Le cose inaspettate sono tra le più piacevoli, ma anche tra le più dolorose. È un ossimoro che trova la sua culla a seconda della situazione: una sorpresa è qualcosa di piacevole, di magico, perché, per l’appunto, è inaspettata, niente di programmato, ma costruita in modo tale da rendere felice la persona a cui vogliamo dedicarla. Ma sotto questo alone di luminosità, sotto questa piacevole sorpresa baciata dal sole, può nascondersi un’ombra, rendendo una cosa inaspettata più o meno dispiacente. Pensate alla morte di Kobe Bryant, avvenuta così, per caso, in un giorno apparentemente normale, nel giorno del derby capitolino. Di ritorno a casa ho letto questa notizia surreale a cui non volevo nemmeno dare troppo credito e adito, appoggiandomi alla speranza che fosse tutto causa di una dispersione di fakenews. Poi, però, non era così. E quella è stata una cosa inaspettata. Tragica, ma inaspettata. Come il lockdown, che ha riguardato tutti noi e poi tutto il mondo. Un virus che circolava in Cina, ma si sa, quando le cose non sono all’interno delle nostre mura domestiche, il peso che le affidiamo è davvero minimal e, di fatti, ce lo siamo ritrovati dentro da un giorno all’altro. Ancora una volta, inaspettatamente. Così, ritornando nel pianeta calcistico, André Schürrle, qualche giorno fa, ha fatto una scelta. Per lui era premeditata, certo, ma per gli amanti del mondo del calcio e, per chi lo seguiva o chi, comunque, sapeva chi fosse, è stata una inaspettata sorpresa. Non piacevole, ma dolorosa: all’età di 29 anni, ha concluso il libro della sua favola calcistica, annunciando il ritiro.

L’ex calciatore ormai (e mi dispiace tantissimo utilizzare il termine “ex”) nasce il 6 novembre del 1990 a Ludwigshafen am Rhein, una cittadina extracircondariale che non supera i 200.000 abitanti. In questa città superinquinata, André comincia a familiarizzare con il mondo del calcio, con il pallone soprattutto, instaurando un rapporto intimo che, di lì a qualche anno, lo porterà a fare l’assist decisivo per il Mondiale del 2014. Ma ci arriveremo per gradi. A casa Schürrle lo sport non è mai mancato, tant’è che la sorella imperversa nell’universo dell’atletica. I due, erano fratelli si di sangue, ma non di scelta professionale e il futuro giocatore non accenna nemmeno al minimo pensiero di seguire Sabrina (la sorella), ma solo quello di in-seguire quella piccola sfera. E così è stato, perché infervorato dall’amore che provava nei confronti del pallone e coadiuvato dai suoi genitori, il giovane André spopola nel Ludwigshafener SC: esultanze tipiche del mondo dei grandi, velocità (quello che lo ha sempre contraddistinto), gli uno contro uno che lo vedevano sempre vincente, insomma, non solo i genitori dei ragazzi, non solo i genitori del piccolo talentino, ma, a vederlo, c’erano anche osservatori che presidiavano le tribune e che, di tanto in tanto, bussavano alle società dei settori giovanili. Beh, quella volta, bussarono alle porte del Ludwigshafener SC e, alla porta, c’era la prima chiamata importante: il Mainz.

