Storie di calcio - IV stagione - II episodio

«El narcotráfico toca todo, es un pulpo. El futbol es una isla? No».

Oscar Cordoba, il portiere, è appena rimasto piantato nel terreno, con le ginocchia in avanti e il corpo totalmente all’indietro. Sembra un manichino rotto, buttato lì in un magazzino, pronto per essere smaltito. E se la storia non fosse questa, se fosse soltanto il racconto di una partita di calcio, si potrebbe dire che la sua postura ricorda quella di una persona a cui hanno appena sparato. Ma non è un’analogia che si può usare, perché questa storia finirà davvero con dei proiettili.

Oscar Cordoba è stato preso alla sprovvista dalla deviazione inaspettata di Andrès Escobar, uno dei difensori più forti e più eleganti che il calcio colombiano abbia mai visto. Il numero 2 della selezione cafetera ha messo il piede su un cross rasoterra, e la partita contro gli Stati Uniti è appena diventata un Everest, impossibile da scalare. Ma per arrivare all’epilogo dobbiamo partire da lontano e scoprire perché, nel 1994, pensare alla Colombia tra le favorite per la vittoria di un Mondiale non era un’eresia. E anche perché una squadra così quotata si è sbriciolata in questo modo, in due partite: la teorica fine gloriosa di una generazione d’oro che si trasforma in un dramma in mondovisione.

Una volta rimessi insieme tutti i pezzi del puzzle, diventerà chiaro anche il motivo che porta un bambino, vedendo suo padre in televisione, a deviare un pallone che forse avrebbe dovuto lasciare sfilare, a confidare alla mamma la paura di vedere il suo eroe ucciso. Una profezia che si sarebbe tristemente, tragicamente, avverata.

Una sola qualificazione ai Mondiali dal 1938 al 1986. La storia calcistica della Colombia era stata a lungo marginale, con un solo acuto degno di nota: il secondo posto nella Copa America del 1975. Ci era arrivata sfruttando una formula particolare, che aveva spedito l’Uruguay campione in carica direttamente in semifinale e aveva diviso le altre nove squadre in tre gironi. Ma Argentina e Brasile erano finite insieme nel Gruppo A, con il Venezuela a fare da vittima sacrificale: 26 gol subiti in 4 partite. Il Brasile si era fatto strada vincendo i due scontri diretti e presentandosi così alla semifinale contro il Perù, guidato da un giocatore sublime come Teofilo Cubillas.

La Colombia aveva approfittato di un girone morbido e aveva spazzato via l’Uruguay, costruendo la qualificazione nel match di andata a Bogotà e rendendo indolore la sconfitta di Montevideo. Sempre a Bogotà, nella finale di andata, Ponciano Castro aveva illuso il popolo colombiano, salvo dover poi fare i conti con il bruciante 2-0 subito a Lima. Il format della Coppa, a quel punto, prevedeva una gara di spareggio, da giocare in campo neutro, e non l’assegnazione della coppa al Perù alla luce del doppio confronto.

A Caracas, il 28 ottobre del 1975, era stato Hugo Sotil, el Cholo, un genio che si era guadagnato la chiamata prestigiosa del Barcellona, a risolvere la contesa e a relegare la Colombia al secondo posto.

La Federcalcio colombiana immaginava che quella Copa America potesse rappresentare lo slancio in vista dell’organizzazione del Mondiale del 1986, conquistata un anno prima, ma il Paese non era stato in grado di rispettare i dettami della Fifa e nel 1982 aveva dovuto rinunciare all’incarico. Poi, all’improvviso, erano arrivati i soldi. Una cascata di soldi.

Gli anni ottanta del calcio colombiano, sono quelli del Narco Futbol, il Nacional di Medellin è di proprietà di Pablo Escobar, uno dei maggiori trafficanti di cocaina con un patrimonio personale sconfinato. In città è acclamato come un eroe e la decisione di investire nel calcio, gli consente di riciclare enormi quantità di denaro. La squadra per cui batte il cuore di Escobar è in realtà l’altra formazione di Medellin, l’Independiente, ma la scalata non gli riesce e allora deve ripiegare sul Nacional. Pablo era come un anguria, verde fuori e rosso dentro.

