornarci quest'anno e, quando mi accingo a sistemare alcune delle tante foto, questo pensiero mi dà un disagio indescrivibile per cui mi arrenderò solo quando ciò sarà davvero impossibile. Altrimenti mi mancherà quel tuffo al cuore dell'arrivo. A tarda sera, quasi sempre, quasi a non volere svelare tutto subito... Ma le luci di una piccola città sono premurose: con la fisionomia immutabile, che creano, ti accolgono già da lontano e, anche se la strada è ancora lunga, o anche tortuosa, come lo era una volta, sai di essere già arrivato ben prima di fermare la macchina. Caltagirone, quando ti sbuca dal buio della notte, rimane lì in alto e non ti lascia più, tanto che puoi immaginare, dalla posizione delle sue luci accese, la città vecchia e i vari luoghi illuminati a notte. Solitari ma ancora ricchi di tepore umano, quasi tracce lasciate per te. I carruggi no, te li devi proprio sbrogliare nel dedalo della memoria, stretti e nascosti bene dal buio, svelati a malapena, a percorrerli, da lampade discrete o da quelle invadenti, a lasciar loro un accesso, delle attigue strade principali.

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  • U CARRUGGIO

La vita nel carruggio, dove le abitazioni dirimpetto distavano neppure due metri, e ti affacciavi alla finestra, o al balconcino, e potevi parlare in intimità e passarti le cose da una casa all'altra con facilità, era immensamente viva per noi bambini, che godevamo di una certa libertà dato che, anche volendo, una delle poche macchine circolanti a quel tempo non avrebbe potuto infilarsi in quel lungo vicolo. Quasi una grande famiglia, divisa dai muri di sabbia e pietre, ma ad un passo da quell'umana comunità oltre l'uscio. Un lungo corridoio dove, quando ritornavano i contadini dalla loro giornata nei campi, dovevi appoggiare le spalle al muro delle case, ancora tiepido del calore di un sole che, comunque, riusciva ad infilarsi in quelle strettoie, per lasciare passare il loro animale da soma, mulo o asino, accompagnati da un cane scodinzolante che si fermava a raccogliere carezze e strilli, rispondendo al suo nome gridato con gioia, e elargendoci qualche leccata affettuosa, prima di seguire, rincorrendolo, il padrone, con destinazione per entrambi un desiderato pasto, semplice ma rifocillante, e un po' di altrettanto desiderato riposo.
Un'estremità sbucava - allargandosi in uno spiazzo prima di passare sotto l'arcata di una casa, che andava a sostenerne una parte a terrazzo - in una delle strade che portava altrove, verso un mondo sconosciuto e che, a quel tempo, non ci incuriosiva ma che poi, anni dopo, percorsi alcune centinaia di metri, ci avrebbe condotti alla scuola elementare, i primi anni sempre accompagnati da un adulto o da un bambino più grande, perché qualche animale meccanico, macchina, autobus o camion, era l'incubo degli adulti, più che di noi incoscienti di tale pericolo, al più infastiditi dalla puzza degli scarichi o dal rumore dei mezzi appesantiti dal loro carico.
L'altra estremità era, invece, molto affascinante. In discesa, con dei gradini e qualche spiazzo, che si susseguivano irregolarmente, dove il carruggio si allargava abbastanza da accogliere agevolmente, quasi per l'intera parte luminosa del giorno, i raggi del sole e portava verso uno stradone, un'arteria principale della viabilità cittadina, allora immensa rispetto al carruggio e, oggi, piccola e inadeguata al traffico delle molte macchine e ai camion che si apprestano rumorosamente ad una ripida salita, nonostante la potenza abissalmente differente del loro cuore meccanico, rispetto a quello che utilizzavano al tempo dei miei giorni bambini. L'altro lato dello stradone portava verso gli orti ed era pieno di altra vita. Chi aveva la fortuna di passarci qualche mattinata, perché affidato dai genitori a qualcuno che curava l'orto, oltre che sentire sulla pelle quel calore che, in altri momenti e altrove, poteva farti desiderare di sfuggirlo, raggiungendo l'ombra di un albero, lì si perdeva incantato nelle molte esplorazioni dei luoghi, nei tanti incuriositi timori per qualche animaletto o insetto ancora sconosciuto e strano, nel volteggiare delle coloratissime farfalle che imprigionava la nostra attenzione a lungo, nel ronzio monotono e accattivante di vespe e mosconi, così naturale e distinto, come tutti i suoni, in contrasto con il silenzio di sottofondo, come disegni su un foglio bianco, a volerli rappresentare graficamente, ormai desueto e inimmaginabile per le nostre rumorose vite nelle grandi città, che farebbero pensare a dei bei disegni sparsi inutilmente in un foglio macchiato dai tanti rumori indistinti.
A darci il senso del pericolo e del proibito, era la mano di un adulto a cui affidavamo la nostra, perché ci restituisse un senso di sicurezza nell'attraversare quel pericoloso stradone, quasi una porta che si apriva verso quel luogo incantato, e questo lo rendeva ancora più affascinante, perché quel mondo apparteneva solo agli adulti che sapevano destreggiarsi tra quei pericoli, ardimentosi e abili come noi li pensavamo, e che a volte lo aprivano a noi piccoli fortunati.
Ricordo, personalmente, che mi affascinavano le tante piccole chiuse, di lastre di legno e metallo, poste lungo una ragnatela di stretti canaletti scavati appositamente che, aperte le chiuse con saputa destrezza, permettevano di abbeverare le varie verdure disposte a crescere ordinatamente per specie. L'acqua, che in modo serpentino si spostava seguendo la volontà dell'ortolano, mi incantava. Era quasi un gioco anche il vederla scorrere, libera e prigioniera allo stesso tempo, nella sua gorgogliante vitalità. Forse anche il contadino, pur nell'assuefazione dell'abitudine e velato dalla fatica, conservava un che di divertimento in quell'attività. Estraniato perdevo il senso del tempo e la voglia di altri giochi che mi avrebbero visto più attivo.

