Devo, purtroppo, ritornare alle avvertenze iniziali perché, come già sapete, chiedere il rimborso della pazienza, una volta giunti in fondo, non è possibile e questo scritto è venuto fuori un po' (troppo?) lunghetto... Potrei dividerlo e pubblicarlo in più parti, come usa, ma, se cedessi a questo atto di buon senso, probabilmente continuerei ad allungare le varie parti e a torturare voi poveri masochisti senza alcun costrutto, così ho deciso di lasciare come al solito alla (in)coscienza della Redazione il giudizio e, se lo state leggendo, vuol dire che ce l'hanno proprio con voi! Non so che dire. Mi spiace.

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  • Inizio

In questi tempi inquietanti, per tanti versi, e così temibili, alzarsi e non vedere, quando mi affaccio verso il mondo intorno, la solita stazione che mi conferma che sono a casa mia, oltre al consueto disordine a circondarmi, ai computer in attesa ed ai libri che mi osservano silenziosi attendendo di essere ricambiati di uno sguardo grato e innamorato, pur se ancora assonnato, a volte aggiunge altra inquietudine. Eppure, da questa finestra vedo un parco, un prato verde punteggiato di pratoline e degli alberi. Potessi almeno percorrerne i viali mi sarebbe di svago ma è proprio quello che non posso fare. Alcuni rami dell'albero più vicino ondeggiano e ci metto poco a mettere a fuoco uno smilzo scoiattolo che, aggraziato e flessuoso, si muove tra i rami, sicuro e leggero. Ogni tanto si sofferma ad afferrare un germoglio e a mangiarlo con la calma dei cuccioli ... ed eccone un altro percorrere verso il basso il tronco dell'albero per raggiungere il viale e allontanarsi, anche lui (umanizziamolo dai!) cucciolo,con la tipica andatura saltellante, alternando il passo a quattro o due zampe, e un che di sfrontata canaglieria.

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  • Se ne vanno...

Se ne vanno, ormai, quasi in coppia. Con uno che parte all'improvviso, quasi avesse un'urgenza di capire quell'altrove dalla vita, dove potrebbe essere nascosto il senso che cerchiamo dell'esistere, e con l'altro che lo segue dappresso, quasi si fosse ricordato di qualcosa da dirgli o per riprendere un discorso interrotto, controvoglia, dagli eventi. Magari non si frequentavano neppure, entro i confini delle loro vite, ma nel grande salone della tua anima si incontravano spesso e ognuno contribuiva ad avvivare quel luogo. Se ne vanno portandosi dietro il resto delle parole, quelle che ci erano ancora dovute e, per questo, non sappiamo se perdonarli per quanto ci hanno sottratto, così, di punto in bianco, o essere loro grati per quello che, invece, ci hanno già regalato e custodiamo con cura, pronti a dividere con gli altri quel lascito che, invece di esaurirsi, così facendo, continua a valorizzarsi.
...E così hanno fatto temporalmente per ultimi Gianni e Luis, entrambi voltati ad aspettare gli ultimi per parlarne, perché questa società luccicante tende sempre a voler dimenticare quello che non vede nello specchio delle proprie brame e quelle figure sbiadite, quasi di contorno, infastidiscono la loro preziosa aridità, la loro potente fragilità, così fastidiosamente pressanti nel ricordare che qualsiasi strada si percorra, con qualsiasi mezzo e a qualsiasi velocità lo si faccia, ad incontrarci troveremo sempre il nostro destino comune di uomini e donne.

Se ne vanno, dopo averci invitato nei loro luoghi preferiti e averci messo in guardia da quelli pericolosi. Dopo averci presentato persone e personaggi e averci prestato gli occhi con cui li avevano guardati per farci vedere meglio, arricchendoci di un punto di vista quasi privilegiato. Ci hanno narrato con l'enfasi dovuta all'epica e sussurrato fiabe, non per addormentarci l'anima, ma per coltivare il bello della vita e il giusto dei sentimenti, e se adesso c'è un senso di vuoto, che avverto improvviso al pensiero di un nuovo addio, so che, comunque, mi hanno lasciato tutte le loro parole, in fila a comporre frasi che componevano racconti, da colmare questi e altri vuoti. Era già accaduto quest'estate con Andrea e Luciano...

