• La solidarietà con la data di scadenza superata...                                              

Il signore chiede al farmacista se hanno delle mascherine... anch'io mi giro interessato a sentire la risposta. La risposta è che del tipo che indossa quel signore, quelle usa e getta, non ne hanno. Hanno quelle da 8 euro la coppia, ma lavabili. Il signore chiede quando arriveranno quelle usa e getta e la risposta sconcertante è che loro non le vendono perché costano troppo poco.
Fino ad un paio di giorni fa eravamo al balcone a stonare sia l'inno nazionale che qualche canzone di quelle note, abbiamo ammazzato anche Viva l'Italia di De Gregori... io non ho partecipato per pudore, perché mi imbarazzano certe messe in mostra, però va bene così, ognuno deve vivere questi momenti come si sente. Però, perfino i vicini che litigavano perché quello stro... lascia la macchina  troppo vicino al box impedendo di uscire all'altro, a quanto mi raccontano, erano a fare il coretto, con tanto di bandiere al balcone. Non nego, invece, di essermi commosso nel sentire cantare "Bella Ciao" dai vigili del fuoco e dagli operatori sanitari inglesi per i loro colleghi italiani...
La solidarietà viva e palpabile... Evviva! Siamo fratelli... La Meloni, anche se molto impegnata a denunciare il carattere troppo autoritario di questo governo, in questi giorni era anche molto commossa perché tutti cantavano dichiarandosi fratelli d'Italia e nessuno se l'è sentita di chiarirle che Goffredo Mameli non pensava al suo partito quando ha scritto quei versi...

Tutto finito? Vi ricordate gli imprenditori edili che intercettati nei giorni del terremoto in Abruzzo si felicitavano reciprocamente dichiarando di voler tirare il collo a qualche bottiglia di champagne? Non serve rivangare il passato! Siamo oramai diversi! In questi momenti viene fuori spontaneamente la solidarietà umana! E i trafficanti di mascherine?  E i farmacisti che se non possono speculare su questa disgrazia non cantano più in coro solidali? E quelli che sui Navigli, a Milano, festeggiano in amicizia senza tener conto di alcuna cautela alla faccia di quelli che fino a ieri chiamavamo eroi e che si sono immolati, anziché tirarsi indietro per le troppe difficoltà causate dai tanti tagli alla sanità?... Adesso vogliono dedicare loro perfino una giornata della memoria. L'ho sentito anche dalla voce della Presidentessa del Senato, mica micio micio bau bau. Forse, bisognerebbe chiamarla giornata del "promemoria", visto che appena ci hanno riaffidato la responsabilità di decidere, abbiamo deciso che la prudenza è davvero troppa... ed è pure noiosa. Tanto a noi non capiterà mai! E gli altri?... Che vadano a pigliarselo simpaticamente in saccoccia!

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  • (I) SCOIATTOLI AMICI

Torno con l'umore un po' così. Intendo quello di questi giorni, quando esco con una mascherina e dei guanti di plastica. La mascherina che tende a coprirmi parte della visuale mi dà sempre fastidio, in particolar modo quando devo passare vicino ad un posto alberato, dove vorrei soffermarmi a guardare le piccole variazioni che ogni volta vi sono in quegli spazi vivi e trascurati dallo stupore, per abitudine. Uno scoiattolino, indaffarato a mangiare qualcosa tenuto tra le zampe anteriori, quasi manine da bambola, si ferma a guardarmi passare vestito da rapinatore dall'aria abbattuta di cui si intravvedono solo gli occhi, che devono sembrargli per niente rapaci, perché smette il suo daffare e si precipita, senza tirarmi via gli occhi di dosso, al bordo del prato a guardarmi mentre mi allontano. E mi sembra un po' tutto curioso, lui, la situazione, io, che vengo ispezionato come fossi una rarità un po' stramba e imprevedibile da dover gustare con attenzione perché chissà quando ricapiterà... Mi da l'idea che potrebbe tirar fuori una macchina fotografica da qualche parte e scattarmi una foto, come faccio io con loro. Perché ho lasciato a casa la mia macchina? Questo è un segno di resa a questi tempi? Sì, un po' lo è. Non mi aspettavo nulla che potesse incuriosire la mia fantasia intorpidita in questo breve tragitto per farmi cavare un po' di sangue da analizzare e tornare frettolosamente alle parole sui libri, per allontanarmi da questi posti angusti e visitarne di sconosciuti o ritornare in alcuni già visitati con la fantasia.