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  • LA POSTA AEREA... E IL SUDAMERICA

La vita del carruggio aveva i suoi ritmi che non erano proprio ordinatissimi per noi bambini, dediti a nient'altro che non fosse costituito da giochi gestiti con improvvisazione e anarchia, mentre per gli adulti erano segnati dal lavoro e da altre cadenze, come quella degli artigiani itineranti, come arrotini e stagnini, o quelli che passavano a vendere la ricotta fresca o, più raramente, i venditori di mitili, cosa, quest'ultima, che poteva voler dire che quel giorno avremmo mangiato una prelibata zuppa con il brodo che sapeva di mare, o gli zingari con un pappagallo o una scimmietta addestrati a pescare un cartoncino recante la predizione di un'imminente fortuna, per chi volesse avventurarsi in quel campo di ignorante credulità divinatoria per aggrapparsi a qualche speranza evanescente, pur sapendo che era un gioco di cui sorridere apertamente con scetticismo ma conservandone pure un pizzico di magica superstizione con cui condirsi la vita, intimamente.
Due volte al giorno sentivamo la voce del postino che, in quel vicolo quasi completamente privo di campanelli alle porte, bussava sul legno abusato dal tempo e gridava il nome del destinatario di qualche missiva. Quando gridava il nome di una zia o, più raramente, il nostro, istintivamente correvo verso l'abitazione interessata perché, con molta probabilità, era arrivata una lettera da lontano e la cosa mi veniva confermata da un oggetto dai bordi vivacemente colorati poggiato su un tavolo: una busta di posta aerea. I grandi, ovviamente, non volevano che noi toccassimo le loro cose, per giusta e sana prudenza, devo dire, per cui mi avvicinavo solamente a quell'oggetto affascinante, sperando che fosse poggiato dal lato recante l'indirizzo del destinatario e, quindi, l'oggetto più apprezzato e inconsueto: il francobollo.
Va bene, lo so, un francobollo è un francobollo. Però, per un bambino dalla fantasia vivace non era altro che uno stimolo a svolazzare altrove rispetto a dove i suoi piedi erano poggiati. Contrariamente ai nostri francobolli, recanti facce, di profilo o di fronte, di gente di cui mi importava poco, come re, regine, presidenti o eminenti scienziati e altri uomini di cultura, i francobolli di posta aerea, su lettere e cartoline spedite quasi tutte dal Sudamerica, per via dei parenti emigrati, riservavano sempre belle sorprese, erano coloratissimi e recavano il più delle volte, ai miei occhi, animali sconosciuti e luoghi bellissimi. Poi, le stupende immagini delle cartoline, addirittura portavano la bellezza quasi commovente di coste di smeraldo e di città, come Caracas o Buenos Aires, con strade a molte e immense corsie e piazze con monumenti bellissimi, e io, che non mi sarei allontanato da quel carruggio se non trascinato via a forza, in un balzo fantastico, senza neppure bisogno di chiudere gli occhi per escludere le cose intorno, mi immaginavo in quei posti. Il Sudamerica era poetico e caldo. Distante eppure vicino, sia per via delle similitudini immaginate che per via dei parenti sconosciuti che scrivevano su quei fogli di carta velina, perché il costo della posta aerea veniva valutato a peso (d'oro) e, quindi, i fogli di quelle lettere erano sottilissimi.
