Contenuto:

  • QUANDO COSTRINSI A FUGGIRE FRANCESCO MORINI

  • RIPARTENZE

  • L’EQUIVOCO

  • FICO!

  • ANCORA UNO SGUARDO AL MIO MINUSCOLO EDEN

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Momenti disseminati a caso in questi giorni di settembre…
In verità ero partito per parlare del campionato. Dell’Inter e della sofferenza provata a vedere la Fiorentina che la maltrattava nel primo tempo. Del goal con fallo non rilevato su Skriniar e delle parate di Handa che ci hanno salvato dal tentativo di sbriciolarci da parte dei viola. Del secondo tempo e dell’incredibile, per quanto visto nella prima parte, risultato finale, frutto di un secondo tempo di alta qualità e del marcato calo di ritmo della Fiorentina. Del Milan, che già l’anno scorso davo per credibile per lottare fino alla fine per la vittoria finale, almeno fino al derby di ritorno, e che, quest’anno, mi sembra ancora più temibile sportivamente. Dell’inarrestabile Napoli di Spalletti. Ottima squadra con ottimo allenatore, in memoria della tanta simpatia spesa per la sua divertente Roma, alla sua prima esperienza nella capitale, e del fatto che, anche all’Inter, con una squadra ben differente dall’attuale, fece tutt’altro che male. Della Roma di Mou, carissimo al popolo interista, almeno fino a quando non verrà a farci qualche scherzo poco apprezzabile. Dell’Atalanta che inizia a far girare bene i noti ingranaggi. Della Juve che, meglio se a fari spenti, riprende l’abitudine ai tre punti e che sbucherà anch’essa con il gruppo di testa. Insomma della novità più bella: abbiamo di nuovo un campionato interessante. Speriamo che duri.
Poi, invece, mi sono perso di nuovo a cazzeggiare...

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  • QUANDO COSTRINSI A FUGGIRE FRANCESCO MORINI

Bel titolo per catturare l’attenzione? No, neppure tanto esagerato, anche se un po’ (volutamente?) ambiguo.
Cominciamo con un saluto a quello stopper dai modi efficaci, anche se non sempre eleganti (tanto, per quello, lì in zona trovavi Gaetano Scirea che ne aveva da vendere a tutti) che se n’è andato altrove. Era uno dei più forti della sua epoca. L’ho visto in campo contro la mia Inter ma lo ricordo anche per un episodio che mi vide insolitamente sfacciato, per via dell’affetto per il mio nipote juventino, che allora aveva, credo, appena otto o nove anni.
Era domenica mattina. Eravamo nei giardini che oggi sono dedicati a Indro Montanelli, tra Porta Venezia e via Palestro, che allora ospitavano anche una sezione zoologica e, proprio in quelle vicinanze, passeggiando di ritorno dal settore dedicato agli animali, ci trovammo vicini, inaspettatamente, alla squadra juventina, al completo di alcuni componenti dello staff. Probabilmente erano lì a distrarsi un po’ prima di incontrare, nel primo pomeriggio, come usava allora per le partite ancora in contemporanea, la squadra rossonera.
Mio nipote li guardava affascinato e, quando avvistò il suo idolo Zoff, non molto distante, in conversazione pacatissima con Francesco Morini, decisi di chiedere un sacrificio alla mia timidezza e, guidando, mano sulla spalla, il nipote verso i due calciatori, con nell’altra mano un oggetto ridicolo, vale a dire una scatoletta spacciata per macchina fotografica, che trovavi da acquistare anche nelle edicole, e di cui non farò nome, mi approssimai ai due e, con voce falsamente sicura, chiesi se potevano lasciarsi fotografare con il bambino che era un loro tifoso.
La reazione dei due fu decisamente differente. Dopo avermi entrambi guardato, credo di poterlo definire con sicurezza, con aria un po’ schifata (e fin qua la reazione era identica), forse pensando che stavo costringendo il bambino (magari appena rapito ai veri genitori, per spacciarlo per mio nipote) a prestarsi ad una messa in scena, esibendo un carattere  tanto subdolo quanto da pusillanime, per estorcere una foto ai miei beniamini (un po’, in fondo in fondo, Zoff lo era, in effetti), Morini fece dietrofront senza esitazione ulteriore e si allontanò di buon passo, manco che quella macchina, che già faceva fatica a impressionare una pellicola, potesse rubargli l’anima per sempre, mentre Zoff, nonostante la repulsione che provava per lo schifoso insetto con la scatoletta a forma di macchina fotografica, che sorrideva con aria idiota (in realtà ero molto imbarazzato), senza una parola, mise una mano sulla spalla del mio nipotino, avvicinandolo a sé e, giuro, si sforzò di sorridere a quello che, con molta fatica e altrettanto spreco di immaginazione, si poteva definire un obbiettivo. Così come, senza mai parlare, sorrise al bambino, mi lanciò un ultimo sguardo gelido annichilente all’istante, da super portiere con i super poteri quale era (invero del tutto superfluo, in quanto avevo già speso tutte le mie energie nervose nel rompere le scatole a persone che non conoscevo e, quasi, boccheggiavo) e si allontanò.
Era una domenica di metà anni ‘70. Mio nipote conserva ancora, a distanza di parecchi lustri, quel risultato grafico non spettacolare, il cui fascino non è mai scemato, con molto affetto. Adesso, un po’ di affetto lo spendo io, qua, in memoria di quel ragazzo famoso e di una decina di anni maggiore rispetto alla mia età, che costrinsi alla fuga.

