Lo so, il titolo vi ha tratto in inganno: io sono interista, ho parlato di bellezza e avete tutti pensato che mi riferissi alla mia Inter nell'attuale gestione Conte. Come biasimarvi!? Anch'io, pur non rendendomene conto subito, ho ben capito che si possa facilmente travisare.
Ok scherzo. Non è neanche un tentativo di anticipare il bilancio di un'annata calcistica facendo dell'ironia, con il rischio di farmi detestare ulteriormente dai colleghi di tifo interisti dopo aver in lungo e in largo preso posizione dicendo la mia sulla vicenda Icardi, schierandomi a favore del giocatore. A suo tempo un bilancio andrà fatto e dovrà essere il più lucido possibile, perfino un po' spietato, per capire quali sono stati i punti di forza e di debolezza ed agire apportando le giuste correzioni. Schierarci per partito preso potrebbe essere senz'altro divertente, ma lo ritengo poco utile, quindi aspettiamo prima di scatenare una faida in famiglia con largo anticipo.

Mentre scrivo sono incazzato. Anzi, ho deciso di scrivere proprio per questo: perché sono molto incazzato. Questo lo dichiaro per permettervi di fare la tara su quanto scriverò e su quanto leggerete, tra i pochi che vi accosterete a questo scritto. Ma la mia arrabbiatura non riguarda il calcio, i suoi episodi, il veleno consueto delle tifoserie contrapposte, o che altro ancora legato a quel mondo.

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Me lo sentivo...
Me lo sentivo. Sì, la sensazione ce l'avevo dentro e anche se - quando mi hanno chiesto se volevo partire per la Sicilia, così, all'improvviso, dopo le titubanze create dalle paure nate dalla gestione del coronavirus - sono corso subito a infilare nel trolley, con più o meno ordine e cura, un po' delle consuete cose che mi porto dietro, e, quasi senza rendermene conto, spegnevo gas e interruttori generali dell'elettricità, applicavo il semplice ed efficace marchingegno di mia creazione alla finestra che dà sul ballatoio, salutavo le mie piante succulente - tra cui due mini agave che arrivano dalla Sicilia, sussurrando loro che avrei portato i loro saluti alla nostra terra e di tenere duro, facendosi bastare la poca acqua dei temporali estivi milanesi, che si sarebbe infilata nell'originale terra argillosa da cui le avevo raccolte appena spuntate, due anni fa, e che, pur impedendo loro una crescita esplosiva, come quelle regalate alle mie sorelle, che avendo più spazio le hanno rinvasate adeguatamente, mantiene loro a disposizione per più tempo la poca acqua e umidità che riescono ad ottenere - e mi caricavo i pesanti bagagli per i quattro piani di scale della casa di ringhiera in cui vivo, praticamente da sempre, e il cui ascensore ha visto il suo potente motore elettrico finito morto annegato dopo una bomba d'acqua che aveva colpito Milano a metà maggio, quindici giorni prima del mio ritorno a casa dopo il lungo esilio, quasi un anno, dovuto ai problemi di salute in cui sono inopinatamente inciampato e che ho dovuto affrontare, in fretta e con un po' di drammaticità, soprattutto per chi è legato da affetto alla mia persona.
Sì, è quella sensazione derivante da una miscela di diffidenza e timore. Quella che vi rende incomprensibilmente scettici. Quella che vi fa dire "troppo bello per essere vero" e che vi fa stupire che capiti proprio a voi ma che vi fa andare avanti comunque perché le perplessità, di fronte a un amore smisurato, spariscono per dimensione in difetto, ridotte a quasi nulla dalla voglia di esserci e di sentirsi sulla pelle lo stesso Sole dell'infanzia, lungo le stesse strade, invecchiate, chi bene e chi no, ma che conservano sempre la fisionomia del passato che ti permette di riconoscerle e di farne esca per quel te stesso che hai dentro da qualche parte, finito sotto piaceri e dispiaceri accumulati nei giorni, accatastati sempre più numerosi e non sempre con lo stesso valore, affinché venga fuori a rimetterti in circolo la linfa vitale della giovinezza passata, a farti sentire ancora, come una volta, ora bambino, ora adolescente.