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  • Sorpresa!

Alle 4,30 di mattina è buio, mentre una R4L... Intendo quella spartana, con i tubolari metallici infilati nella finta pelle per farti da divanetto, sia anteriore che posteriore, e tutto il resto... vuoto: nessuna imbottitura o abbellimento, tipo "quella è, se la vuoi!" e io l'avevo voluta. Così tanto che appena avevo potuto, mettendo la firma su un po' di cambiali (cose di altri tempi) l'avevo comprata. Per scorrazzare nelle strade secondarie e nei sentieri in terra battuta delle campagne, era il mio ideale. Immensa, se rapportata alla 500L di seconda mano, che fino a quel momento, e per quattro anni, ci aveva portato in giro, e che occupa anch'essa un posto nel parcheggio, poco utilizzato, del mio cuore.

Inizio inizio inizio anni '80. 4,30 di mattina. Strade buie o, meglio, poco illuminate. Girando intorno al quartiere Isola e sbucando in via Melchiorre Gioia e percorrendola dirigendosi verso l'incrocio dove inizia, poi i Bastioni di Porta Nuova verso via Francesco Crispi, allora ancora senza spartitraffico, stavo guidando la mia R4 per raggiungere corso Garibaldi, allora percorribile anche verso il centro, mentre adesso, parzialmente isola pedonale, vi costringono a svoltare per via Marsala.

In corso Garibaldi mi aspettava un collega, del gruppo che occupava il laboratorio adiacente a quello dove lavoravo io. Delegato sindacale e rappresentante dell'area di lavoro a cui appartenevamo entrambi, mi aveva invitato a dar loro una mano per fare un volantinaggio per chi usciva dal turno di notte e un picchetto per convincere allo sciopero chi entrava sul primo turno. L'orario era scomodissimo per noi del turno diurno, dato che dovevamo essere davanti ai cancelli per le 5,15. Raggiungere la Brianza, a quell'ora, non era un problema, visto il traffico quasi inesistente. Alzarsi alle 4,00 circa, o prima, un poco sì.
Il collega era già lì ad attendermi, ad un paio di centinaia di metri da dove avevo imboccato il corso. Saluti e sorrisi assonnati.
Grazie per darci una mano.
Figurati, dovere.
Hai preso il caffè?
No, non volevo svegliare mia moglie. Lo prendiamo in piazzale Lagosta, prima di imboccare viale Zara.

Ok... Sbrogliate voi il dialogo ché le virgolette per così poco mi sembrano sprecate, eppoi, il senso è tutto lì, in bella vista, non potete confondervi.

Riparto, per ritornare verso casa e dirigermi poi verso piazzale Lagosta, e, fatti neanche cento metri, da un portone sbuca uno di quegli esseri che, di mattina presto o di sera molto tardi, pensano che non vi sia nessuno in giro e che sarebbe uno spreco di energie senza alcun senso procedere cauti e dare un'occhiata per accertarsene, avendo già una verità bella che scontata in tasca. Per fortuna, è il caso di dirlo, la sonnolenza viene sostituita in fretta da un'impennata di adrenalina e dai freni della macchina, ancora abbastanza nuovi e poco utilizzati, viene il giusto aiuto. Si sente sì un gran frastuono, ma le macchine non si toccano e, mentre io rivolgo all'altro autista, sorpreso come se avesse visto una qualche santa apparizione, un cenno di saluto e apprezzamento rivolto a lui e a parte delle generazioni della sua parentela che l'hanno preceduto, e che sono responsabili di tanta perfezione intellettiva, indicandogli anche il luogo dove possono tutti loro andare per una gita di gruppo, cosa che oggi non potrei fare per via del coronavirus, nell'accingermi a ripartire incontro lo sguardo perplesso del collega che, incuriosito da tanto fracasso nonostante sia riuscito ad evitare lo scontro, sta guardando lo spazio per i piedi tra i due divanetti.
Anch'io do un'occhiata sapendo che il collega ha una qualche ragione di mostrarsi sbigottito: dalla parte vuota, sotto i sedili posteriori, sono venuti fuori una padella bella grande, un sacchetto di farina bianca chiuso dentro una busta di plastica trasparente, una bottiglia di olio di semi, anch'essa chiusa dentro una busta di plastica trasparente, dei piatti di plastica e anche un po' di utensileria varia da cucina, mentre, lateralmente, sporge, quasi intimidito, un sacchetto di carbonella che, per lo spessore maggiore, non è riuscito a seguire il resto della compagnia, sbucando fuori anch'esso dal davanti.
Scoppiato in una risata per la faccia del collega e per l'accaduto, mi riavvio con l'auto, mentre, ad un'ultima occhiata, la perplessità che si legge sul viso dell'altro autista mi fa supporre che si stia ancora chiedendo se non vi sia un qualche regolamento stradale che impedisce agli altri di essere in strada a quell'ora e, qualora non vi fosse, che si aspetta ad adoperarsi in tal senso!