Mi lascia però un senso di solidarietà, di purezza ancora incontaminata dalla paura, l'avvicinarsi di un animale che tra un po' imparerà a temere me e i miei simili. Mi sento osservato quasi con affetto, come faccio io con loro, mentre mi allontano. Quasi un messaggio tipo "stiamo qua insieme adesso perché è la nostra vita comune, la nostra esistenza in questo mondo". E' bello, luminoso e illuminante e non potrà durare che il breve inoltrarsi nei giorni della sua esperienza, nell'addentare, con il cibo, anche la diffidenza. Non mi guarderà più, tra un po', con quegli occhi curiosi e speciali che dona la meraviglia di trovarsi al mondo.

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  • (II) IL MESSAGGIO DI JURGEN KLOPP, UN LEADER NATURALE

Mentre le polemiche si scatenano e chiunque attacca chi non la pensa come lui e l'idea che la salute dovrebbe essere al primo posto della classifica dei nostri pensieri, in frangenti come questi, sia solo espressa a parole ma con i fatti che sgomitano esponendo altri interessi, proprie vanità e altre verità, in un piccolo universo costellato di tragedie private, individuali e silenziose, e pubbliche farse di presunti leader, da dove, nell'ombra in cui erano stati ricacciati vorrebbero riprendersi una scena che non meritano, mi vado a rileggere le parole di Jurgen Klopp ai tifosi del Liverpool, conscio che, se fosse stato lui alla guida di quel paese dove opera, anziché quello che cercava la mitica immunità di gregge, pensando, però, di non esserne componente o di essere già immune, forse qualche vita sarebbe stata risparmiata.

13/3/2020
Messaggio di Jurgen Klopp ai tifosi del Liverpool
“ Non penso sia un momento in cui i pensieri di un allenatore di calcio debbano essere rilevanti, ma capisco che i nostri tifosi vorrebbero sentire qualcosa dalla squadra, e lo faccio io. Prima di tutto ciascuno di noi deve fare tutto ciò che può fare per proteggerci l’un l’altro. Nella società, dico. Dovrebbe essere così sempre ma in questo momento credo che sia più importante che mai.
Ho detto altre volte che il calcio sembra sempre la cosa più importante tra le cose meno importanti. Oggi, il calcio e le partite davvero non sono importanti per niente. Chiaramente non vogliamo giocare in uno stadio vuoto né vogliamo che i campionati siano sospesi, ma se questo contribuisce a far star bene una persona – anche una soltanto – lo facciamo, senza farci domande.
Se stiamo parlando di una scelta tra il calcio e il bene della società in generale, non c’è partita. Davvero, non c’è.
La decisione e l’annuncio di oggi sono stati motivati con il bisogno di tenere al sicuro le persone. Per questa ragione li sosteniamo completamente. Abbiamo visto ammalarsi membri delle squadre nostre avversarie. Questo virus ha dimostrato che stare nel calcio non garantisce alcuna immunità. Alle nostre squadre rivali, alle persone colpite, a coloro che lo saranno: siete nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere.
Al momento nessuno tra noi sa come finirà tutto questo, ma come squadra dobbiamo avere fiducia nel fatto che le autorità prendano decisioni in funzione di ciò che è giusto e moralmente fondato.
Sì, sono l’allenatore di questa squadra e di questo club, e questo comporta una responsabilità di guida in merito al nostro futuro in campo. Però penso che allo stato attuale – con così tanta gente in ansia e incerta nella nostra città, nella nostra regione, nel nostro paese e in tutto il mondo – sarebbe completamente sbagliato parlare di qualsiasi altra cosa che non sia consigliare alle persone di seguire i consigli degli esperti e prendersi cura gli uni degli altri.
L’unico messaggio della squadra ai nostri tifosi riguarda soltanto il vostre bene. Mettete la salute prima di ogni altra cosa. Non prendete alcun rischio. Pensate alle persone vulnerabili nella nostra società e agite con compassione nei loro confronti, ove possibile.
Abbiate cura di voi stessi, vi preghiamo, e gli uni degli altri.
You’ll Never Walk Alone,
Jürgen ”

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  • (III) MEMORIA DI UN PRIMO RITORNO