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Il Bar Judica & Trieste... il covid-19 e i panzerotti alla ricotta.
Non è grave, lo so. C'è di peggio e, aggiungerei, "non ditelo proprio a me!", con un eccesso di vittimismo non del tutto gratuito, ma inutile, comunque. Non è grave ma ci sono rimasto male. È stato un crollo di alcune mie sicurezze, a cui sono affezionato come Linus alla sua coperta. Una rivelazione in negativo che mi ha, in parte, spiegato, per similitudine in gravità, l'estinzione dei simpatici dinosauri: dopo alcuni giorni passati ostinatamente a cercare di  infondere un soffio vitale al vecchio computer che lascio qua, per sopperire alle mie crisi di astinenza informatiche e che ho maldestramente ferito a morte, nel tentativo di upgrade del sistema operativo, passando dal vecchio Windows 8.1 a Windows 10 (io che sono un aficionado dell'eccellente Windows 7, mi devo accontentare), attraverso l'utilizzo di una connessione precaria che si è interrotta sul più bello, sono riuscito, nel piacevole tepore mattutino, a incamminarmi - e un "finalmente!" sia aggiunto con enfasi - verso il downtown calatino. Ho esagerato? Perché pensate questo? Vero è che non è la City di Londra, ma nel suo piccolo, tra il palazzo delle Aquile, sede del municipio, la Galleria Luigi Sturzo, originariamente sede del Senato Calatino, del tardo '400, la Corte Capitaniale (recentemente Casino di conversazione o Caffè dei nobili), del '600, per  l'arte creativa di Antonuzzo Gagini e successivamente, nell'800, di Gianbattista Nicastro. Lo so che non vi basta! Ho tenuto per ultimo il pezzo forte! Quello che mi muove a commozione le papille gustative e che compensa, rendendola trascurabile, la camminata tutta in salita per raggiungerlo. Cos'è? Il Bar Judica & Trieste. Lì, dopo uno sguardo ammirato alla Scalinata di Santa Maria del Monte, sia per riprendere fiato per la lunga salita fatta che per averne da farsene togliere alla sua vista, sosto un attimo, prima di volgere lo stesso sguardo, questa volta abbondantemente illanguidito, all'ingresso di detto bar, mentre le papille gustative iniziano a fare la ola come segno di esultanza al pensiero delle frequentazioni passate e recenti. Mi ci appresso con la solita deferenza, quasi fosse vivo di suo e non a causa delle incessanti e numerose presenze, appena sminuita dalla mascherina sanitaria che indosso prima di entrare, che mi sottrae non poco del consueto piacere che provo per questo rito che mi è tanto caro, dandomi anche un'aria equivoca, a mio vedere, quasi che mi apprestassi a rapinare l'intera pasticceria esposta e fuggirmene senza pagare. Mi aspetta il primo panzerotto alla ricotta! Quello che io gusterò, ma dedicandolo mentalmente al caro amico Pippo Nostalgico Rossonero, prima di chiedere, quasi a completare il rito, il caffè, da gustare splendidamente amaro, della Brasilrecca.
È qua, inteso come preciso punto temporale, che accade l'impensabile. Il dramma per cui il cervello litiga con gli occhi, incredulo, gridando loro silenziosamente "stupidi impressionabili visionari!" (e vorrei ben vedere!), con gli occhi che rispondono con un "vecchio rimbecillito!"... È in un tempo impercettibilmente breve che mi sento invecchiare irrimediabilmente e sento che il mondo intorno a me, giustamente ammutolito dalla mia improvvisa sordità ad ogni accorato appello al buon senso e alla moderazione, perde di valore, danneggiato irrimediabilmente come lo spread tra BTp e Bund dopo una qualsiasi dichiarazione di un noto e impareggiabile statista padano.
Purtroppo, hanno ragione gli occhi (non nel senso che il mio cervello è "vecchio e rimbecillito", sia chiaro)! Dove solitamente trovavo esposti almeno 6 panzerotti alla ricotta, oltre a quelli alla crema e al cioccolato, ne vedo solo uno e mi sembra pure un po' triste e malconcio. Forse è la mia improvvisa depressione a mostrarmelo così. Farfuglio qualcosa che dovrebbe essere un consueto "Posso avere un panzerotto alla ricotta?" che devo ripetere perché neppure io ho compreso cosa hanno udito le mie orecchie al posto della richiesta da formulare. Certo, la voce non è ancora così sicura, ma il secondo tentativo va un po' meglio. La reazione è quella giusta: la pinza, nelle mani della ragazza di turno dietro al banco, mira sicura l'oggetto desiderato e così, dopo averlo avvolto nel tovagliolo, mi viene porto il prezioso alimento. Mi scuso mentalmente con Pippo Nostalgico Rossonero per la forma non perfetta, e, mentre glielo dedico, addento e assaporo. Pur facendo, la depressione che mi ha colto, la sua parte in negativo, gusto quanto meglio posso e poi, ancora con voce incerta ma più rinfrancata di prima, imploro il necessario caffè Brasilrecca per chiudere nel corretto modo il rito tanto sognato nei mesi di astinenza.