Il campionato colombiano diventa il territorio prediletto dai narcotrafficanti. José Gonzalo Rodriguez Gacha è uno dei soci d’affari di Escobar e diventa proprietario dei Millonarios di Bogotà. L’America De Cali invece, è nelle mani dei fratelli Orejuela, i nemici di Escobar. L’immissione dei soldi sporchi nelle casse dei club consente la crescita di tutto il movimento. I calciatori colombiani restano in patria e il paese diventa una trazione anche per gli altri sudamericani. Il Nacional alla fine degli anni settanta, aveva ottenuto ottimi risultati in patria, merito di un allenatore dal grande curriculum, l’argentino Osvaldo Zubeldia, il maestro di Carlos Bilardo ai tempi in cui erano stati insieme all’Estudiantes De La Plata vincendo tutto.

Uno dei giocatori di spicco dell’Atletico Nacional degli anni settanta è Francisco Maturana per tutti El Pacho. Dopo aver appeso le scarpette al chiodo, viene messo a capo della Escuela de Futbol de Nacional nell’aprile del 1983. Inizia così un'era calcisticamente gloriosa per Nacional e per il paese intero.

Dopo una breve esperienza all’allora Cristal Caldas, oggi conosciuto come Once Caldas, Maturana nel 1987 torna a Medellin. Il nucleo della squadra colombiana è fortissimo ed è l’anno in cui potendo contare sulle finanze sterminate di Escobar si chiude in una sorta di autarchia, riuscendo a convincere i giocatori migliori. La squadra rappresentava la spina dorsale allenata proprio da Maturana che a quel punto si sdoppia fra club e i Cafeteros: Higuita, Escobar, Perea, Herrera, Treyes, Alvarez, Usuriaga. Tutti nel Nacional e tutti in nazionale.

L’ascesa si compie definitivamente nel 1989 dove vince la Copa Libertadores nella finale contro l'Olimpia Asuncion. Mai una squadra colombiana si era laureata campione del Sudamerica. È anche l’anno dove Escobar, fa uccidere l’arbitro Alvaro Ortega che aveva appena diretto la sfida tra Independiente de Medellin e America De Cali, lasciando Escobar non del tutto convinto delle decisioni prese in favore del club di Cali. L’Atletico sfiora anche il trionfo in Coppa Intercontinentale piegato soltanto dalla punizione di Chicco Evani contro il Milan all’ultimo secondo dei tempi supplementari al termine di una partita bloccatissima in cui Maturana aveva ingabbiato il maestro Sacchi giocando totalmente a specchio.

Anche la nazionale colombiana fa una discreta figura ad Italia 1990, destando un'ottima impressione contro la Germania e uscendo dal mondiale agli ottavi di finale sul prato del San Paolo di Napoli per una follia di Higuita, il portiere pazzo che gioca pure con i piedi e fa pure gol, ma che in quel caso si è fatto soffiare il pallone da Roger Milla, spalancando la strada al Camerun che conquista incredibilmente una storica qualificazione ai quarti di finale. Per la squadra di Maturana è un fondamentale passaggio intermedio in vista del mondiale americano del boom della generazione d’oro. L’obiettivo è fissato su USA 1994.

Pacho Maturana non è semplicemente un ex calciatore diventato allenatore, è laureato in odontoiatria, ha aperto uno studio, prima di fare il salto dal campo alla panchina. È un uomo che ama la ricerca, il lavoro e la vita. È il volto affascinante di un paese conosciuto nel mondo prevalentemente per la droga e la violenza. Dopo il mondiale del 1990, non è più alla guida della nazionale e prova fallendo le esperienze europee. Tornato in patria all’America De Cali dove vinse il campionato colombiano, Maturana ha allenato altri elementi che diventeranno cruciali per la nazionale colombiana: Rincon, Lozano e De Avila. Nel 1993, ritorna in veste di commissario tecnico e conquista un terzo posto nella Coppa America e poi affronta le qualificazioni ai mondiali del 1994, racchiuse in un periodo molto breve poco più di due mesi.