Era il vento dell'Africa, che arrivava fin lì con l'ultimo respiro, ad accarezzarci tiepido in quelle notti d'estate, quando insonni ce ne stavamo seduti sui gradini dell'ingresso laterale della Villa, quello che porta anche al Museo della Ceramica. Le spalle appoggiate al cancello chiuso, la voce un po' arrochita dalla stanchezza a contribuire al coro scoordinato di una qualsiasi discussione che ci tenesse inchiodati lì, anche legati da un filo leggero che badavamo a che non si strappasse, togliendoci l'ultimo velo tra noi e i saluti, che sapevamo imminenti. Eravamo pericolosamente giovani, perché la giovinezza è un rischio e non la si vive mai con l'esperienza e la vita degli altri ma, d'altro canto, è lì che, inconsapevoli, fatichiamo a scavare una ricchezza che poi ci porteremo dietro per il resto dell'esistenza, se ve ne sarà una.

Le ombre, ora immobili, ora oscillanti di foglie, del Monumento ai Caduti, che ci stava di fronte, con quelle pagine in marmo di nomi silenziosi da sempre, per la mia vita così già tanta eppure così recente, ci scrutavano da sotto le palme sonnacchiose o addormentate, che avevano svestito il bel verde, assolato e definito, per un più adatto abbigliarsi di comode forme imbrunite, dai contorni un po' rilassati. Curioso di voci, le nostre, nel suo adornare la strada, ignorato dall'abitudine impressa negli occhi di passanti ormai resi distratti nel loro daffare, finalmente poteva ascoltare, non grida o clamore di via importante e vissuta ma l'agonizzare di una vitalità quasi pronta alla resa, ma ancora elegante nel dialetto versato in pensieri.

In pensieri sbagliati per situazioni travisate. Era il mio primo ritorno e quella che per me era fatica quotidiana e prime frustrazioni dei miei iniziali progetti, schiacciati dalla realtà, per loro era fantasia per una città, Milano, che anch'io sentivo affascinante, piena di mille possibilità e luci, che io non conoscevo ancora, di mille bellezze, che non avevo avuto ancora tempo di vedere e di infinite avventure romantiche, ispirate da ormoni irrequieti e tumultuosi, che non avevo vissuto, nello spazio lasciato alla stanchezza dopo le tante ore di lavoro settimanali. Io, innamorato non ricambiato di una ragazzina con la pelle colore del miele, invidiavo il loro destino, con le loro ragazze che avevamo accompagnato a casa qualche ora prima. Quella lontananza ricca e sconosciuta che loro percorrevano con fantasia ignorante e imprecisa, per me, in realtà, era una quartiere popolare pieno di cercatori di speranze depositate nel setaccio della vita, pronte ad essere raccolte ma rare, troppo rare da trovare in quei quartieri, eppure mi rendevano familiare quella mia nuova vita: c'è un Sud in ogni parte del mondo, anche nel settentrione più estremo, e a quel Sud io appartengo da sempre e per sempre.

Come spiegare, a loro che godevano delle vacanze estive scolastiche, che le mie giornate di ferie erano preziose necessità di giorni in cui costruivo ricordi da riportarmi indietro, possibilmente scritti in modo indelebile nella mia vita, per essere utilizzati nella mia nuova abitazione e nelle mie nuove abitudini quotidiane? Che il fatto che quella donna, mia madre, non dovesse più sfiancarsi di lavoro per me era già un sentirmi sgravato da un peso che mi era diventato insopportabile? Che mi accontentavo di vivere? Di raccattare poeti e scrittori dalle bancarelle di libri usati? Unico vizio permesso, oltre al cinema la domenica o il sabato sera, o qualche puntata nelle balere riadattate a dancing ad ascoltare qualche gruppo beat, con nuovi conoscenti, colleghi della mia età, quasi amici alcuni, per nuovi sorrisi di ragazze e uno sfiorarsi di vite, incessante e spendibile in ore e non in futuro. Che, no, San Siro era ancora un mito non visto se non dall'esterno al passarci vicino con l'autobus, per caso, lontano, quasi in una città diversa e sconosciuta. Quasi impossibile, per loro, pensare di vivere in quel luna-park immaginario e non spendere il tempo divertendosi.

