Non è semplice essere allenatore. Perché non è andare agli allenamenti e guidare la squadra a tutte le partite, ma è molto di più. Perché c’è differenza nel preparare gli allenamenti per la partita che si deve affrontare piuttosto che fare sempre lo stesso tipo di allenamenti; c’è differenza nel guidare la squadra durante le partite, rimproverando i giocatori e applaudendoli quando vanno in gol, piuttosto che fare sempre un discorso nello spogliatoio prima e dopo il match, un discorso che riesca sempre ad essere fomentante per i giocatori e diverso per non cadere nella monotonia, rimproverandoli dopo un’azione sbagliata o un gol preso e continuare a spronarli anche dopo averlo fatto, incitandoli a continuare e rimanere con i piedi per terra. C’è differenza in tutto questo e lo sa bene Paulo Fonseca, uno che di calcio ci capisce eccome.

Nasce a Mozambico nel 5 marzo del 1973 e sin da piccolo ha due passioni: una per il pallone, l’altro per una lavagnetta dove scriverci le tattiche. Si perché Paulo si allenava regolarmente e giocava come difensore centrale, ma il fatto era un altro. Quando non era impegnato con gli allenamenti o nel fare le partite, passava il suo tempo con ragazzi che non si allenavano. Ragazzi di strada che non avevano la possibilità o che giocavano senza impegno, liberi per le vie portoghesi.

Proprio qui voglio aprire una parentesi. Giocare per le strade, a battimuro, a tedesca o nei normali 3vs3 o 5vs5, sono quelli che hanno fatto diventare grandi tanti giocatori. Perché prima non si aveva la possibilità di oggi. Adesso apri YouTube, digiti “skills Ronaldo” e cerchi di impararle e imitarle in partita. Prima no, prima dovevi inventartele e le ossa te le facevi così. Ma non lo dico io, lo ha detto Franceso Totti, un altro che di pallone ci capisce.

Continuando il discorso di poco fa, Fonseca passava da questi ragazzi con un gesso e tanta voglia di spiegare le sue idee. Si metteva in cerchio, radunava i giovani e disegnava per terra il suo stile di gioco, con il suo modulo ideale e come secondo lui, i giocatori dovevano mettersi sul campo. Tutto questo a 12 anni. E qui, ricollegandomi alla parentesi di poche righe fa, ritorna il discorso del farsi le ossa sul campo di cemento. C’è differenza tra ieri e oggi. Oggi accendiamo la playstation, giochiamo a FIFA e testiamo le nostre idee con tattiche e quant’altro; oppure con Football Manager, il miglior simulatore di calcio professionale, usato anche da diversi allenatori e talent scout (Roberto Firmino è stato scoperto da lì per esempio). Ieri, invece, i giocatori si allenavano con il pallone. Paulo, invece, con un gesso e tanta voglia di narrare il suo stile di gioco. Idee che di lì a trent’anni, avrebbero calpestato scenari europei.

Ed inizia un percorso che tutti si sarebbero aspettati tranne lui. Tutti erano convinti che avrebbe fatto l’allenatore e che avrebbe avuto successo. Perché quando da un’età del genere vai dal tuo mister e, oltre che allenarti, chiedi il motivo per cui disponeva i propri giocatori in campo in quel modo, il motivo di quella scelta tattica, il motivo per cui aveva preferito quel modulo invece di un altro, il tutto annotandolo su un suo taccuino, non si poteva rimanere sorpresi se poi, un giorno, avesse raggiunto livelli di un certo tipo.

Paulo è sempre stato carismatico, trascinatore e motivatore. Un motivo in più per cui ogni squadra gli affidava la fascia da capitano. Ma a questi aggettivi qualitativi aggiungerei intelligente. Con una mente così aperta, piena di idee e ricca di scelte da adoperare in qualsiasi situazione, l’ha portato a calpestare terreni importanti e scrivere pagine indelebili. Come nel Paços de Ferreira, una squadra da sempre abituata a lottare per la salvezza o poco più, con Fonseca raggiunse i preliminari di Champion’s, un traguardo storico mai agguantato prima. Per un avvenimento del genere il Presidente ha dovuto rinnovare lo stadio e ampliarlo. I giocatori, i dirigenti, lo staff e i tifosi, hanno voluto attribuire un nome speciale per un settore dello stadio e chiamarlo Balconata Paulo Fonseca perché se si è dovuti procedere nella ristrutturazione del complesso è solo grazie a lui. Ribadisco l’intelligenza di Paulo e riprendo il discorso fatto ad inizio articolo: essere allenatori non è semplice, perché c’è differenza nel preparare gli allenamenti per la partita che si deve affrontare rispetto piuttosto che fare sempre lo stesso tipo di allenamenti. Esattamente, e voglio sottolineare, per la partita che si deve affrontare; perché il buon Paulo aveva preparato un allenamento speciale in vista di un match rinviato per una fitta nebbia. Bisognava giocare solo quindici minuti e lui preparò l’allenamento solo per quei quindici minuti. Una partita inchiodata sullo 0-0. Poi arriva l’intelligenza, arriva la giocata che si era inventato, quella che gli avversari non si aspettano: il portiere rinvia, stop perfetto dell’ala sinistra, cross in mezzo e arriva il gol. 1-0 e partita vinta.  