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  • RIPARTENZE

Voglia di giovinezza e d'incontrare / la vita, in questo angolo di pace. / Voglia di rigiocare i miei ricordi / cambiando, ad agio mio, destinazioni, / e magari anche i destini, in altra forma. / Minuscolo dio, con troppe imperfezioni, / misuro / la forza inconsistente del passato. *** Ho un'anima che vaga insospettata / a spiare nei minuti / qualche segno di possibilità, / mentre a manciate / mi sfuggono da dita senza forza, / da malattie impreviste, / da improvvisi inciampi, / da mancate soluzioni, / da smarriti sorrisi, / da voci che non chiamano il mio nome / da dove sono andate le persone. *** Ho passi verso casa e non ho casa / che accolga, in questo luogo, le stanchezze / accumulate, vagando tra ricordi / di vicoli che sfuggono memoria. / Ma casa mia e i miei libri / mi aspettano a Milano. / Da aprire porte mie e ritrovare / le pagine dei luoghi della vita.

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  • L’EQUIVOCO

Basta un po' di acqua perché la natura si ringalluzzisca e piante depresse di erigano vigorose dove prima giacevano inerti e in balia di qualsiasi destino. Così tutto sembra più smagliante e fiducioso del futuro. Come la coppia di merli che sta facendo colazione muovendosi agilmente tra le foglie, densamente succose e ripulite dalla polvere, del fico d'india o i passeri che usano come altalena un cespuglio di rosmarino prima di spiccare il volo.
Ho appena consumato un ottimo panzerotto alla ricotta, acquistato nell'unico posto rimasto - dopo l'infausta chiusura del bar "Iudica e Trieste" nel centro storico - dove sanno davvero cosa sia. Per farlo, scendo a piedi nella parte moderna della città, proprio all'inizio, in via ..., un baretto minuscolo con una fantastica pasticceria. Cognato e sorella mi dicono che sono viziato e che anche negli altri posti è buono. Io rimango della mia idea e, per mangiarlo, faccio volentieri qualche chilometro a piedi.
Invertendo l'ordine con cui li consumavo normalmente fino all'anno passato, per via delle disposizioni anti covid, consumo un caffè in piedi e mi porto via il panzerotto (spesso anche due), per andarlo a mangiare altrove, dove so. Rapito, dal parapetto del ponticello sulla linea ferroviaria a binario singolo, ammiro il posto di cui parlai già e che mi fa sognare un'infanzia mancata, immaginata più divertente.