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  • (IV) LE PARTITE DI CALCIO

Se il momento che precedeva i saluti era quasi sempre rituale, il ritrovarci non lo era quasi mai. Perfino le nostre partitelle di calcio potevano essere programmate anche di mattina, abbastanza presto da essere di ritorno per pranzo e, pure, prima che il sole impietoso ci scherzasse compiaciuto facendoci colare di sudore, anche se, il piacere di ritrovarci in campo, come tante volte era già accaduto, era troppo bello per lasciarci condizionare.
Se non riuscivamo ad impegnare il campo vicino alla scuola media che tanti fra noi avevano frequentato, nella parte nascente della città, ci toccava scarpinare ancora di più cianciando allegramente, borse in spalla, verso il Cimitero Monumentale di Caltagirone, a qualche chilometro dal centro abitato, che, non considerando l'uso a cui è destinato, in quanto può dissuadere dal volerlo visitare, è da considerarsi a tutti gli effetti, con le sue opere in terracotta, pietra bianca ragusana e pietra lavica, un'opera d'arte cittadina.    

Ci si trovava in gruppi. Chi, arrivando come me dall'antico centro storico, si ritrovava all'ingresso principale del Giardino Pubblico, per dirigersi, attraversando i vialetti più stretti ed ombreggiati, verso l'ingresso secondario della Villa, attaccato alla vecchia Biblioteca Pubblica, che io, non potendo acquistare i libri di testo eccedenti quelli che mi venivano forniti gratuitamente, frequentavo per le mie ricerche e che ora è destinata a Museo Internazionale del Presepe. Davanti al suo ingresso, ci si trovava con quelli che arrivavano, in gruppo anche loro, dai quartieri vicini, per poi raggiungere la vecchia Stazione Ferroviaria e formare il gruppone definitivo che si avviava alla metà all'ombra degli alberi di via Fontanelle, allora quasi completamente disabitata, e passando davanti a quegli sbocchi d'acqua che davano il nome alla lunga via, in un'ampia rientranza della strada, e ai larghi abbeveratoi per le bestie di allora, di ritorno o verso la campagna oltre l'ultimo limitare del centro abitato. Al ritorno, borse per terra, ci saremmo rinfrescati sommariamente, togliendoci sete, polvere e sudore di dosso, prima di raggiungere di nuovo il confine comunale e disperderci, alcuni fiduciosi e forti di un nuovo ritrovarsi di lì a poco.

Quel tratto, percorso in allegria festosa all'andata e in altra allegria, appena sgualcita da un po' di stanchezza e narrazione incasinata delle fasi dello scontro sportivo, al ritorno, nell'andare si concludeva in una stradina laterale, un centinaio di metri dopo il Cimitero Monumentale, coperta dalla polvere della terra della campagna che voleva riappropriarsi di quel tratto e curare quella ferita di asfalto verso il Seminario Vescovile Estivo, con prima, a lato, il campetto di calcio di terra battuta ammorbidita da uno strato di sabbia, circondato da alberi di gelso, dai frutti sia bianchi che neri, primo sostegno, nella stagione estiva, alla nostra esigenza di ripristinare energie attraverso zuccheri semplici da assimilare a fine partita.

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  • (V) POMERIGGI ASSOLATI

Anche se dovevamo vederci in gruppo, ci trovavamo per primi, da qualche parte, anticipando di abbondanti manciate di minuti il nostro incontro. Oggi sono quasi certo che il nostro fosse un inconsapevole voler privilegiare quel nostro dividerci il banco a scuola per anni. Arrivando dai lati opposti della città, passeggiando per strade e piazze, prima di recarci nei luoghi fissati per appuntamenti collettivi, quasi un riscaldamento a parte per prepararci a quei lunghi pomeriggi assolati da dividere con gli altri, diretti alle porte della sera e della notte. Tra ricordi e speranze dichiarate. Rivelazioni di un anno di non sapere oltre alle lettere periodiche scambiate. Momenti da riempire con lunghe discussioni e lunghi silenzi, leggeri e saputi, quasi parlanti comunque. Lettere da cui cercavo di sapere di una vita che mi era venuta a mancare di colpo e di quella ragazza dalla pelle colore del miele che non s'acquietava a diventare un ricordo e di cui, solo con difficoltà, non chiedevo parole che già conoscevo, a frugare un dolore giovanile e persistente, dal sapore di assenza.