Una chiamata che, molto probabilmente, non si sarebbe aspettato nemmeno lui. È vero, lì al Ludwigshafener SC le cose andavano molto bene, era tra i migliori se non il migliore della squadra, ma quando alla porta si presentano con un contratto di una squadra militante in un campionato professionale (all’epoca retrocesse, mentre l’anno prima che arrivò si classificò in undicesima posizione) sembra di toccare per mano un sogno. Tutti i bambini, almeno la maggior parte, sognano di diventare calciatori. La mente dei bambini viaggia e, come scrissi nel mio articolo precedente, in un certo senso la invidio, perché non hanno limiti, sono piccoli per distinguere cos’è razionale da cosa non lo è, da cosa è raggiungibile e da cosa rimane utopistico. Poi si comincia a comprenderlo pian piano, con il girare delle lancette del nostro orologio biologico, quando il sogno è bello anche per rimanere tale ed è meglio virare su altre professioni; ma quando ad un’età adolescenziale ti chiamano, ti vogliono e ti offrono un contratto che potrebbe cambiarti per sempre la vita, non ci pensi due volte, e infatti, André, non si è fatto pregare due volte, accettando. Ma se da una parte c’era l’ammaliamento verso la bellezza di una proposta del genere, dall’altra c’era la pura coscienza e ragione dei suoi genitori. L’amore che ponevano nei confronti del ragazzo era tale da ricorrere ad un sacrificio, ma probabilmente lo hanno fatto anche perché erano consapevoli delle doti del ragazzo. Lì, a Magonza, c’era la possibilità di rimanere nell’accademia per continuare gli studi. Era attrezzata e offriva la possibilità ai ragazzi, non solo di realizzare la propria carriera professionale, ma anche di portare a termine quella formativa. I genitori, consci del sacrificio, hanno preferito che lui frequentasse solo i campi di allenamento con le rispettive partite, ma che gli studi li terminasse a casa. Un giusto compromesso, ma che comportava ai genitori una routine quotidiana di 160km, 80 all’andata e altri 80 al ritorno. Tre anni così. 1095 giorni così. 175.200 km solo per il figlio. Se non è amore questo…

E qui, avviene un incontro importante, quello con Thomas Tuchel, una sorta di padre putativo per André Schürrle. A quel tempo aveva 35 anni (complici continui infortuni che lo ha costretto a ritirarsi dieci anni prima): giovane, creativo, pieno zeppo di idee. Allenava l’under 19, vincendo nel 2009 il campionato giovanile. Un allenatore affermato che allenerà, di lì a qualche anno, il Borussia Dortmund (squadra che aveva battuto per assicurarsi la vittoria del campionato citato poc’anzi) vincendo, con essa, una coppa di Germania; e poi, ora come ora, il PSG dove ha vinto due supercoppe francesi e due campionati. Ma quella vittoria nel 2009 gli valse il salto in prima squadra, portando con sé, il buon André. Due annate fantasmagoriche per il calciatore: giocavano un calcio frizzante, sempre a duemila e con una forma dei calciatori straripante. In questo fermento il valore di Schürrle era importantissimo: velocità, dribbling e quindici gol in una stagione senza essere una vera punta. Un giocatore perfetto in una squadra che riuscirà a qualificarsi all’Europa League, centrando il quinto posto con 58 punti. Insomma, le centinaia di migliaia di chilometri che i genitori si erano fatti tutti i giorni per accompagnare il figlio alle partite e agli allenamenti, ne era valsa davvero la pena e chi più di loro ne poteva essere fiero? Forse solo Andé che, qualche anno prima vide bussare alla porta il Mainz, adesso, a fare “toc toc”, era Joachim Löw, CT della Nazionale.
Una chiamata che diventa doppia anche con il trasferimento al Bayer Leverkusen, un team che sicuramente presenta piani diversi rispetto al Mainz, ove la qualificazione alla UEL era considerata quasi un miracolo. A soli 21 anni Schürrle corre all’impazzata: tra lo squillo del telefono che vede come emittente Löw e tra il Bayer Leverkusen che ambisce a palcoscenici importanti come la Champions, il tempo sembra andare al doppio della velocità. Lui segna, continua a farlo anche quando la squadra non trova troppo terreno fertile in campionato; in Nazionale un po’ opaco, ma si adatta alle richieste neo-fondative e giovanili dell’allenatore, entrando a partita in corso e spaccando le partite (un po’ il Douglas Costa utilizzato da Massimiliano Allegri). La carriera va e corre come lui. Dopo due anni con il Leverkusen e più di quindici di campionato tedesco, sbarca in Premier, al Chelsea di Mourinho. Un primo palcoscenico dei grandi, diverso rispetto a quello del Bayer Leverkusen, opposto rispetto a quello del Mainz. Un momento vissuto con gli occhi da fanciullo e con la testa pervasa da momenti di estasi. Gol importanti, uno valido per il passaggio del turno contro il PSG, gli altri culminati nel Mondiale del 2014, dove segna di tacco contro l’Algeria, un paio nella notte-suicidio del Brasile (partita persa 1-7 contro la Germania) e l’assist vincente a Mario Gotze, valido per l’alzata della Coppa del Mondo.
Ad un certo punto, però, la sua curva ascendente, comincia a non salire più ma a fermarsi. Una fase stabile che prima o poi arriva, certo, ma non a 23/24 anni. Troppo presto per un calciatore. Una saturazione che di solito arriva molto più in là. Ed ecco che, come in un momento di eclissi, dove la luminosità viene lasciata ai lati, lo stesso inizia per André, dove i momenti raggianti, illuminati e baciati tra la sua dote personale e l’amore dei genitori, cominciano a relegarsi sullo sfondo, mettendo in primo piano, un’oscurità che è pronta a prendersi la scena.