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  • L'esploratore limitato...

Il fatto è che nei primi tempi a Milano ci mancava un po' il verde e la campagna e, non avendo altro modo, perché non avevo ancora la patente, né d'altro canto avevo ancora l'età per richiederla né tanto meno la possibilità di acquistare un'auto, sopperivamo investendo in biglietti del trasporto pubblico per raggiungere i capolinea dei vari mezzi che portavano ai confini del centro abitato, da dove, con una salutare passeggiata, avremmo raggiunto l'aperta campagna e i vari campi incolti, probabilmente perché già destinati a futura cementificazione. Chi, giovane oggi, pensa che Milano all'inizio degli anni '70 fosse già questo ininterrotto susseguirsi di cemento si sbaglia grossolanamente.
Piantina dei trasporti distesa sul tavolo, accigliato come un generale prima di un'operazione strategica, decidevo le varie direzioni in cui ci saremmo mossi in esplorazione. Certo, la campagna è campagna e qualcosa, anche quella messa peggio, ti regala. Dopo varie esplorazioni si tornava quasi sempre alla fermata del 19. Un tram che prendevamo in centro e che, costeggiando il Naviglio Grande, ci portava in piazzale Negrelli da dove, fatti pochi metri, si entrava in aperta campagna a far scorta di erbe selvatiche e, in primavera, anche di gambesecche, un piccolo fungo da prato che si trova in gruppi di famigliole distanti poco l'una dall'altra, che permette di preparare anche dei buoni e profumati risotti e che il grande micologo Bruno Cetto definiva, nei suoi libri, di qualità eccellente. Lo si poteva essiccare e, quando lo ammollavi per utilizzarlo, ridiventava come appena raccolto.
D'altro canto, come dicevo prima, a quel tempo di spazi verdi ve n'erano ovunque, così, anche quando andavamo a trovare mia sorella, che si era trasferita da Milano in un paesino limitrofo, scendevamo a Baggio, con un tram che ci lasciava nell'estrema periferia di allora, e percorrevamo qualche chilometro di sentieri di campagna, preferendoli alla strada asfaltata e al farci raggiungere da mio cognato in macchina. Costeggiavamo l'immancabile roggia, utile a dissetare i campi, e raccoglievamo ciò che la stagione offriva. Questo durò fino a quando non riuscii ad acquistare una 500L usata. Allora, le nostre perlustrazioni si fecero man mano più ampie e ardite, fino al giorno in cui non decidemmo di andare a visitare il Ticino nei pressi in cui scorreva, al confine tra le province di Milano e Novara. Passavamo, come spesso capitava, a fianco di San Siro e seguivamo la via Novara che, cambiando nome attraversando i vari paesi incontrati, avrebbe condotto alla città piemontese. Appena attraversato Ponte Nuovo per discendere verso la valle dove scorre il fiume, la campagna spaziando ai due lati della carreggiata ti dava la sensazione di libertà nella natura. D'altro canto Ponte Nuovo è attraversato dal Naviglio Grande ed era già, se non erro, Parco del Ticino.