Mi rendo conto che le orecchie hanno ripreso vita e mi stupisco di non sentire il consueto brusio dell'affollato bar, tutto intorno a me, in un misto di chiacchiere in italiano, dialetto calatino, qualche dialetto dei paesi vicini e, alcune volte, anche qualche lingua straniera, a scelta fra tedesco, francese, spagnolo e inglese, a impreziosire il casino, e allegri saluti di arrivi e commiati e comunicazioni di ordini per i tavolini all'aperto, espressi appena varcata la soglia, con volume adeguato a essere compresi dai frenetici operatori dall'altra parte dell'allegro, per la varietà di bontà offerte in bella vista, banco del bar. Oddio, dovrei fare tutto da solo! Sono l'unico avventore, al momento, eppure non è prestissimo come quando vado in giro a scattare foto e, al momento giusto, tra le 7,30 e le 8,00, mi prendo una pausa apprezzando le loro creazioni e il loro caffè. Anche fuori, ai tavoli, gli avventori, normalmente numerosi, e con qualcuno che attende perfino in piedi per potersi godere la colazione in tutta tranquillità, sono pochi. Mi rendo conto che non ho dovuto aspettare pazientemente il mio turno, godendomi le chiacchiere tutt'intorno e che avevo un'unica interlocutrice a ricevere le mie offerte. L'assenza di un'adeguata quantità di panzerotti, tranquillizzante per il mio sistema nervoso, mi ha completamente messo fuori gioco le facoltà intellettive. Il covid-19 continua a fare danni!
Esco sconsolato e noto che il tratto vicino al portone del Municipio è bloccato dai lavori stradali. Mi informeranno che stanno rendendo più bello il centro riportandolo indietro di qualche decennio, pavimentandolo con pietra lavica. Torno alla base, pronto a scatenare la battaglia informatica finale e a vincerla, disattivando il firewall esterno che dà messaggi fuorvianti sull'attività della rete, facendo credere che non vi è alcun segnale, quando, invece, è attiva.

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Il diletto...
Me ne sono fatta una ragione. Siamo in tempi di covid-19 e anche le cose belle, delle nostre consuetudini, ne sono rimaste inficiate. Pensavo, tornando, di arrivare in una specie di paradiso protetto e intoccabile. Vero che non vi sono stati eventi di livello drammatico, come nella Lombardia in cui vivo, ma, anche qui, hanno subito restrizioni, vissuto paure e covato ansie. Quindi, prendo ciò che viene, con un spirito adeguato ai tempi e, mascherina in mano, ché in strada sono solo io, rifaccio il percorso verso il Bar Judica & Trieste anche oggi, domenica, pensando poi di fare un giro e, magari, se è il caso (lo è sempre), di scattare qualche foto.

Per raggiungere il centro, anziché via Judica, faccio le strette stradine laterali e i carruggi, che mi faranno sbucare giusto di fianco al bell'edificio del vecchio, ma ancora attivo per il centro storico, Ufficio Postale. Il percorso viene reso inquietante dalla presenza di quegli strani esseri pennuti e sempre in movimento che sono i piccioni. Mi inquietano perché mi guardano con quegli occhietti da psicopatico che non prende più farmaci da parecchie settimane e immagino che il luccichio della mia testa pelata sotto il sole stia loro suggerendo strane idee. Confesso qui, ora - ma subito dopo negherò quanto ho appena scritto - che leggendo "Festa Mobile" di Hemingway, quando descrive i tempi finanziariamente disastrosi della sua prima permanenza a Parigi, con la moglie, a cui ovviava in qualche modo, alla disperata anche aiutandosi in un parco, con una fionda, uccidendo piccioni da portare a casa da mangiare, non ho provato la piena indignazione che mi suscita normalmente qualsiasi violenza venga fatta nei confronti degli animali. Ecco, anche gli psicopatici sono figli di qualche mamma e, quindi, anche i piccioni avranno anche loro chi ha deposto un uovo e l'ha covato con amore psicopatico. Mi dico questo giusto per non lasciarmi andare all'istinto di estrarre la macchina fotografica e, utilizzando la cinghietta opportunamente, usarla come arma da autodifesa. Probabilmente intuiscono le mie intenzioni e non vanno oltre il girarmi intorno, lanciandomi sguardi cattivi (?),  ma non si alzano pericolosamente in volo per utilizzarmi come bersaglio.