Mentre me ne sto beato a rimuginare pensieri, godendomi il retrogusto della ricotta e della pasta, appena ingurgitati con dovuta e ossequiosa lentezza, una macchina si ferma ed un signore si sporge a domandarmi se va tutto bene. Solo un brevissimo attimo di spaesamento. Capisco improvvisamente e lo rassicuro più volte con convinzione, aggiungendo spontaneamente un sorriso alle mie parole. Domanda ancora per rassicurarsi e, quando riparte, mi accorgo che non l'ho ringraziato e so che questa mancanza mi peserà nel tempo. Non sono molte le persone che si fermano a pensare se gli altri hanno bisogno di sostegno in un momento di difficoltà e io ne ho incontrata una!
Un ponte. Una persona sola che guarda appoggiata al parapetto... Le altre volte avevo già la macchina fotografica a tracolla. Me ne ricorderò in futuro di metterla prima, anche se non mi serve, se aiuta a non creare fraintendimenti. Comunque, resta il fatto che quell'uomo, con il viso abbrustolito dal sole, come di chi lavora costantemente all'aria aperta, che parlava in italiano con un marcato accento dialettale di qualche paesino qua intorno, non ricordo davvero di averlo ringraziato e, se anche l’avessi fatto, non sarebbe stato comunque abbastanza, per i pensieri viranti all'ottimismo, riguardo all'umanità, che mi ha regalato. Cercherò di mantenerne vivo per un po' il retrogusto, come con il panzerotto alla ricotta, ma, purtroppo, so che svanirà troppo in fretta.

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Così, auto esiliato, mi allontano un po’ vergognoso e vago, sperando di trovare una panchina, che però non ricordo esserci, verso un boschetto di ulivi poco distante. Mi accontenterei perfino di un marciapiede pulito. Il boschetto di ulivi è stato voluto dalla precedente amministrazione che ha il merito di avere piantato questo tipo di albero, così fortemente simbolico, un po' dappertutto nella parte nuova della città. Il boschetto si trova, molto opportunamente, al confine di via Gesualdo Bufalino. Molto opportunamente perché, se il posto è bello, sostare una mezz'oretta a leggere è quasi doveroso... in una strada con quel nome.

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  • FICO!

"Tutto quello che sporge in strada è di tutti". Mi viene in mente mia madre sorridente, mentre allungo la mano e stacco dei deliziosi fichi dall'albero. Qua, chi legge potrebbe pensare che sto sempre a mangiare qualcosa in giro, more, fichi, fichi d'india... (e purtroppo nient'altro: muovendomi a piedi, il mio raggio d'azione è molto limitato). Certo, per capire dovreste già sapere che sono nato in prossimità della valle degli orti. Che ortaggi, verdura e frutta erano elementi consueti della mia alimentazione. Che, vista l'origine, erano sempre freschi. Che, negli ultimi tempi, da quando ho deciso di fare a meno della macchina, a Milano, l'unico modo di approvvigionarmi di materie prime per i miei pasti, da vegetariano per mia ormai ventennale scelta etica, sono gli scomparti dei supermercati. Così, questi sapori, immediatamente riconoscibili, mi affascinano e attraggono irresistibilmente.
Questo tipo di fichi sono inselvatichiti. Non li trovi nei cesti di vimini dove, a lato di qualche strada, un contadino offre direttamente i prodotti della sua terra e neppure, più vilmente trattati, nelle bancarelle del grande mercato all'aperto del sabato. Eppure sono dolcissimi, seppure di limitate dimensioni, e ti avvisano loro quando sono maturi al punto giusto, con uno squarcio cruciforme, quasi ad agevolare l'accesso per le vespe verso la rossa infiorescenza, in contrasto cromatico con la sottile e morbida polpa bianca che la tiene insieme e la pelle, molto più consistente, di un nero virante al violaceo.