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  • Il fiume ci appare...

Arrivati in prossimità del ponte, parcheggiata la macchina sulla destra, mi avviai ad ammirare dall'alto il fiume, con mamma e nipote, che in quel periodo viveva con noi durante la settimana e, in alcuni momenti particolari, come quella gita esplorativa, tra le proteste dei cani che non apprezzavano il dover restare ancora rinchiusi, dopo avere sognato, già alla vista dalle prime campagne intorno, di scendere e correre ad annusare quel mondo nuovo tutt'intorno.
Era davvero, ovviamente ai miei occhi, uno spettacolo meraviglioso! Questo fiume che nel suo largo letto non era nel periodo di maggiore capienza, creava rivoli e isolette. Rivoli che poi si ricongiungevano al corso d'acqua principale, mentre, ancora più a valle, il fiume si apriva a creare un vero e proprio isolotto che, nel tempo, ci saremmo avventurati a visitare. Quella massa d'acqua che scorrendo su un letto di ciottoli sembra trasparente, soprattutto rispetto a quelli con il letto sabbioso, mi aveva da subito affascinato.

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  • Il mare...

Lo so, arrivando dalla Sicilia, non ci si dovrebbe lasciare sorprendere dalla limitata quantità d'acqua di un fiume, per quanto grande sia, rispetto a quella che vedi fino all'orizzonte e che ti lascia solamente immaginare le coste africane. Ma, in questa considerazione, vi è un errore di fondo: la Sicilia è grande e io sono nato in una zona interna, allora a prevalenza agricola. Quindi sono un siciliano terragno. Che durante la mia infanzia e la prima adolescenza le condizioni economiche non ci permettevano alcunché oltre la già travagliata sopravvivenza e che, a parte una breve puntata, non per divertimento, il mare siciliano ho iniziato a frequentarlo e viverlo solo quando ho iniziato a tornare in Sicilia nel periodo di chiusura estiva dei posti in cui ho lavorato, per qualche puntata di alcune ore di refrigerio (attivo quando si potevano raccogliere cozze e mitili) perché ho sempre preferito la campagna e i suoi ritmi.

La prima volta che vidi il mare fu a Gela. Il viaggio più lungo che, in quei pochissimi anni, avevo fatto era il tragitto per la campagna di una zia o di qualche altro zio. In quel viaggio in autobus fui tormentato dagli effluvi della nafta, che il vecchio mezzo di trasporto distribuiva con generosità, infiltrandola nel lungo abitacolo. Facevo fatica e ogni tanto saliva qualche conato a contrarmi i muscoli ma arrivammo a destinazione senza combinare disastri, scendendo ad una fermata sul lungomare indicataci dal gentile autista e ci dirigemmo verso un albergo di cui mamma aveva un indirizzo mandato a memoria.

Il mare era lì di fianco a noi e a me non parve affascinante, come l'avrei trovato in quasi tutte le altre occasioni, anche recenti, passeggiando di mattina o di sera, quando la calca delle persone svanisce e puoi restartene ad ascoltarlo in tranquillità. No, in quel momento mi incuteva un po' di timore. Una giornata di caldo afoso e quell'odore di nafta che era anche nell'aria di Gela mi incupivano. Eravamo lì perché stavano iniziando i lavori per costruire il Petrolchimico dell'Anic e vi era un grande spostamento di tecnici e operai, dalle altre parti della Sicilia ma anche dal continente. L'albergo aveva l'esigenza di trovare personale addestrato e che sapesse gestire con autonomia le attività assegnate. Mia madre doveva occuparsi delle stanze. Il direttore le spiegò di cosa si trattava e cosa voleva da lei mentre io, con lo stomaco ancora riluttante a ricevere alcunché, piluccavo una delle tipiche brioches siciliane, svogliatamente e senza appetito, che mi era stata data per tenermi occupato. Probabilmente, anche se non ancora attive le produzioni, venivano comunque già effettuate delle estrazioni di petrolio e l'aria, in quella zona, ne risentiva pesantemente con mio grande sconforto. Seguivo mia madre che sbrigava le varie faccende, rifaceva letti, raccoglieva lenzuola e asciugamani e le ammucchiava su un carrello nel corridoio.

