"Stamattina non "carburo", sarà il tempo brutto, bisogna che accorci il mio solito giro" - è ciò che ho pensato, quasi per giustificarmi, circa un mese fa. La mia consueta passeggiata a passo svelto di ogni mattina stava, perciò, giungendo al termine. "Passerò da Piazza della Libertà (nel 1930 la titolazione venne cambiata in piazza Costanzo Ciano, ammiraglio del regime; di nuovo nel 1944 il nome venne trasformato in piazza Muti, per ottenere, solo nel 1945, la denominazione attuale), così rientrerò prima a casa" - è stato il mio ultimo intercalare, quando, di colpo, mi sono pietrificato.
Una volta giunto sotto i portici, mi stavo indirizzando in una nota pasticceria, per il consueto ultimo caffè della giornata, quando, girando appena la testa per il richiamo visivo di una figura, mi sono inchiodato di colpo.
"Sali Ginni, non aver paura dai, vedrai che panorama da sopra questo ciliegio". Marco della Stella (in campagna si usano molto i soprannomi, oppure si identificano i ragazzi con "l'appartenenza della madre") era appena più grande di me e la vita di campagna la conosceva a mena dito. Avrò avuto poco meno di quattordici anni e, da circa una decina, passavo le vacanze scolastiche (da giugno a settembre) in una casetta che i miei presero a due lire a una manciata di chilometri da Firenze, circondata da famiglie contadine, animali, anche allo stato brado, e da tanta terra da coltivare. 
Il mio niente era tutto. Per tutti.
Tanti gli amici, più o meno grandi, che durante il giorno riempivano la mia meravigliosa adolescenza.
"Come faccio a salire? Non è che si spezza?" - risposi impaurito.
"Gnamo (è da lì che ho imparato questa forma colloquiale dell'imperativo andiamo) Sindaco (venivo chiamato così perché arrivavo dalla città...) ti insegno io: metti la gamba destra su quel ramo, abbraccia quell'altro e datti una bella spinta. Occhio però ai pantaloni: tu rischi di "strappalli" [cit. dialettale: strapparli] o di "cacatti" [cit. dialettale: fartela sotto] addosso!".
Una risata ci avvolse; lo spettacolo della valle, la nostra Valle, da lassù in cima era impareggiabile. Rivedo ancora l'immensa distesa di alberi che ci consentivano di fare merenda, a qualsiasi ora, cogliendo il frutto, più o meno maturo (poco importava...), dai rami.

Avevo ancora il fiatone quando, con lo sguardo fisso, ho riconosciuto un volto familiare. 
"Che cazzo guardi?" - detto malamente apostrofato. Se ci fosse stata mia moglie, mi avrebbe già rimproverato, tirandomi per la tuta, con la cupa intimidazione di lasciar perdere. "Mi scusi, niente, ero sovrappensiero" - ho balbettato indugiando sul da farsi. Pochi passi, ma non riuscivo ad andarmene. Mi sono messo dietro la "cantonata", nella parte estrema nord-occidentale dello slargo, dove ero certo di osservare ma di non essere veduto.

"Va bene se oggi si va sull'aia a fare il nostro Fiorentina - Juventus? Facciamo le squadre: i Bonzi (due fratelli un po' sempliciotti, diciamo così, da noi soprannominati in maniera goliardica ma innocuamente rispettosa) da una parte; Tiziano con te; Simone Pietro e Matteo sparigliati; Lorenzo in porta perché non ci capisce una sega; Francesco chi lo piglia?". 
Giocavamo due ore di fila. Il volto paonazzo di alcuni, invece di farlo sembrare il classico impeto di ira impotente e congestionato degli adulti, era molto più simile a montagne illuminate, grappoli d'uva, fiori di magnolia, onde marine che, a ripensarci adesso, mi fanno esclamare: "Cosa non darei per...".
"Scusa Marco, visto la tua strisciata gobbaggine di una gobba assolutamente gobbaccia, chi saresti? " - sapendo già che la sua risposta sarebbe rimbombata fino a Citerna -. 
"Bettegaaaa, naturalmente. O "viemmi" [cit. dialettale: vienimi] a prendere, se ce la fai, fiorentino di stopardi... [cit. dialettale: volgo parti intime]".
Finiva sempre a botte da orbi, a pane e prosciutto, a un abbraccio finale e, a talmente tanta polvere addosso che, le nostre mamme, la sera sotto la sistola, usavano il bruschino.
Ogni tanto ci ripenso.
Il problema più grande era scegliere a che gioco giocare, dopo l'immancabile pallone. A quando si era tutti amici, senza odi e rancori. Quando per fare pace bastava un "via, ora abbozziamola" [cit dialettale: finiamola]. Quando era tutto più semplice. E allora mi rendo conto che le ginocchia sbucciate, non facevano poi così male.
Eravamo uniti. Tanto. Sempre di più.
Forse perché tanto giovani e lo specchio della vita non aveva ancora riflesso la nostra immagine.

