NOTA della redazione per i blogger: per il mese di febbraio, sono stati sospesi i voti agli articoli, ecco perché tutti i blogger ricevono una bassa valutazione con il voto 1; vogliamo dunque chiarire che non è un giudizio negativo al pezzo qui proposto.
Grazie per continuare a scrivere su VxL.




Bergamo, 15 gennaio 1978, con mio padre, mio fratello, un mio amico e suo padre decidiamo di andare allo stadio per vedere Milan - Atalanta. Siamo tutti milanisti (tranne il padre del mio amico simpatizzante interista) ma anche tutti bergamaschi. Per noi ragazzini è la prima volta allo stadio, per mio padre la sua ultima.
Preciso subito che per fortuna mio padre, con i suoi 88 anni, continua ad amare e a guardare il calcio, ma solo dalla poltrona.

Ma torniamo a quel giorno, a quella domenica che ancora oggi non è dimenticata e di tanto in tanto viene ripresa sui quotidiani locali bergamaschi.
E' una giornata grigia d’inverno, o almeno così la ricordo forse più per il clima e i fumogeni che per la realtà meteorologica, come grigia è la “stagione di piombo” che stiamo vivendo e che pochi mesi dopo vedrà la strage della scorta di Moro e il suo rapimento concluso in modo altrettanto tragico. 
L’Atalanta è guidata da quell’ormone di Titta Rita, che avevo avuto occasione di vederlo da vicino nella sede dell’Atalanta quando venne tesserato per le giovanili della Dea mio cugino.

La formazione orobica viaggiava nei bassifondi in quel campionato che vide l’esplosione di Paolo Rossi nel Lane Rossi Vicenza.
C’era l’adrenalina della prima volta in noi ragazzi, mentre i due adulti erano più attenti nel darci consigli sul come comportarci e sui possibili rischi. Le giuste attenzioni di padri premurosi che non avevano però minimamente considerato che una domenica di festa si trasformasse poi in una delle più violente della storia calcistica.
Nell’avvicinarci allo stadio, vedemmo schieramenti imponenti di forze dell’ordine che naturalmente ci incuriosirono perché nel nostro paesino non vi era nemmeno un vigile urbano e raramente vedevi l’auto dei carabinieri passare per le nostre strade.
Arrivati allo stadio ci dividemmo. Mio padre e mio fratello andarono in Curva Sud, mentre io avevo avuto in regalo dal papà del mio amico, un commerciante benestante, un biglietto di gradinata centrale lì seguii in quel settore. 

L’aria attorno a noi era carica di elettricità ma noi ragazzi non riuscivamo a cogliere quello che stava per accadere e accadde al 30’ del primo tempo: rigore a favore dell’Atalanta, sbagliato poi da Rocca, ma che provocò che proprio dalla Curva Sud, dove si trovavano i tifosi del Toro, partissero dei razzi verso gli altri settori, diciamo ad altezza d’uomo, creando un momento molto critico in particolare tra gli spettatori della Sud.  E, a fine primo tempo, inopinatamente, vennero aperti i cancelli e così gli ultrà atalantini sciamarono dalla Curva Nord (ancora oggi casa loro) alla Sud creando una rissa incredibile di centinaia e centinaia di persone con  pugni, spranghe, cinture borchiate e una scacciacani (c'è chi dice fosse una pistola).
E in questo caos, persone, alcuni con bambini, che cercavano una via d’uscita sicura. E mio padre era lì con mio fratello, come era lì con suo padre un altro bambino che ebbi la fortuna di conoscere da adulto e che oggi è una firma importante del Corriere della Sera.

Io invece ero in una situazione relativamente più sicura, eravamo vicini alla Nord e distanti dalla Sud. Ci fecero uscire e risalire verso nord, nella zona del Quartiere Monterosso, dove avevamo parcheggiato l’auto.
Ma eravamo angosciati perché appunto mio padre e mio fratello stavano nella zona degli scontri ed erano separati da noi sia dagli ultrà che se le davano di santa ragione come da un cordone di forze dell’ordine che impediva di andare appunto verso sud, sia per motivi di sicurezza delle persone, che per evitare che si aggiungessero altre figure ad alimentare gli scontri. 
Ma non potevamo nemmeno stare ad aspettare di capire cosa stava succedendo, perché venivamo allontanati da altre forze dell’ordine.

Salimmo in macchina terrorizzati, il padre del mio amico cercava di tranquillizzarmi senza grande successo. 
Volevamo stare in attesa che ci raggiungessero, ma la polizia ci diceva che dovevamo allontanarci.
Tentammo di avvicinarci alla zona Sud da altre strade, ma tutti gli accessi erano bloccati e dunque tornammo verso casa ascoltando le notizie che venivano date alla radio, ma erano frammentarie e non esistevano ancora telefonini.
Arrivati al paese ci fermammo al bar “Ceser”, che era anche un Milan Club”, per cercare di capire qualche cosa di più prima di tornare a casa.
La tv era sintonizzata sulle trasmissioni sportive che riportavano degli scontri, pian piano arrivavano al bar altre persone che erano state allo stadio ma le informazioni erano sempre frammentarie.
Poi arrivò anche mio padre con mio fratello, erano sani e salvi ma terrorizzati. Ci raccontarono come con gran fatica e paura avevano superato il nucleo degli scontri, ma anche il resto del percorso verso la stazione delle autolinee era costellato di piccoli scontri, gente insanguinata, gente terrorizzata, fumogeni, sfollagente, sirene. 

Da quel giorno mio padre, come il padre del mio amico giornalista, disse per sempre addio allo stadio. Il trauma fu tale che raramente veniva a vedere le partite del sottoscritto nei campetti locali, penso meno di cinque volte.
E mio padre non era un uomo a cui mancava il coraggio, era un infermiere di un importante ospedale della cintura milanese, ma anche un sindacalista e capo della cellula (una specie di sezione) del PCI. E come sindacalista, lo scoprii solo alcuni anni dopo, era a rischio in quanto più volte minacciato per il suo impegno contro il terrorismo. 

Se abbiamo ridotto, ma non sconfitto, la violenza negli stadi dobbiamo anche impegnarci per ridurre la violenza verbale e il razzismo. Riprendiamo in mano Desmond Morris e il suo “La Tribù del Calcio”, adeguandolo ai nostri tempi per capire e contrastare quanto accade.