Da quando era morto papà, quasi un paio di anni prima, si sfiancava come un mulo per tirare su i tre figli rimasti a suo carico e, a Caltagirone, seguiva quattro attività differenti, tra lavori umili in un paio di alberghi e le pulizie in due cinema cittadini. La sua giornata iniziava intorno alle tre, tre e mezzo di notte. Qualche volta, non sapendo a chi lasciarmi, se per le mie sorelle era tempo di scuola, mi portava con sé. Assonnato e nel buio mattutino, ricordo che non avevo mai avuto timore camminando di fianco alla presenza rassicurante di mia madre. Salutava una guardia notturna, non so se con qualche grado di parentela con noi, che incontravamo quasi sempre nei pressi del ponte che conduce al centro cittadino, e percorrevamo la lunghissima via Roma che proseguiva, cambiando nome verso la vecchia stazione ferroviaria, ma noi svoltavamo a destra, dove vi erano le prime case della parte più moderna della città, che si sarebbe sviluppata da lì dopo qualche anno, oppure, se si vuole, le ultime dell'area cittadina prima di inoltrarsi verso un'area non ancora perfettamente urbanizzata, dove sorgevano, quasi in mezzo alla campagna, le case popolari di nuova costruzione.
Fatti quei pochi chilometri a piedi, apriva con le chiavi a sua disposizione quel moderno cinema e iniziava a lavorare. Io qualche volta crollavo addormentato seduto in una poltroncina del cinema, mentre lei puliva e lavava i pavimenti.
Quando entrava nello stanzino, da dove il proiettore indirizzava sullo schermo quel misterioso fascio di luce che trasportava personaggi e contesti, se ero sveglio la seguivo per appropriarmi, prima che finissero nella spazzatura, di alcuni spezzoni di pellicola tagliati dall'operatore.
A casa, in controluce, mi apparivano le immagini impresse: un gioco stupido e inutile, fino a quando noi avrei incontrato la fotografia a svelarmi il fascino di catturare la luce, non per imprigionarla ma per rimodellarla in ricordi a mio piacimento. Certo, esagero un po'. Quando ero già in età da andare a scuola, qualche volta mi mettevo a spazzare anch'io per terra, in quello o nell'altro cinema nel centro storico, mentre lei ne lavava magari un'altra area. Non so se lo facesse solo per tenermi impegnato o perché le fossi realmente di qualche utilità.

Torniamo a Gela. A a metà mattinata, mamma aveva già svolto il suo lavoro e, perfino io che ero bambino, capivo che il direttore ne era estremamente soddisfatto e avrebbe voluto che lei si impegnasse da subito in una risposta affermativa che mia madre titubava a dare e sapevo perché: nonostante la buona offerta che le avrebbe permesso di lavorare di meno, guadagnando molto di più con un unico lavoro, perfino con i contributi pagati, c'era quel benedetto figlio che continuava a soffrire quell'aria pesante che, all'apertura definitiva del Petrolchimico, avrebbe dato un lavoro sicuro e qualche malattia, a tante persone, sottraendole alla miseria. La salute di quel suo cucciolo era importante più della sua stessa vita.
Ce ne tornammo a casa, con una sensazione di gioia da parte mia e, forse, di sconfitta da parte di mia madre che aveva visto un modo di affrancarsi dalla miseria, l'aveva afferrato per un po' fermamente ma, alla fine, aveva dovuto lasciarlo andare e quello scoramento ci avrei messo degli anni, pochi e comunque sempre troppi, a rimediarlo. Fu così che il mare, incontrato così malamente, ce lo lasciammo alle spalle.

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  • L'esploratore incapace...