Il panzerotto è buonissimo, come sempre. Il bar ha pochi avventori dentro e solo un po' di più ai tavoli. Chiedo il panzerotto e mi sposto all'ingresso, sia per dare maggior agio a chi sta presso il banco, sia per guardarmi intorno, come al solito, mai sufficientemente appagato di ricotta di pecora e di luoghi amati. Il gestore dell'edicola di fronte mi saluta, riconoscendo in me il tipo che andava a spulciare i libri della Feltrinelli in vendita a 9,90 € la coppia e se ne portava dietro alcuni, magari già in mio possesso in formato elettronico sull'ebook reader, ma assecondando il mio bisogno di voltare pagine di carta e di accarezzare quel supporto alle parole che ormai utilizzo sempre meno. A volte ho di questi attacchi che cerco comunque di contenere perché, se vivi in 36 metri quadri calpestabili, lo spazio è quello che è: poco. Al bar si affronta il problema dei due rigori assegnati alla Juve contro l'Atalanta. Si contesta il primo e il signore dell'edicola, che afferma che entrambi erano netti, si gira verso di me sperando sia che anch'io tenga alla Juve, come lui, sia che possa lasciarmi possedere dalla stessa affidabilità di giudizio di tifoso, per aiutarlo a perorare la sua causa. Ne ottiene indietro un sorrisino ammiccante, come a dire che per me il primo rigore per la Juve è ancora grasso che sta colando. Roba da prendere e portare a casa in silenzio, insomma.
Non formulo pareri, sapendo che l'arbitro, comunque, era deciso, ben convinto e che non vi è stato alcun richiamo dalla consolle del Var e, quindi, tra il mio giudizio di tifoso, più o meno imparziale, e quello di un buon arbitro, accetto di buon grado per buona la decisione di quest'ultimo, pur tenendomi annotate le mie perplessità per la prima volta che su un caso identico dovesse essere espresso un giudizio arbitrale difforme.

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Il delitto...
Bevuto il caffè, mi avvio per il mio giro di ricognizione, camminando con passi carezzevoli e incamminandomi verso la scalinata. Bella come sempre anche da lontano. Provo una strana sensazione nell'avvicinarmi, come se stessi per varcare una qualche soglia temporale che mi condurrà altrove. In quella casa, a tre quarti di scalinata, dove ho vissuto per qualche anno. O nell'altra dietro il campanile. Le lunghe partite a pallone, sotto il sole, e i mille ricordi ad alzarsi in volo e rivelarsi come uno stormo di uccelli disturbati da una presenza inconsueta e che poi, capito che non vi è pericolo, tornano a posarsi di nuovo. È sempre così, eppure, ogni volta, ne rimango stupito, ma sono tante le cose che mi stupiscono ancora come quando ero piccolo e parlarne prenderebbe una vita, o giù di lì.
Sono in pace con ciò che mi circonda, anzi, quasi in prossimità dell'euforia, quando inizio a salire i primi gradini. Poi, incomincio a vedere qualche bicchiere abbandonato, ai lati, con un rimasuglio di liquido giallastro. Ancora qualche gradino e vedo delle macchie, brutte e irritanti, in contrasto con la bellezza delle alzate dei gradini in mattonelle di ceramica e i bei colori delle immagini che narrano storie, prese a gruppi. Oh, no! Come fanno a essersi così rovinate le mattonelle? L'anno scorso alcune presentavano l'usura del tempo, ma è impossibile un degrado così veloce e in questa assurda quantità. Diamo pure la colpa al coronavirus, se vogliamo, ma quello, anzi, con le conseguenti disposizioni adottate, dovrebbe averle preservate, come tutto quel che è bello e salubre, abbattendo inquinamento e usura. Alcune sembrano volutamente danneggiate. Comincio a covare una prima reazione di rabbia.
Man mano che vado avanti è peggio. Macchie di qualcosa che è stato versato per terra. Birra, probabilmente. Questo, a vedere altri bicchieri di plastica abbandonati ai lati. Sempre maggiori danni da vandalismo mi si mostrano. M'incazzo come una iena, anche se le uniche iene di cui so sono quelle ridens, che non dovrebbero sembrare incazzate. Io lo sono. Ci scherzo ma lo sono. Questo sfregio alla bellezza è inaudito. Questo cercare di ucciderla è assurdo. Sono giovani: che motivo hanno di odiare la bellezza e che alternativa propongono in cambio? Perché in branco si diventa negativi e cattivi? 
Ho conosciuto giovani che frequentano i centri sociali autogestiti, tanto invisi ai benpensanti e a qualche statista padano, forse appena un gradino sotto, nella loro scala dei disvalori, a chi ha la pelle di un colore differente dalla loro. Anche quei ragazzi non si riconoscono in questa società e hanno risposto in modo dirompente ma... costruttivo: anziché distruggere la bellezza, come mi ha ferito vedere nella mia città natale, hanno preso luoghi morti, per le amministrazioni pubbliche, e li hanno fatti rivivere, creando momenti di socialità, con discussioni, concerti, corsi di musica e altro, per tutti, anche di italiano per stranieri. Perfino, con attive le mamme di tanti, per creare asili infantili alternativi per chi non ha la possibilità di poterne pagare uno comunale, altro che privato!, in tempi di precarietà estrema. Perfino io, che non ne condivido alcuni atteggiamenti tutt'altro che moderati di contestazione, ne ammiro la capacità di organizzarsi un'alternativa a ciò in cui non credono.
Uccidere la bellezza di Caltagirone, o di qualsiasi altro luogo, per chi ne è figlio, che prospettiva genera? Non  riesco a capirlo. Vorrei, tra i pochissimi che leggeranno, che qualcuno possedesse una risposta e che fosse disposto a condividerla.

