Ho percorso la A1 (autostrada Milano-Torino) centinaia di volte per andare allo Stadium, ne conosco ogni dosso, ogni curva, ogni uscita, ma mai prima d'oggi avevo avuto la sensazione di percorrere sabbie mobili, tanto il viaggio appare greve, denso, cupo.
Osservo gli amici di sempre, quelli con cui normalmente si sghignazza, canticchia, mangiucchia, ci si sfotticchia, in attesa di fonderci in un unico coro per incitare la nostra squadra o in un abbraccio collettivo appassionato dopo un gol, rischiando addirittura di farci male per il pathos con cui ci scambiamo l’ebbrezza di un magico istante.
Ma oggi regna il silenzio, teste basse, sguardi vacui; qualcuno legge un libro, qualcun altro ascolta musica nascondendosi in un paio di cuffiette bianche, uno di noi fa un solitario, utilizzando le carte da gioco con cui di solito si improvvisano feroci tornei di briscola last minute. Ci si guarda, si prova a commentare ciò che è appena accaduto, ma ogni accenno di discorso ha il medesimo esito: labbra inarcate verso il basso, singhiozzo di spalle, esclamazione “Mah…”.

Arriviamo allo stadio; c’è gente, ma non c’è vita, c’è amore ma non c’è emozione, siamo tanti ma tutti soli.
Eccoci in curva, nel cuore del tifo, dove è lecito fischiare con le dita anche se sei una signora, dove canti e parolacce si rincorrono e fondono in un karaoke sincopato, per poi propagarsi e dissolversi nello spazio circostante.
Stasera però per la prima volta vedo gente seduta sul proprio seggiolino (non sapevo neanche ci fossero i seggiolini nella Sud!), chi sorseggia distratto una birra, chi scorre un social sul telefonino, nessuno sembra compiere alcuno dei gesti che per natura appartengono al cuore pulsante dello Stadium. I giocatori entrano sul terreno di gioco per il riscaldamento, sono tesi, ci salutano ma abbassano subito la testa, noi rispondiamo, ma le nostre voci sono strozzate da dubbi e paure e l'eco che ne consegue non avvolge né sconvolge. Fisso uno ad uno i titolari scelti dal mister e in ciascuno di essi colgo una espressione seria, quasi immobile, nessun sorriso né segno di distensione. "Loro come noi, esattamente come noi" penso. 

Vengono annunciate le formazioni e i gli Olè che abitualmente accompagnano ogni nome oggi hanno il suono di neve che si poggia sul suolo piuttosto che di grandine che sbatte sui vetri. Poi però le squadre entrano in campo e i nostri ragazzi svestono la felpa di rappresentanza, così mostrandosi avvolti in quella meravigliosa maglia, nei nostri colori, nella nostra storia, nella nostra indomita fierezza.
È una magia, noi cominciamo a gridare e cantare e incitare e loro corrono, lottano, inseguono i palloni più disparati, contrastano gli avversari, vogliono il pallone, vogliono fare gol, vogliono vincere!
E lo stadio si anima di senso di appartenenza ed impeto e non smette di urlare. È una fusione di rabbia e coraggio, amor proprio ma soprattutto dignità, che dal campo sale e ci assale e poi torna giù, come una alabarda spaziale carica di energia, un boomerang impazzito che va avanti e indietro, uno tsunami di emozioni che travolge l’universo bianconero.

La partita è bellissima, la Juventus cade e si rialza, poi sorpassa, cade ancora ma non molla, riagguanta il risultato e alla fine, stremata, esce tra gli applausi della sua gente, di quella vera, che batte le mani, canta, si abbraccia, ringrazia.

Il ritorno a casa è lieve, la strada di nuovo solida e scorrevole sotto le ruote del pullman che macina spedito chilometri su chilometri.
Noi ci guardiamo, ci sorridiamo e senza dirci niente alziamo tutti insieme le braccia e facciamo partire un coro che fa così:
“NOI NON TI TRADIREMO MAI, NOI NON TI TRADIREMO MAI, NOI NON TI TRADIREMO MAI, SAREMO SEMPRE ACCANTO A TE”!
Fino alla fine