Visto dall'alto il Fiume, quel fiume, ci aveva fatto innamorare a prima vista. I boschi che lo incorniciavano erano, da lontano, invitanti ed accoglienti e risalimmo presto in macchina mentre i cani, pensando che vi fosse un cambio turno da operare e che fosse arrivato il loro momento di godersi lo spettacolo, cercavano di uscire. Poco più avanti, quindi sulla riva piemontese, girai a sinistra e, seguendo una stradina asfaltata e passando sotto un minuscolo ponticello, che sorreggeva per qualche metro i binari della ferrovia, ci infilammo nel bosco, a fianco di un allegro torrentello che accompagnava la stradina fino ad una curva, da cui si intravvedeva un sentierino minuto, stretto fra alberi e cespugli, che continuava a lato del piccolo corso d'acqua. Noi seguimmo il nastro d'asfalto fino ad uno spiazzo che incrociava un canale scolmatore bello grande. Là ci fermammo perché ci sembrava già un bel posto e, mentre i cani si davano da fare con le loro personali indagini, seguendo piste olfattive che a noi sfuggivano, in gran parte, noi iniziammo a muoverci lungo i sentieri ai lati del canale, che scorreva molto veloce.

Acqua campagna e alberi... Ce n'era dappertutto anche nei luoghi che di solito visitavamo, ma lì erano in quantità smisuratamente enormi rispetto al solito. La passeggiata esplorativa si svolgeva allegra tra le raccolte di qualche cima commestibile delle solite piantine, che anche lì, sebbene in quantità non abbondanti, trovavi, a parte nel periodo in cui il luppolo germoglia attorcigliandosi intorno a fusti e rami e sporgendosi a lasciarsi scoprire per staccarne le tenere cime, impropriamente definite asparagi selvatici da alcuni, che, invece, cresceva abbondante, essendo pianta perenne che rispuntava ad ogni stagione, nello stesso posto in cui quella sua parte aerea precedente, rinsecchita assieme alle altre vicine, nello stesso stato, aveva creato una specie di grata su sui iniziare ad arrampicarsi, prima di abbracciare altre sue colleghe del mondo vegetale, senza distinzione alcuna, attaccandosi affettuosamente ad ogni pianta alla sua portata. Speriamo che qualche astuto politico, venendo a conoscenza della sua parentela con la marijuana non decida di privarmi d questa simpatica ed innocua piantina e delle mie saporite frittate. Il pericolo non dovrebbe sussistere in assoluto se non fosse che la qualità di alcuni politici non è proprio eccelsa e che, in tempo di elezioni, potrebbero attaccarsi a tutto. Scherzo, ovviamente, ve lo immaginate un politico che in campagna elettorale mette in discussione un buon boccale di birra di cui il luppolo è componente essenziale?

Bene, quel giorno, sfiancati da qualche ora di perlustrazione per sentieri che non conoscevamo e che spesso ci costringevano a tornare indietro con uno sbarramento di rovi, pranzammo con il cibo che avevamo portato e tornammo soddisfatti a casa, felici e ignoranti che eravamo stati ad un passo dall'affacciarsi sul Paradiso.

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  • Un Paradiso

Il Paradiso lo scoprimmo la settimana successiva, partendo presto da casa, con una pizza calda che mia madre aveva appena sfornato e che manteneva al caldo avvolta in una coperta. Ripercorremmo lo stesso tragitto con i cani che continuavano a osservare il panorama fuori dai finestrini, impazienti quasi quanto noi, e che iniziarono a fare versi di gioia quando finalmente ci inoltrammo nella vegetazione e, passati davanti allo spiazzo dove ci eravamo sistemati la volta precedente, proseguimmo passando pure davanti ad una spaziosa costruzione, protetta da una rete di recinzione e da un cancello in ferro, per sbucare, a poco più di un centinaio di metri da dove scorreva il canale di scolmamento, in una radura circondata per tre lati dal bosco e per l'altro lato da grossi sassi che erano posti a lato della riva del Fiume.