Un amico è colui col quale possiamo stare in silenzio, perché egli conosce cosa pensi e di che cosa hai bisogno; è colui che ti dice sempre la verità anche quando non è piacevole; corregge i tuoi difetti, ma apprezza e riconosce i tuo pregi. Gioisce con te e per te, ma è pronto ad ascoltarti e sorreggerti quando sei disperato. In pubblico, è colui che prende sempre le tue difese e vede in te il lato migliore, ma in privato, a quattr'occhi, non esita a mostrarti dove hai sbagliato e a darti consigli disinteressati. Un amico rischia con te, soffre per il tuo dolore come se fosse il suo. Un amico, lo guardi negli occhi e sai che di lui ti puoi fidare. Con un amico litighi, non lo vedi per un po', ma sai che esiste e che è pronto a fare la pace. In pratica, un amico è come un regalo che si fa a noi stessi. Shakespeare affermava che "Quegli amici che hai, la cui amicizia hai messo alla prova, aggrappali alla tua anima con uncini di acciaio".
Eppure, nonostante tutto, il viottolo [cit. dialettale: sentiero impervio], poi, prese il suo corso e, qualche anno dopo il servizio di leva, ci perdemmo di vista; quel gruppo di case furono tutte vendute e gli affittuari dispersi. 
Solo ora mi rendo conto cosa significhi essere invisibili...

A circa una decina di metri c'era un signore sporco, molto sporco, con intorno una marea di sacchetti neri dell'immondizia e qualcuno giallo di un noto supermercato. Erano colmi di ogni dove: alimenti, spazzatura, rimasugli, vecchi indumenti; al centro della scena un uomo sofferente, con la barba incolta, maleodorante con stracci al posto di vestiti. Aveva accanto a sé un bastone, un bel bastone.
"Oggi Ginni si va ni' bosco a cercare funghi; vedrai sarà bellissimo. Quando s'arriva a metà strada, prima di salire in vetta, ci si ferma in un posto, vicino al recinto dei maiali, dove c'è un canneto. Ti insegno a fare i' bastone: ci servirà per salire, per ruzzolare in terra e... per le serpi. Una bacchettata ni' capo e via". 
Non gli risposi, solo adesso dopo quarant'anni lo ricordo, perché non volevo che pensasse che avessi paura di una biscia di campagna.
"Benissimo" - urlai spavaldo - "mi metto gli stivali e si parte".
Trovammo appena due porcini, o presunti tali, tanto da farmi esclamare: "Saranno velenosi Marco?", con la risposta "a pronta presa", come si dice in campagna, sempre tra lo scherzoso e lo sprezzante: "Non gli mangiare, u' tu n'abbia a morire; quando farò i'rutto tu t'accorgerai se gli eran boni!". Sulla stadera, al ritorno, pesammo quasi quindici chili di more; l'ultimo barattolino di marmellata lo finimmo a ridosso del Natale.
Penso di amare così tanto i bastoni perché mi ricordano un periodo bellissimo. Anche quest'anno, in montagna, mia moglie me ne ha regalato un altro...
Non so se ho riconosciuto prima lui o l'immancabile attrezzo di legno che aveva accanto: era Marco!
Non volevo crederci; non potevo e dovevo crederci: era impossibile! Stava cominciando a piovere e, inebetito, mi sono avvicinato. L'acqua e il vento aumentavano di intensità e, più mi dirigevo verso di lui, e più mi accorgevo che mi stavo inzuppando. Anche lui si stava bagnando, inerme. 
"Marco!" - ho a malapena sibilato.
"Ma cosa vuoi? Non ti avevo detto di non rompere?" - mi ha risposto senza guardarmi.
Eravamo a poco più di un metro, fradici come quando, quasi mezzo secolo prima, di ritorno dal viaio [cit. dialettale: enorme muratura per lavare i panni], ci "ammezzammo" [cit. dialettale: essere zuppi di acqua] talmente tanto di aver paura di "buscanne" [cit. dialettale: grave rimprovero con sculacciata] una volta giunti a casa.
"Perché ti sei ridotto così?" - ho indugiato. Mi sentivo come Mike Vronsky (Robert De Niro), nel film del 1978 "Il Cacciatore" di Michael Cimino, mentre cerca di salvare, da morte certa dalla roulette russa, l'amico fraterno Nick Chevatorevich (magistralmente interpretato da Christopher Walken).
"Si sta sbagliando, se non si leva dai coglioni...".
"Ok, mi scusi". Ho capito che non potevo andare oltre.
Maldestramente, ho fatto cadere una banconota e mi sono allontanato. Giunto all'incrocio con il Parterre mi sono voltato una ultima volta: era sparito con tutti i suoi "bagagli". Il bastone, in bella vista, è rimasto appoggiato alla colonna portante...

