Sono passate ormai diverse ore dal fischio finale di Turpin che, in quel di Torino, decretava di fatto l’uscita della Juventus dalla Champions League. Un momento amaro per Cristiano Ronaldo e compagni, privati della gioia di poter continuare un sogno con le unghie e con i denti; l’obiettivo calcistico più importante potrà invece essere coronato dall’Ajax di Ten Hag, quella macchina perfetta in grado di unire umiltà e spettacolo, per dare vita a quel calcio totale trasmesso di generazione in generazione. Non me ne vogliano gli amici juventini, ma questi quarti di finale si sono conclusi nel miglior modo possibile, non perché è uscito il fenomeno portoghese, ma per il semplice fatto che ha vinto una squadra capace di giocare a viso aperto, senza gestire inutili vantaggi con il minimo sforzo. Lo dice la storia, e anche Allegri a fine partita sembra aver capito il messaggio, quando davanti alle telecamere, come è giusto fare in quelle occasioni, ha affermato che effettivamente l’Ajax dei ragazzini ha meritato di passare il turno per la capacità di rischiare e di non mollare di un centimetro in ogni contrasto.

A dire il vero, il tempo necessario per analizzare a fondo il tracollo della Juventus si è sgretolato in un battito di ciglia, anche perché dopo neanche 48 ore a decretare l’ennesimo fallimento è stato il Napoli di Carlo Ancelotti, squadra che all’inizio della stagione veniva considerata quasi alla pari dei bianconeri. Questa volta, però, la realtà è diversa, perché a contendere il pass per le semifinali di Europa League si trovava l’Arsenal di Emery, team ricco di storia e animato da una voglia immensa di vittoria, dato che negli ultimi anni i Gunners hanno sofferto e non poco in Premier League, per non dire in Europa. Se la Juventus ad Amsterdam è riuscita quantomeno ad ottenere un pari generoso, peggio hanno fatto i partenopei, travolti in neanche mezz’ora da un 2-0 micidiale, caratterizzato da una foga agonistica illustre e da azioni spaziali, per usare un termine scientifico. Poi, dopo sette giorni, tutta la città di Napoli si aspettava l’impresa impossibile e al momento di mostrare gli artigli non solo i ragazzi di Ancelotti non riescono a segnare, ma perdono anche per una punizione chirurgica di Lacazette. Cominciano i fischi assordanti e la consapevolezza di aver buttato via un’altra stagione, il tutto mentre l’ex Sarri, alla guida del Chelsea, proseguirà la sua avventura in Europa per alzare il primo trofeo da allenatore.

Finiscono i match e si aprono le docce. Tempo di riflessioni, pensieri gettati dal momento e soprattutto programmi futuri, per cercare quantomeno di migliorare nella penuria totale. Certo è che ora, dopo un’estate in cui i tifosi bianconeri affollavano le spiagge imitando Ronaldo con una Champions virtuale, non ci si può nascondere dietro al muro del tifo, perché adesso è fallimento, senza sé e senza ma. In più, oltre al fatto che l’asso portoghese era stato acquistato solo e soltanto per alzare la coppa dalle grandi orecchie, c’è anche da dire che la prima caduta stagionale era avvenuta con l’uscita dalla Coppa Italia sul campo dell’Atalanta, provocando di fatto l’ennesima rinuncia al Triplete dei sogni, appartenente solo all’Inter di Mourinho. Una stagione che ha regalato agli uomini di Allegri un campionato vinto già a dicembre e una Supercoppa Italiana contro il Milan. Troppo poco per una squadra del genere.

Ancora meno si porta a casa Carlo Ancelotti, uscito anzitempo dalla Coppa Italia e staccato anni luce in campionato da quella Juventus alla quale bisognava dare battaglia per dimenticare Sarri e dimostrare la qualità dell’allenatore. Diversi giornalisti, tra cui Marco Giordano, esperto dell’ambiente azzurro, si sono affrettati a dire che non si tratta di fallimento; per certi versi è giusto, ma se così è, sarebbe errato allora puntare il dito contro la Juventus e contro Allegri. Per quanto mi riguarda, invece, la realtà è ben diversa. I bianconeri hanno sborsato una cifra assurda per accaparrarsi Cristiano Ronaldo, De Laurentis ha allontanato Sarri per ingaggiare il Cr7 della panchina ed entrambi, in un batter d’occhio hanno fallito i propri obiettivi. Se questo non è un fallimento, ditemi voi perché non riesco a capire.

Ma al di là delle due singole squadre, la domanda che si pongono tutti è: come mai i club italiani che in Italia al momento sembrano dominare sotto vari aspetti, vengono spazzate via in campo europeo? Una semplice parola, senza teoremi o assiomi matematici da risolvere: mentalità. Un termine che molto spesso viene utilizzato senza capire a fondo le ragioni che portano a pronunciarlo. Mentalità non significa solo andare a pressare nel proprio campionato asfaltando club di media classifica come Parma o Spal, ma curare ogni dettaglio senza trascurare niente. Chi mi conosce bene sa che sono cresciuto calcisticamente con la Premier League e con il Manchester United che si dava battaglia assieme al Liverpool per il titolo, e proprio per questo posso affermare che nel Regno Unito tutto è più magico perché i novanta minuti di gioco rappresentano la passione pura, la corsa totale e gli esperimenti surreali per portare a casa la vittoria; grinta, velocità, cuore e animo, le chiavi perfette per svegliare i tifosi dal tè britannico e far alzare loro il volume del coro. Ma forse l’aspetto più importante che c’è in Inghilterra e che manca in Italia, è l’approccio alla partita, dettata dalla sola idea di trionfare, sia se vesti la casacca del Manchester City che quella del Burnley. Approcci che portano sorprese e gare da vivere, non importa come finisce il match, anche perché se davvero hai dato tutto e non hai rimpianti di che cosa puoi lamentarti?

Per tornare a quanto visto in questa settimana di coppe, l’esempio classico che risalta agli occhi, alla luce di quanto detto, è rappresentato dal primo tempo di Arsenal-Napoli; una sola squadra in campo, i padroni di casa, capaci di assediare l’avversario senza farlo respirare, con passaggi ad alta velocità e giocate da urlo. Il doppio vantaggio ne è la dimostrazione, e lo stesso Ancelotti, che ha allenato in Inghilterra, ha cercato di dare una scossa al gruppo, ma tutto si è risolto in un nulla di fatto anche perché quando sei abituato a giocare a basso ritmo, difficilmente riesci a calarti nella cultura di un altro Paese. Stessa sorte, anche se in modo diverso, è toccata alla Juventus, indirizzata dalla mentalità di Allegri, se così può essere chiamata, di gestire la gara. Il problema però è che il tecnico livornese davanti aveva l’Ajax, e non il Sassuolo o l’Udinese, con tutto il rispetto per le due società.

Una rivoluzione che non deve riguardare soltanto le prime due forze del torneo, ma l’intero campionato. Giocare per vincere, e quella mentalità di cui ho parlato per Juventus e Napoli deve essere portata avanti anche dalle squadre di medio-bassa classifica, perché non è detto che i campioni vincono sempre le partite. E l’Ajax lo ha dimostrato.