Ed ecco che qui, entriamo nell’episodio chiave del mio articolo. Durante le qualificazioni per i campionati europei (siamo ad ottobre 2014, tre mesi dopo il Mondiale), André Schürrle mangia del pollo infetto. Quello che a primo impatto fa pensare ad una semplice influenza - tutto sommato comprensibile visto che si era nutrito di carne contaminata - con il passare dei giorni e con una situazione che peggiorava anziché migliorare, i medici gli diagnosticano la salmonella.
Questo è il vero motivo del ritiro? Un pollo può aver causato, a distanza di così tanto tempo, un ritiro dai campi da calcio? Sicuramente, salmonella o meno, l’eclissi raggiunge il suo punto massimo: perfettamente congiunta al sole e con una luminosità – la carriera del giocatore – lasciata alle spalle.
32 mln bastano per convincere i Blues a cedere l’ormai ex campione tedesco al Wolfsburg, ma sicuramente non bastano per risollevare la sua carriera in fasce discendente. Una stagione che, come nelle montagne russe, sale e scende, scende e sale. L’allenatore lo inserisce come falso nove, un ruolo che non ha mai ricoperto, ma che poco cambia, perché la discesa della curva non dipende di certo dal diverso impiego tra i titolari. Il mister non è convinto e il rapporto si sgretola subito, visto che da una parte e dall’altra non se le mandano a dire: il primo lo accusa di scarso impegno; il secondo accusa il modo di giocare differente che lo ha penalizzato. Così, dopo aver sborsato la cifra più ingente nella storia del club, Schürrle diventa un nuovo giocatore del Borussia Dortmund e, guarda caso, proprio in quella squadra che aveva sancito il successo della sua carriera e quella di Tuchel nelle giovanili e, guarda nuovamente il caso, ad allenarlo c’è proprio lui, suo vecchio padre putativo. I presupposti per un ritorno in grande di se stesso ci sono, edulcorati anche dalla presenza di Gotze, un destino romanzato che fa ricordare i bei tempi del Mondiale. Ma un destino che ben presto sembra volergli voltare le spalle, proprio quello che, fino a qualche anno fa, lo portava sotto braccio: Tuchel è ammaliato da Bellarabi, dimenticandosi del “figlio acquisito”, i giocatori vengono scombussolati dai repentini cambi in panchina e dall’attentato al bus della squadra; in più, si aggiungono gli infortuni che lo tengono lontano dal manto verde e vicino a pensieri che, già da allora, non erano positivi per il mondo del pallone. Insomma, in piena pandemia a casa Borussia, prende l’aereo e vola al Fulham. Lì, come il ritiro dalla Nazionale e un breve prestito allo Spartak Mosca, sembrano essere la classica fortuna tentata con due euro in una schedina. Due euro per vincerne diecimila. Quante possibilità ci sono? Uno su diecimila potrebbe riuscirci. Beh, Andrè, non era tra quelli.

Il Coronavirus lo ha aiutato nel riflettere che l’abbandono dai campi da calcio sia stata la scelta più giusta. Si vociferava un possibile approdo al Benevento, ma ha smentito tutti con una decisione sorprendente, quella che ha fatto da introduzione al mio articolo. Dispiace. Dispiace per un giocatore che ha visto un exploit repentino, che ha utilizzato il turbo nella fase iniziale della sua gara, quando di solito si usa alla fine per concludere in bellezza. Un destino che gli è stato amico e nemico.
E se quel giorno, André Schürrle, non si fosse mangiato il pollo, lo avremmo visto ancora calcare i campi da gioco? Forse in un destino parallelo avremmo una risposta.