Quel Sudamerica sarebbe diventato ancora più affascinante qualche anno dopo, quando, innamoratomi del calcio, avrei scoperto che da lì arrivavano i calciatori più bravi ed estrosi, nel calcio un po' troppo rude di allora rispetto all'attuale e soprattutto rispetto a quei calciatori che fingono di essere più fragili della carta velina usata per le lettere di posta aerea e che svolazzano non appena sfiorati, loro riuscivano a deliziare, fantasiosi, nonostante gli scontri che, allora, erano abbastanza tollerati dai regolamenti. Un tackle poteva vedere volare uno dei due contendenti senza che nessuno battesse ciglio o, come usa adesso, assediando l'arbitro. Arrivavano da quei posti quasi immaginari in aereo. Gli stessi posti che i nostri emigranti raggiungevano con lunghi e estenuanti viaggi via mare.
Da quel Sudamerica arrivavano anche i racconti di una squadra mitologica come la nazionale brasiliana, di cui un po' dubitavamo della reale esistenza. Aveva tanti giocatori di qualità impensabile e uno senz'altro generato dalla fantasia più libera, sfrenata e potente. Ne parlavamo noi ancora quasi bambini aggiungendo particolari inventati alle sue gesta e, oggi, mi sembra strano che ci limitassimo a parlarne senza aggiungere descrizioni fisicamente inumane di quel Pelè che era una specie di divinità pagana.

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  • INTER – JUVENTUS, JUVENTUS – INTER...

Prima del mio arrivo a Milano, alla fine degli anni sessanta, e la scoperta del vero sapore del derby con il Milan, che da lontano non rendeva palpabile la rivalità cittadina e il fascino della contesa in sé all'interno dell'annata calcistica, la partita più importante per me era quella con la Juventus. Non per una rivalità incattivita che, se non mi appartiene adesso, non aveva alcun senso di esistere quando ero bambino. Era per un altro motivo, che mi faceva guardare con occhio particolarmente attento anche le altre partite della squadra bianconera. In quella partita potevo ammirare giocare contemporaneamente il mio idolo, Mariolino Corso, e l'altro calciatore che mi affascinava quasi allo stesso modo: Omar Sivori. Anche lui aveva un modo originale di stare in campo e modi deliziosamente imprevedibili di interpretare quel gioco e tutto il fascino del Sudamerica, dalla cui miniera di preziosi talenti era stato estratto, che gli aleggiava intorno.
Già, parlavo di gioco!... Perché il risultato era la cosa importante di una partita, ma non ancora un'ossessione. Era un gioco anche perché era quella cosa divertente che ci teneva occupati nelle, troppo brevi, tante ore trascorse all'oratorio. O dopo la camminata che ci portava a qualche chilometro dalla città per appropriarci per qualche ora del campo, non custodito, all'interno di un Seminario, a cui si accedeva da una stretta e polverosa strada di campagna, e il cui rettangolo, attrezzato di vere porte, era tra alberi di gelsi bianchi e rossi. O nei campetti improvvisati negli spazi più o meno erbosi, più o meno piani, più o meno liberi, con a fronteggiarsi squadre più o meno improvvisate e più o meno di valore equivalente, o decisamente divise da rivalità di classe, non sociale ma scolastica, primo sentore di cosa potesse significare un derby (in minore).