Poi tutti insieme. Ovunque ci trovassimo, a spendere chiasso, parole e risate, ad un certo punto scattavano i primi saluti e chi rimaneva, oramai cosciente di un nitore differente, arrossato dal quasi tramonto, sapeva che c'era il rito della scelta su come rifornirci di cibo per continuare il nostro girovagare senza dover tornare a casa, che si concludeva quasi sempre allo stesso modo. Rivelavamo la nostra personale preferenza che già c'eravamo avviati verso il centro, attraversando il Parco e risalendo la via Roma fino a farci abbagliare dal tramonto esposto al Ponte di San Francesco d'Assisi, sempre bello da stupirmi, sempre cangiante ad ogni esposizione, con i raggi ad accarezzare le tegole dei tetti e le terrazze piene di piante, ed a creare gradevoli ombre e a suggerire bellezze magari non appieno vere, come certi ricordi rimodellati dalla memoria, ma da darti la voglia di far parte di quei colori e di quella bellezza e delle contrastanti ombre... E, di fatto, lo eri appartenente ad un quadro vivente creato dal sole, tra ragazze e ragazzi di un'età ancora fragrante di tante speranze ma anche consapevoli per qualche prematuro dolore.

La scelta era quasi sempre la stessa, come il percorso obbligato per raggiungere via Clementi, che conoscevamo come il corso dei ferrai, per le antiche botteghe artigiane che un tempo vi erano attive, e lì, scendendo i primi gradini da Piazza Umberto I, vi era una rosticceria aperta da poco e conosciuta con il nome del proprietario. Non c'era verso di sbagliarti, con quella piccola folla ad assembrarsi davanti, o distribuita nei gradini sottostanti, con del cibo in mano: dorati e gustosissimi arancini, tra i migliori mai mangiati, e tranci di pizza. Non restava che aspettare il proprio turno, in quell'incessante sfornare di teglie di pizze e un pescare arancini appena indorati dalla crosta croccante, mentre mentalmente si sceglieva cosa mangiare e bere, in piedi, e poi dedicarsi, con le chiacchiere un po' smorzate, a quella piacevole attività che aggiungeva gusto e piacere allo stare insieme.

E poi ancora uno scendere e salire per scalinate, per strade e stradine, un allontanarsi e tornare verso il centro, quasi un avvitamento e un ritmare i discorsi, ed i discorsi a loro volta ad adeguarsi ai passi e alle strade, un avvicinarsi ai primi saluti ed ai primi abbandoni e a promesse di facili nuovi incontri, e gli altri saluti a seguire, fino a quando un'ultima squadra di insonni, per vero o per finta, a volere prolungare quel giorno anche oltre i suoi limiti noti, cercava un punto possibilmente equidistante, come l'ingresso laterale della Villa comunale, di fronte al Monumento ai Caduti.

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  • (VI) GLI ULTIMI SALUTI

Ma anche per noi giungeva il momento dei saluti e le promesse di ritrovarci il giorno dopo, per rinchiudere in un'altra piccola eternità di ore, una giornata quasi perfetta. Da solo, risalivo verso il centro la via Roma, ripercorrevo il Ponte di San Francesco, dove lo stupore del tramonto non poteva certo essere sostituito dalle luci artificiali, povere parenti inadeguate a quello ma buone a creare altre atmosfere per la tua fantasia. I locali pubblici già serrati e le vetrine spente. Il cinema Italia e le sue locandine macchiate di ombre e quasi illeggibili, da distante. Il campanile del Duomo a dirmi che è molto tardi, oppure troppo presto. La scalinata tutta per me, invitante e silenziosa. Oppure il tornare a casa per vie laterali. Salire fino e trovarmi di fronte alla bella facciata del Liceo Artistico, o "la scuola di ceramica" com'è meglio conosciuto, con la torre di San Gregorio a svettare, mentre le grate panciute alle finestre dell'ex convento di cui fa parte, vuoto e un po' diroccato, formano ombre ora eleganti ora inquietanti, nel tempo in cui percorri via Ex Matrice che porta al retro della chiesa in cima alla scalinata.
Lì, l'ultima casa abitata in città, nei pressi del campanile che, negli ultimi momenti di vacanza, segnava con i suoi rintocchi le mie notti insonni e i miei pensieri irrequieti, già timorosi per i nuovi saluti.