Vi era un sentiero, in terra battuta, che si inoltrava, sufficientemente largo, a fianco del fiume e decidemmo di percorrerlo nella direzione che ci avrebbe portato ad avvicinarci di nuovo al ponte sulla strada principale. Lì, arrivammo in un altro spiazzo, molto più piccolo, rispetto alla radura di prima. La macchina di lato e di nuovo fuga dei cani a perlustrare anche quella nuova zona mentre anche noi ci incamminavamo a guardare. Quel ramo laterale del largo fiume era sbarrato da una parte da una chiusa, da cui si originava lo scolmatore, già incontrato più in là, mentre il suo scorrere, appena dopo l'altezza della chiusa, veniva impedito da una diga di grossi ciottoli e formava un laghetto artificiale che contribuiva a tenere ad un livello quasi massimo l'acqua del canale, mentre la parte principale, filtrata dai ciottoli, riprendeva la sua corsa, per ritrovare, prima o poi, il letto principale e per poi lasciarlo di nuovo, caratteristica questa del Ticino, che lo porta di mese in mese e di stagione in stagione a mutare il suo aspetto e a riproporsi sempre nuovo e da scoprire, nel suo incedere.

I ciottoli che formavano la diga costituivano anche un ponte per raggiungere un'isoletta naturale alberata, che si era formata in mezzo al fiume e che nei periodi di maggiore portata, quando vi erano state grandi e continue piogge, che avevano spinto magari anche gli svizzeri ad lasciar sfogare l'impeto dell'acqua, aprendo un po' di più le loro dighe, quell'isola naturale, dicevo, spariva. In un periodo particolarmente critico, anche il bosco tutto intorno al fiume fu allagato e, io e mia madre che ci eravamo avventurati, questa volta a bordo della R4, a cercare di ritrovare parte degli abbondanti porcini da castagno che solo quell'anno avevamo trovato, fummo costretti ad arrenderci perché l'acqua aveva raggiunto e coperto anche quel luogo.
Bene, ho già svelato parte del tesoro che quel Paradiso offriva: tante e tante varietà di funghi, da cui scegliere quelle che conoscevamo noi. A parte i vari boleti (mai porcini, a parte quel caso particolare), alcuni dei quali mangiati già anche in Sicilia, le numerose ed eleganti mazze di tamburo, con il loro profumo leggero di nocciola, le famigliole di chiodini, in autunno, da conservare anche già in sugo congelati. Ma, perfino d'inverno, proprio quando l'autunno era quasi prossimo a cedere, seppure maestosamente, vestendosi dei soliti bellissimi colori che un bosco cangiante sa offrire, e perfino con la prima neve, ci avevano fatto conoscere un paio di funghi, quelli di Santa Caterina e quelli della nebbia, che resistevano anche in quelle condizioni un po' estreme, per i loro simili. Entrambi carnosi, quindi da mangiare utilizzando anche il gambo, il primo, violaceo, per cui ne indicavo la presenza a mia madre come funghi viola, dal profumo leggermente fruttato, si prestava anche alla cottura in forno, l'altro, grigio come una giornata di nebbia, amato di più da mia madre, sempre carnoso, dopo sbollentatura nell'aceto, si poteva conservare, data la mole, in grossi contenitori di vetro con olio e spezie. Mia madre spesso li spezzettava, per migliorare il riempimento dei vasi. Ammetto che, quando li sbollentava, ne avevo un po' fastidio per il loro odore un po' forte.