La Colombia finisce nel girone da quattro squadre con Argentina, Paraguay e Perù. Solo chi vince il girone, va direttamente negli States. Chi arriva secondo invece, deve giocare lo spareggio interzona affrontando la squadra classificata del girone dell’Oceania. Nell’altro gruppo, quello da cinque, i posti diretti in palio sono invece due, occupati da Brasile e Bolivia 

La Colombia non perde mai. Parte con un pari interlocutorio con il Paraguay, poi vince in Perù con una rete di Rincon e quindi a Barranquilla il giorno di ferragosto del 1993, batte l’Argentina con le reti di Ivan René Valenziano e del tre Valencia. Valenziano è reduce da un’annata terribile con l’Atalanta che gli costa l’etichetta di bidone, ma è bravissimo nel trovare il sinistro sul palo lontano dopo un invito di Valderrama. Anche nel raddoppio di Valencia, c’è lo zampino del numero dieci che in Colombia è semplicemente El Pibe.

È un risultato che interrompe la striscia positiva dell’Argentina che durava da trentatré partite. Quindi arriva un’altro pareggio con il Paraguay e un’altro successo con il Perù. Si arriva così al cinque settembre del 1993, la Colombia ha otto punti, l’Argentina ne ha sette, ma stavolta si gioca al Monumental di Buenos Aires e l’Albiceleste non perde in casa da sei anni. A infiammare la vigilia ci pensa Diego Armando Maradona che in quel momento non fa parte della nazionale, ma rimane il megafono del popolo argentino. 

Maturana è ormai entrato sotto la pelle dei suoi calciatori, ha trasmesso loro l’importanza del possesso palla e la voglia di stupire. Si fida dei suoi ragazzi, vuole lasciarli liberi soprattutto negli ultimi 30 metri. Al Monumental, scende in campo Faustino El Tino Asprilla, un giocatore semplicemente spettacolare, tecnico, velocissimo, apparentemente incapace di segnare gol brutti. In ogni sua giocata c’è la follia colorata e colorita del carnevale, ma anche il letale Killer Instinct del goleador.

La partita inizialmente pare anche equilibrata, ma l’Argentina è nervosa, la Colombia invece suona una cumbia lisergica, costante, regolare e alla lunga travolgente. Al primo acuto ci pensa Freddy Rincon che riceve palla davanti a Valderrama e con un fantastico controllo orientato sorprende la difesa argentina, salta Goicoechea e mette dentro a porta vuota. Il raddoppio arriva a inizio ripresa con Asprilla che mette giù un pallone impossibile come se avessi una calamita al posto del piede, una finta di corpo per preparare il destro e poi di corsa ad esultare con la tradizionale volta retta.

L’argentina è segregata in un incubo ipnotico e allora di nuovo Rincon e di nuovo Asprilla con El Tino che batte Goicoechea con un pallonetto di rara delicatezza. Segna anche Valencia, finisce 0-5. È un risultato epocale. Il pubblico argentino fischia i suoi e applaude gli avversari. Pelè arriva a dire che la Colombia è tra le favorite alla vittoria finale negli Stati Uniti.

Tra i pali colombiani c’era Oscar Cordoba e non Renè Higuita. Il motivo? Nel 1993, venne arrestato per aver fatto da mediatore in un caso di sequestro di persona al fine di favorire il rilascio delle figlie di un membro del cartello di Medellin nell’organizzazione che faceva capo a Pablo Escobar in carcere dal 1991. La prigione di Escobar non è particolarmente sofferta, l’accordo raggiunto gli è infatti consentito di realizzare una prigione nei pressi di Envigado sull’altura che domina Medellin. In cambio di cinque anni di reclusione obbligatoria, Escobar ha ottenuto sia il divieto di estradizione negli Stati Uniti, ma anche l’allontanamento della Guardia Nazionale costretta ad almeno tre chilometri dalla struttura. La costruzione è finanziata direttamente da Escobar. Nasce così la Catedral che al suo interno dispone di centro fitness, angolo bar, arredamenti di design, vasche idromassaggio, sale biliardo e ovviamente un campo da calcio. Oltre Higuita che cadrà miseramente in disgrazia, l’intera squadra della Colombia ha visitato la Cattedrale e avevano disputato una partita proprio sul campo.

Escobar venne ucciso il 2 dicembre del 1993 dal Bloque de búsqueda, una squadra speciale colombiana. È la fine del cartello di Medellin che spalanca le porte al dominio del cartello di Cali e prende il via ad una nuova fase storica della Colombia non meno sanguinosa e meno turbolenta. La speranza o forse l’illusione è che il calcio possa riscattare tutto questo che ovviamente non accadrà.