Abilità, astuzia, ingegno, tutte caratteristiche che lo portano ad allenare squadre importanti in Portogallo. L’unica nota un po’ più dolente arriva con il Porto, dove non riesce a trasmettere le sue idee ai giocatori per questo conclude la sua avventura anzitempo, ma portando a casa una supercoppa di lega. Qualche anno dopo giunge allo Shakhtar Donetsk, vincendo tutto quello che si poteva vincere in terra Ucraina. Affrontò anche la Roma di Eusebio Di Francesco, un segno della squadra capitolina rimastogli nel cuore.

Bel gioco, calcio propositivo, pressing, difesa alta: tutto concilia con l’ego del portoghese. Ma essere grandi allenatori significa essere flessibili e avere una mentalità aperta ai cambiamenti. In quella notte delle grandi orecchie, Paulo uscì contro la Roma, ma rimase colpito dal pubblico, dai giocatori e da una piazza che non vinceva da tanto tempo. Gli piaceva e avrebbe gradito un giorno un’esperienza diversa.

Un’esperienza che gli viene concessa due anni dopo qui a Roma, perché tutti si sono accorti dell’abilità di questo allenatore. Perché non sarà un Guardiola, ma è giovane e ha un carisma che supera quello degli altri. Crede nei giocatori che ha, vuole un rapporto diretto. Con la maggior parte dei giocatori acquistati dalla Roma ci ha parlato lui, perché li ha sempre voluti far sentire parte di un progetto. Il progetto di vincere, quello che a Roma sembra essere una leggenda. Kolarov e Dzeko, i due senatori, sono rimasti per la convinzione di Fonseca, per poi rimanere affascinati dalle sue idee, incantati dalla maestria di saper adattarsi alle situazioni. E quale peggiore situazione di adesso non poteva metterlo alla prova. Basti pensare ai numerosi infortuni che hanno colpito la squadra e un undici titolare ideale mai schierato. Fonseca si è saputo adattare, ha saputo ibridare un calcio propositivo ad un calcio situazionista, da una difesa che fa l’attacco, come sta accadendo da queste ultime partite e ha saputo far credere in loro stessi i giocatori, cosa che lui ha sempre fatto ma loro un po’ meno.

Ha scoperto Mancini come un regista perfetto, facendogli fare tre partite da centrocampista e fargli scalare di posizione quando arrivano i contropiedi avversari; ha rigenerato un Pastore, facendogli fare ritorno al futuro versione Palermo, perché a Roma è sempre stato pervaso da infortuni e brutte prestazioni; ha affidato a Cristante le chiavi del centrocampo, facendolo diventare il giocatore che ruba più palloni e corre di più. E non dimentichiamoci che nasce trequartista e l’ha scoperto regista davanti alla difesa. Ora è alle prese con un brutto infortunio; ha fatto adattare immediatamente Smalling ad un calcio che non gli appartiene, facendogli segnare il primo gol ieri sera;

Fonseca è intelligente, è astuto e sa adattarsi ad ogni squadra che va. Il paradosso è che ieri, in inferiorità numerica, è riuscito a vincere in un campo ostico come quello di Udine per 0-4, facendo fare bel gioco alla squadra giallorossa. Per questo parlo di abilità, per questo descrivo Fonseca come un allenatore abile, bravo a scoprire ruoli che nemmeno i giocatori sapevano di interpretare.

13 partite, 6 vittorie, 6 pareggi e 1 sconfitta; quarto in campionato e primo nel girone di Europa League, con una squadra ridotta all’osso e super adattata.

Geniale anche fuori, quando in un’intervista si mascherò da Zorro per una scommessa fatta con un team manager Vitaly Khlivnyuk che, nel caso lo Shakhtar fosse passato alle fasi eliminatorie dalla Champion’s League, lui si sarebbe mascherato. Ora però, la Rosita di Fonseca è la Roma, e possiamo dire che se l’è presa a mani basse.