Nel maggio del 1985 l’allora Segretario generale del Partito Comunista Sovietico Michail Gorbacev utilizzò, a San Pietroburgo (Leningrado dal 1924 al 1991), per la prima volta in un discorso politico, il verbo ricostruire, il cui sostantivo ricostruzione è tradotto in russo con il termine perestrojka, parola che in Italia identifica la fine dell’Unione Sovietica e del suo regime comunista.
I cittadini dell’est Europa reclamavano con insistenza ormai da tempo la stessa libertà di quelli dell’ovest, già nel 1980, in Polonia, era nato Solidarnosc, movimento guidato da Lech Walesa (premio Nobel per la pace nel 1983), un’organizzazione cattolica e anticomunista in opposizione al governo centrale, la cui creazione si rilevò un evento fondamentale nella storia polacca e non solo, dando di fatto inizio al processo di cambiamento dell'intero blocco comunista europeo.

In Italia erano gli anni del Pentapartito, quelli di Bettino Craxi Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana, quelli della Milano da bere. Un decennio, quello degli '80, caratterizzato dalla percezione di benessere diffuso, nel quale prima i Paninari vestiti Moncler, Best Company, El Charro, Armani e Timberland, e poi gli Yuppies con i mocassini griffati Tod’s ai piedi, l’orologio sul polsino alla Gianni Agnelli e la rivista di economia e finanza Capital sulla scrivania, fecero moda in tutto il bel paese.

Nel 1990, quando ancora non avevamo il sospetto che un’indagine giudiziaria chiamata Tangentopoli avrebbe spazzato via un’intera classe politica e tutto ciò che di buono e meno buono essa aveva creato, la commedia cinematografica Occhio alla Perestrojka, diretta dalla coppia Castellano e Pipolo, con protagonisti Jerry Calà, Ezio Greggio e Guido Nicheli detto Dogui, raccontò in maniera leggera e romanzesca aspetti del cambiamento della ricostruzione voluta da Gorbacev, tra i quali l’apertura delle frontiere nell’est Europa e l’interpretazione italiana del latin lover nella terra della steppa.
Cosa ci ha lasciato quella perestrojka richiesta a gran voce da tutta la mescolanza delle 15 federazioni messe sotto la stessa bandiera rossa adornata dal giallo di falce e martello nel 1922, poi tornate ai confini originari nel 1991?
Parte della risposta forse la possiamo trovare in quel film del 1990, quando ancora il processo di cambiamento, di ricostruzione, non era ancora arrivato al termine, quando i due registi italiani, senza poterlo immaginare, scrissero e diressero una storia per certi versi ancora attuale, che mai si è modificata in questi trent’anni.

Le ex Repubbliche Socialiste Sovietiche sono oggi sicuramente indipendenti, ma NON tutte più libere e ricche di quanto lo fossero prima della ricostruzione. In Bielorussia, per esempio, sotto alcuni aspetti è come se nulla fosse cambiato, la gente è prigioniera di un’economia povera, di salari bassi che le garantiscono la sopravvivenza e niente più, e di un ex militare sovietico (Aleksandr Grigor'evič Lukašenko) poco democratico a capo dello Stato. L’Ucraina è invece, tra quelli ex sovietici, il Paese che forse esporta più lavoratrici. Figlie, madri e mogli che espatriano per dare un futuro migliore ai loro fratelli, figli e mariti. Donne che lavorano duramente come cameriere, badanti e collaboratrici domestiche in tutti i Paesi dell’Unione Europea per sfuggire ad un’economia povera e agli stipendi da sussistenza che riceverebbero a Kiev e nelle altre città ucraine. Povere belle donne innamorate d’amore e della vita, le ragazze dell’est cantava Claudio Baglioni nel 1981 ricordando, tra note malinconiche, un viaggio di lavoro fatto qualche anno prima in Polonia.

Gli uomini italiani in tutto questo? Continuano a comportarsi come i protagonisti di Occhio alla perestrojka, a fare i latin lover, a giocare con l’amore, a vivere per l’amore, a farsi a volte fregare dall’amore.
La perestrojka, trent’anni dopo, è ancora tutta da (ri)costruire.