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Le colpe degli innocenti...
Non ci sono innocenti. Intendo non completamente innocenti. Tutti, vivendo in una comunità, abbiamo una qualche parte di responsabilità per qualcosa di cui andare fieri o di cui vergognarci. La mia generazione ha le sue colpe. Si è persa dietro a delle utopie di libertà generale e di eguaglianza sociale, frutto di quella fantasia che pensavamo potesse andare al potere. Non ha raggiunto appieno quegli obbiettivi, anzi. Ma chi ricorda gli anni '70 solo come gli anni di piombo dimentica le cose più importanti. Le conquiste sociali enormi. L'unica colpa davvero letale è stata quella che ha fatto, e visto, trionfare chi spacciava tempi in cui non aveva più ragione d'essere il conflitto tra le classi sociali, permettendo a chi appartiene a quella ricca elitaria di affermarsi completamente e in modo incontrastato, facendo dichiarare beffardamente:  "La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi" (parole di Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del pianeta, commentando qualche anno fa l’ennesimo sgravio fiscale per i redditi più alti negli Stati Uniti).
Ad un mondo precarizzato all'estremo e reso quasi senza speranza di futuro dignitoso, non si risponde spaccando ciò che ci appartiene ma riconquistando spazi e diritti che ci sono dovuti. Anzi, vigilando che tutto quello che è ancora bene pubblico non ci venga sottratto, altrimenti è un becero arrendersi. Ma anche quelli che vedono operare uno scempio senza reagire, perché pensano che le istituzioni, Comune o Stato che sia, siano altro da noi e che ciò che è oltre i confini di casa nostra e del nostro nucleo famigliare non ci riguardi e non sia anche nostro e da tutelare, sono responsabili.

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La bellezza è invincibile, fatevene una ragione...
Frustrato, incazzato e deluso, decido di ridiscendere per le strade laterali, anziché rivedere quello sconvolgente scempio ai luoghi che amo. Passo davanti a dove ho vissuto, davanti alla chiesa il cui sagrato si trasformava in campetto di calcio, per la rabbia di don Ciccio, il sagrestano, che tentava sempre di prenderci il pallone e accoltellarlo, quasi a uccidere la nostra voglia di giocarci, e, davanti al portone, anch'esso utilizzato come porta di una delle due squadre, giacciono adesso abbandonate due bottiglie di birra.
Passo davanti al liceo artistico e ne ammiro la bella facciata e, prima di tornare a casa, scatto delle foto dal ponte San Francesco d'Assisi e quel che vedo è bello e attenua un po' di rabbia mentre, quasi capendo il mio momento, l'inebriante profumo dei fiori del pericoloso oleandro mi turba e spossa la mia rabbia, con la stessa potenza di un piacere forte da togliere il fiato.