Esiste una parola così abusata come felicità? Sfuggente e al tempo stesso ovvia; così evidente non sapendo precisamente cosa sia e, quindi, neanche dove trovarla. Prendiamo, idealmente, un bel foglio per la brutta copia (si usa ancora?) e cominciamo a buttare giù, parola per parola, tutto quello che riusciamo ad associare all'idea di felicità: immagini, situazioni, momenti particolari, emozioni, persone, ricordi, sogni. Tutto. 
Alla fine di questo, ognuno avrà davanti un quadro variegato della idea personale di felicità. 
La banalità, così come il male, è porsi la seconda e più difficile domanda: "Esiste davvero?".
Credo che nessuno al quesito: "Vuoi essere triste o felice?", risponderebbe: "Triste". Eppure, all'interrogativo: “Sei felice?”, esitiamo sempre a rispondere e, se costretti, spesso ci affidiamo a un diplomatico: "Sì, dai, abbastanza”. Sappiamo poco di quel che significa essere tristi e ancora meno di quel che significa essere felici. 
Tutto l'universo è lacerato dalle vicissitudini di un ordine labile che sorge dal caso, che si genera e si disintegra continuamente, senza scopo, nello spazio e nel tempo infiniti. Il saggio è colui che sa sottrarsi a tale gioco alterno di creazione e di distruzione; che, di fronte ad esso, mantiene ed ostenta la propria costanza di imperturbabile serenità.

Ma torniamo al punto di partenza.
Dove possiamo trovare la felicità? Ognuno deve cercare le proprie risposte. Per un attimo, tuttavia, dovremmo osservare meglio la realtà che ci circonda. Guardandoci intorno, infatti, possiamo cogliere più facilmente l'infelicità delle persone: gli sguardi bassi sul tram, le teste tra le mani, la stanchezza. È impossibile non chiedersi il senso di tutto questo. La vita adulta non fa che acuire questo disagio, illustra i rischi dell'esistenza umana e rinvia agli atteggiamenti, non ulteriormente motivabili, che individui e culture assumono dinanzi al mondo.
Ma a cosa siamo disposti per un briciolo di felicità? Siamo veramente propensi a fermarci per dare "un'occhiata" in giro per vedere se questa bramosia ingolosisce anche gli altri?
La felicità è una scelta, una strada da percorrere: non è il contrario della tristezza, quanto la consapevolezza della fragilità che abita in ognuno e la capacità di amarla come il bene più prezioso. Uno dei film che affronta questo problema è "Into the wild", che racconta la vera storia di Christopher McCandless, un ragazzo che appena dopo la laurea intraprese un viaggio in solitario nelle lande desolate dell'Alaska dove trovò la morte accidentalmente. Anche lui era in cerca della felicità, al punto di lasciarci, nei suoi diari, alcune riflessioni veramente interessanti.

L'uomo si è ormai deciso a barattare un po' di felicità per un po' di sicurezza, gingillandosi, oserei dire trastullandosi, nel suo minuscolo mondo. Eppure, nonostante tutto, non si è ancora riusciti bene a comprende cosa sia la felicità. Facciamo fatica a raggiungerla, abbiamo sempre in mente questa continua corsa per arrivarci, mentre è solo un punto di partenza. 
Il fatto più grave è poi riuscire a "pesarla": pensiamo che qualsiasi cosa d'importante possa farci felici. O far felici gli altri? Cerchiamo sempre di limitarci, di condurre un lieto vivere, comodo e sorridente.
Dio ci ha donato la vita; forse ha inventato la morte per farcela perdonare, ma non lo sappiamo né tantomeno dirlo. Il fatto è che noi viviamo di esperienze, e dobbiamo quindi sperimentarle, come è giusto che sia. Detto così sembra molto facile. No, talvolta la felicità non è facile da vedere, va saputa riconoscere. Quando sembra lì, con te, sembra di averla afferrata, ma scivola via rapida, in silenzio, sfugge, proprio come una saponetta sotto la doccia. Eppure la puoi stringere talmente forte da non fartela scappare. Solo così capisci che è fatta di piccole cose, diventa un obbligo imperativo cercare di viverla intensamente. 

Quando in campagna sentivo dire "una calda e una fredda" non riuscivo a capire; eppure era l'espressione di persone che, il più delle volte non sapevano scrivere, figuriamoci leggere. Illetterati che però avevano una base inspiegabile, insperata ed è per questo che ho imparato molto da loro, non accorgendomene allora ma rivendicandolo adesso. 
La paura e la gioia, il rifiuto e l'accettazione, l'insensibilità e l'anestesia della mente. Non volendo, aveva ragione Elio, vecchio mezzadro analfabeta: "Bisognerebbe nascere prima adulti e poi bambini". 

Non so, a distanza di giorni, anche a causa di altri problemi, se mi ha più colpito vedere Marco, oppure scorgere il tempo trascorso non prendendo coscienza di quanto quella gioia e spensieratezza non potesse essere coltivata per sempre. Ho la fondatezza che troppo presto e troppo in fretta ho mirato verso un futuro, se non migliore, sicuramente diverso. 
"Bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano: non ti rallegra lo spettacolo dell'altrui rovina, ma la distanza da una simile sorte".
Tutto, come una leggera carezza, svanisce; in attesa, nella nostra personale sala d'aspetto, ad ascoltare, in lontananza, il rumore del treno sui binari della felicità. 
Non lo vogliamo perdere. 
Non lo possiamo perdere.
In fondo meglio bruciare che spegnersi lentamente...