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  • SUPER LEGA

Avevo vagamente pensato a tutto questo quando, poco tempo fa, venne annunciato il progetto Super Lega, domandandomi che cosa restasse di quel calcio che mi aveva affascinato. Confesso che vedere la mia squadra, l'Inter, inserita in quel contesto mentre il presidente della Juventus, intervistato, parlava di andare incontro ad accattivarsi i favori dei nuovi “spendors”, mi aveva profondamente deluso. Avevo l'impressione che la dirigenza della mia amata squadra non mi corrispondesse più sentimentalmente, altrimenti avrebbe fatto qualcosa per sapere come la penso in merito al fatto che si decida di appartenere ad un numero limitato ed esclusivo di squadre che andrà a dare vita ad un torneo per fare da “competitor” al mercato dei videogiochi. Che c'entra tutto questo con il mio pensare del calcio? mi domandavo.

Avevo aggiunto, come tanti altri, anche il mio nominativo alla lettera aperta che Michele Serra e altri tifosi molto noti avevano condiviso in change.org e avevo preso atto, mantenendo intatta tutta la diffidenza suscitata istintivamente, della marcia indietro fatta dalla società, ma qualcosa, da quel momento, non è più come prima: mi domandavo se non avessi mantenuto un ingiustificato romanticismo intorno a quello che non è più un gioco e che ai giorni nostri forse non ha più ragione d'essere. Un giocatore che muove centinaia di milioni in un anno, tra sponsor e giri d'affari di proprie società, aveva qualcosa a spartire con quei calciatori che mi avevano fatto innamorare di questo sport?
Mariolino Corso aveva investito parte dei guadagni, in un negozio di alta moda, se ricordo bene, insieme al suo amico Armando Picchi e gestito dalle loro consorti. Gigi Riva aveva investito in alcuni distributori di benzina. Rivera aveva allora delle agenzie di assicurazione. Alcuni avevano investito comprando appartamenti. La distanza tra gli stipendi dei calciatori della Juventus e quella degli operai della Fiat era altissima ma non siderale.
A questo bivio davanti il quale ci troviamo potremmo decidere di prendere la strada della morigeratezza, riportando il calcio ad una dimensione meno vicina ad una falsante virtualità (per cui ci troveremmo pian piano a dover scegliere tra sempre più false ma spettacolari competizioni che inseguono, perdendola sul lungo periodo, la corsa in avanti della fantasia dei progettisti di giochi sempre più sofisticati) o quella, in parte già percorsa, anche senza lo scatto in avanti della Super Lega, dove la macchina mangerà sempre più soldi, tesa invano a produrne altrettanti, procurando fortune economiche individuali e costi sociali per la comunità.
Il contenimento dei costi, e il ridimensionamento di certe figure di calciatori che influenzano la gestione di un'intera società sportiva, sarebbe, per me, una scelta di buon senso. Questa mia valutazione è però inficiata da tante varianti personali: la mia età, soprattutto, con tutto quello che comporta in termini di vissuto e possibilità, le mie scelte di vita, i margini della mia crescita culturale e sociale ecc.

Un giovane che non ha mai calcato, almeno a livello amatoriale, lo spazio di un campetto di calcio, che non ha mai improvvisato una partita nel doposcuola o nel dopolavoro, che non si è mai appassionato sentendosi protagonista e importante all'interno di un gruppo di persone, definito squadra, e che, avendo alle spalle questo coinvolgimento personale, dia una dimensione sua, ma mai iperbolica, di quanto si svolge all'interno di uno stadio, perché dovrebbe pensare quello che penso io rispetto alla Super Lega?
Ma è questa la vera domanda? Oppure la vera domanda è: un calcio che decide di confrontarsi, allinearsi e/o scontrarsi in una lotta per la propria sopravvivenza con le sconfinate possibilità di alterare la realtà, spettacolarizzandola all'estremo, e i facili guadagni del suo fratello simulato, pensa davvero di riuscire sopravvivere?