La nazionale di Maturana sente la pressione di dover rappresentare il volto buono della Colombia negli States. È un peso insostenibile. All’esordio nel mondiale, i Cafeteros si trovano davanti una Romania ben organizzata, una squadra aggrappata al talento di Gheorghe Hagi, Popescu, Belodedici, Raducioiu e Dumitrescu. Vince la Romania per 3-1 e lo fa grazie ad un gol splendido di Hagi che coglie di sorpresa Cordoba. Subito dopo, Herrera, uno dei ragazzi di Maturana, scopre che suo fratello è stato assassinato. La squadra riceve delle minacce di morte, il clima è pesantissimo. Nel mirino c’è Gabriel Gomes, motorino del centrocampo e fratello del Bolillo, il fido assistente di Maturana. Nelle TV a circuito chiuso dell’albergo dove la Colombia è in ritiro, vengono impostate delle scritte in cui il commissario tecnico viene avvertito in maniera esplicita: se Gomes dovesse giocare contro gli Stati Uniti verrebbe ucciso.

La Colombia inizia il match dominando, ma su quella nazionale pende una mano negra. Agli Stati Uniti, padroni di casa del mondiale, basta un cross per passare in vantaggio. Andrés Escobar uno dei giocatori più rappresentativi di quella nazionale, in procinto di passare al grande Milan in Italia, mette un piede dove non dovrebbe, è l’autorete che lancia gli Stati Uniti che vincono per 2-1. La Colombia che era una delle favorite, si è sgretolata ed è già eliminata. Il 2-0 alla Svizzera non serve a nulla. 

I giocatori eroi del Monumental, adesso hanno paura di mettere i piedi in patria. Sono bastate due partite giocate per altro con questa cappa di ansia e minacce sopra la testa per cancellare un percorso di sette anni. Molti giocatori restano in vacanza negli Stati Uniti, altri in giro per il mondo, non Andrés Escobar che ci mette la faccia. Costui firma un lungo articolo sul quotidiano El Tiempo in cui cerca di spiegare cosa non ha funzionato, di difendere i risultati ottenuti fin lì e la crescita del calcio colombiano. È un articolo che diventerà il suo testamento, visto che si chiude con questa frase:
"Hasta pronto, porque la vida no termina aquí."

Sarà un tragico errore di valutazione. Pacho Maturana gli dice di non farsi vedere in giro, perché in Colombia i conflitti non si risolvono con due schiaffoni, ma con due proiettili. Andrès però sente di non aver fatto nulla di male e continua a vivere la sua vita, per poco.
Il primo luglio del 1994, telefona Herrera, gli chiede se ha voglia di uscire, ma lui non ci pensa neanche. Escobar esce comunque, gira un paio di bar, quindi arriva alla discoteca Padova. La ricostruzione di quell’omicidio avvenuto nella notte è nebulosa, il calciatore viene beccato dai fratelli Gaion che hanno militato per anni nei Los Pepes arcirivali di Pablo Escobar e nella discussione viene fuori l’autorete. La mezzanotte è passata, è il 2 luglio 1994, ed è la data che resterà sulla lapide di Andrés Escobar. Viene ucciso da una guardia del corpo dei fratelli Gaion che dirà di aver agito da solo senza ordini da parte dei suoi superiori. Lo condannano a 45 anni, ne sconta undici, uscendo per buona condotta.

Espn gli dedica uno splendido documentario e Pacho Maturana pronuncia una frase che è la descrizione perfetta di questa storia:
"La nostra società pensa che il calcio abbia ucciso Andrés. Non è così. Andrés era un calciatore che è stato ucciso dalla società."

Quella fotografia ha fatto il giro del mondo dove raffigurava Escobar con i piedi rivolti verso la porta, ha la testa sollevata che sembra un finale già scritto, ha le braccia larghe e i piedi sembrano incrociati. Insomma, era un crocifisso staccato e adagiato sull’erba.

Come cantava Battisti in Mi ritorni in mente:
"Ricordo, sono morto in un momento."

Un abbraccio Pasqui