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Ne avevo incontrato un altro, di albero simile, altrove, qualche anno addietro, nella parte più alta della città, all'imbocco di una stradina tortuosa che conduce, percorsa per una decina di chilometri senza alcuna protezione verso gli strapiombi, ad un santuario dove, in un determinato periodo, tanti arrivavano a piedi, molto spesso scalzi, per sciogliere un voto. Da piccolo fui coinvolto anch'io. Di notte, nei miei ricordi, o magari solo prima che albeggiasse. Tante persone alla luce di spessi e lunghi ceri accesi, tenuti con qualcosa, carta o straccio, che impediva che la cera fusa, imitando la lava dell'Etna, raggiungesse, colando minacciosa, le mani, ad aggiungere penitenza a penitenza.
Certo, si tagliava per scorciatoie che riconoscevi dai sentieri formatisi con l'uso, ma per quanto accorciassi la strada, la fatica era tanta e i piedi nudi, di alcuni, arrivavano martoriati da inevitabili pezzetti di legno, piccoli sassi e rigida sterpaglia. Il ritorno, forse, affrontando stanchi salite scoscese, era peggio, per cui era naturale attardarsi nello spiazzo accanto alla chiesa dove, equidistanti tra loro, edicole sospese su una loro colonna in pietre e cemento, raffiguravano i vari momenti della via Crucis.
Quanta fatica e sofferenza, aggiunta a quella già patita, per poter aspirare ad ottenere la speranza di... poter sperare. Di quanta povertà si nutre la disperazione!

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Quest'albero è più ricco e generoso. Quasi civettuolo, sporgendosi dal giardino di una casa, costeggiante ancora la linea ferroviaria, ti porge i suoi frutti e ti irretisce, stimolando la tua naturale gratitudine mentre, portando il frutto alla bocca, il profumo del bianco lattice, che fuoriesce dall'attaccatura appena ferita, raggiunge i sensori olfattivi anticipando il morso che apre la via al piacere del gusto. E, così, poi ti ritrovi a guardare speranzoso i flessibili rami, per scoprire se hanno dell'altro tesoro accessibile a te, sprovveduto di mezzi aggiuntivi.
Da bambino, ricordo che si utilizzava un ramo (per noi “u croccu”) che finiva formando ad una estremità una "v" capovolta. Lungo circa un metro, o poco più, serviva ad agganciare i rami più distanti arricchiti di uno o più frutti maturi. Il ramo veniva tirato a sé, delicatamente e senza alcuno strappo, per non spezzarlo incautamente, e avere quei frutti a portata di mano.
Qua, adesso, posso solo raggiungerne alcuni, ma va bene comunque, e guardarne desideroso gli altri, scattando qualche foto utile a futura e nostalgica memoria.

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  • ANCORA UNO SGUARDO AL MIO MINUSCOLO EDEN

Settembre ora ci avvolge di mistero sconvolgendo le abitudini del sole con nuvole pigre e svogliate, sospese e immature, irretite al vociare di un debole vento che seguono, inconsce di pioggia, al confine sottile tra caldo e tepore.
Il rosmarino si è macchiato di piccoli fiori azzurri. Gigli selvatici, sbucati durante la mia breve assenza, appena una manciata di giorni, colorano pezzi di scarpata di bianco. Le bacche degli asparagi selvatici, ancora verdi, maturano semi. I fichi d'india si sono alleggeriti del peso dei frutti ormai troppo maturi, che vedi disfarsi per terra alla loro base.
È autunno.
La lucertola ha voglia di caldo e mi spia, dubbiosa e insicura. Sbucata da una fessura, aspetta che faccia qualcosa, mostrando le mie intenzioni... E, allora... mi allontano, rendendole il suo posto al sole.