Devo dire che non solo le lunghe camminate alla ricerca di piante e funghi, dove a volte ti trovavi in compagnia di qualche biscia, in vicinanza di qualche pozza d'acqua, o raramente di qualche serpente, che comunque diffidando, prudentemente si allontanava, avevano incuriosito e stimolato interesse e fantasia di mamma e nipote.
La pesca, praticata da molti, anche se non numerosi come nella riva lombarda, tenuta peggio e poco sorvegliata, lungo il corso dell'acqua e la cattura dei pesci, nonché quello scrutare l'acqua cercando di capire e la ricerca dei posti più favorevoli, in quel continuo mutarsi del fiume, li aveva affascinati in modo quasi eccessivo, continuando a fare pressioni sul sottoscritto affinché anch'io provassi a diventare un pescatore. Anch'io una volta rimasi affascinato dal modo di pescare di una persona che silenziosamente si era fermato, aveva guardato l'acqua con interesse, forse cercando il baluginio argentato di qualche pesce e, sempre intensamente assorto, aveva tirato fuori un secchio che aveva riempito a metà d'acqua, un guadino di buone proporzioni e la canna e aveva iniziato la pastura, senza tentare neppure di saggiare mettendo la lenza in acqua. Dopo dieci minuti aveva iniziato a pescare e, dopo pochi lanci, recuperati a vuoto cambiando solo l'esca, aveva iniziato a prendere all'amo dei cavedani belli grossi, che lottavano per la propria sopravvivenza. Dopo averne catturati e estratti dall'acqua con il guadino, li faceva scivolare con rispettosa cura nel secchio. Senza mostrare alcuna emozione.
Bene, ad un certo punto cedetti e acquistata, dietro i buoni consigli del proprietario di un negozio di caccia e pesca vicino a casa, una canna di buona qualità, una Maver, e un Cardinal, come mulinello, apprese due nozioni due, su come fare il lancio... vabbè, chiudo qua, perché per le prime uscite ci vorrebbe un umorista migliore di quanto sia nei miei mezzi, per descrivere appieno nella loro comicità le mie gesta. Questo non fece desistere dai loro sforzi madre e nipote, e stimolò il sottoscritto che iniziò a leggere qualche libro e qualche rivista e si appassionò, ahimè, lo ammetto, a quell'attività non necessaria, anche se legata alla natura. Diventai un buon pescatore e lo stesso fu per mio nipote. Per cui, ad ogni uscita, oramai preparavo le mie lenze e anche, a volte dei galleggianti naturali e discreti per mimetizzarsi sul pelo dell'acqua. Anche mia madre pescava. Normalmente pescavamo pesci piccoli come vaironi ed alborelle. Raramente qualche cavedano e, in alcuni punti più veloci, qualche barbo.

E qua si torna a quando da sotto il sedile posteriore della macchina sbucarono fuori padella, olio, farina e carbonella: portavamo da casa solo degli ortaggi e il pane e mia madre, che smetteva prima di noi di pescare, puliva il pesce e i funghi, se ve n'erano, e ne friggeva una parte sul posto, mentre grigliava le verdure. Il vino, tenuto in fresco nell'acqua. Un tavolinetto e quegli scomodissimi piccoli sgabelli e la natura tutt'intorno.
Smisi circa 35 anni fa di pescare perché ad un certo punto iniziai a sentirmi ogni volta più a disagio. Loro continuarono ancora per un po', mentre io vagabondavo per i boschi. Poi anche loro decisero di smettere.
Forse è da lì che è iniziato il percorso che poco più di quindici anni fa mi ha portato a fare la scelta vegetariana.

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  • Conclusioni? Boh!

Quando arrivavamo in quel posto, spesso ancora al buio, con un caffè versato dal thermos un po' per scaldarsi e un po' per sancire l'inizio dell'attività, mi veniva di andare a salutare i grandi alberi all'inizio dei sentieri, quasi persone ritrovate. Man mano che la luce arrivava da oriente, le forme si ricomponevano dall'ombra e si svelavano nel loro essere e ti sembrava di far parte di quella natura e di quella vita comune. Qualche volta, la pace di quei posti, mentre camminavi a cercare nel sottobosco o, semplicemente a cercare posti ancora non visti, ti si insinuava dentro e ti dava una percezione differente della natura. Una spiritualità in qualche modo religiosa.


Oggi che questo virus ci tiene confinati e lontani dalla perfezione della Natura, parlo di quella che non siamo riusciti ancora a devastare, e i notiziari dicono che il Po sembra ringiovanito nella nuova qualità delle sue acque, e vedi gli animali gironzolare senza paura prendendosi quello spazio che gli abbiamo tolto, mi chiedo se non sia lì il messaggio che ci viene rivolto.
Se non venga da ciò additata l'insensatezza del nostro vivere storpiando le nostre conoscenze e rendendo spesso letali, anziché utili, parte delle nostre scoperte.
Se non ci siamo appropriati anche di spazi che non erano solo nostri e se, in qualche modo, tutto questo non si debba prendere come un monito rivolto a noi umani.