La televisione è una semplice scatola con dei bottoni e uno schermo su di un lato; quando è spenta non è altro che un brutto e inutile soprammobile, ma appena la si accende ti permette di varcare la soglia che c'è tra la realtà e la fantasia. In principio i nostri nonni allietavano le loro giornate ascoltando la radio, poi i nostri genitori comprarono con diffidenza questo "oggetto" e ora, soprattutto i giovani, passano interi pomeriggi davanti a uno schermo pieno di colori. I bambini, il più delle volte, sono parcheggiati e dirimpettai inebetiti a tale tracotanza comunicativa.
Il grande filosofo austriaco Karl Raimund Popper afferma che "chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, eventualmente revocabile, affinché prenda coscienza del fatto che, a tutti gli effetti, egli partecipa a un processo di educazione che coinvolge una precisa responsabilità, in particolare nei confronti dei più piccoli".
Sono pienamente d'accordo!

Quando accendo la televisione, faccio il cosiddetto "zapping", cioè salto i canali televisivi proprio per capire quali programmi e offerte ci vengono proposte o imposte. Pochi secondi dopo, il buio dello schermo riprende vita dal momento in cui mi rendo conto, non senza sofferenza, che di culturale in tv, oggi come oggi, c'è ben poco. In effetti, programmi interessanti che parlano, per esempio, di costume sono ben pochi; questi sono presenti solo in strettissima minoranza. Molti palinsesti preferiscono mandare in onda creature per alterare e plasmare la nostra sfera culturale ottundendo e limando aspetti negativi della società allontanandoci dalla verità nella sua accezione più alta. Ma questo, francamente, dipende anche da noi. Infatti basta guardare lo share televisivo per giungere a una conclusione drammatica: siamo un popolo che fa come lo struzzo; basta presagire qualche cosa nell'aria che non quadra e si infila immediatamente la testa sotto la sabbia. Difatti siamo portati a guardare programmi frivoli che hanno come scopo quello di nascondere le cose come realmente stanno.

L'influenza sociale dei mass-media è una delle questioni più rilevanti della nostra era. Da anni molti studiosi si confrontano su questo tema e si sono venute a creare due correnti di pensiero. I primi vedono soltanto manipolazione, persuasione e distorsione della realtà; i secondi ci rassicurano che non c'è nulla da temere e che viviamo nel migliore modo possibile.
E' pur vero che gran parte di quello che sappiamo oggi su quanto avviene nel mondo, ci proviene dai media. Allo stesso tempo questi investono anche la cosiddetta "sfera privata", influenzando le credenze, i valori etico-morali, i modelli di comportamento, le mode in un processo che non conosce termine.
A questo punto la domanda sorge spontanea: chi fa informazione o l'intrattenimento ci influenza? Ne siamo consapevoli? La risposta più appropriata è che in parte siamo consci dell'influenza che esercitano su di noi; nello stesso tempo, però, la rigettiamo e riteniamo che a subirne l'influsso siano gli altri piuttosto che noi personalmente. 
Tale meccanismo prende il nome di "effetto terza persona". Ciò sembra sia dipeso dal bisogno di percepire le proprie azioni come libere da qualsiasi forma di controllo o condizionamento al fine di accrescere il proprio livello di autostima.
Ciò induce le persone ad attuare un confronto tra se stessi e gli altri sulla base dell'influenzabilità; così la propria capacità di resistere all'influenza mass-mediatica sarà posta in risalto dalla difficoltà degli altri a farlo.
Alla luce di quanto detto, dobbiamo porci un'ulteriore domanda: ma se davvero chi fa televisione avesse a disposizione una sorta di patente a punti, con il rischio di essere revocata, vedremo ancora le loro facce?
Alla mia età, solitamente, si pensa a tutto ciò che avevi e che ora non hai più, a tutto ciò che non hai, ma che potresti avere. Pensi a quello che hai trovato e che non vuoi per nessun motivo lasciar andare via perchè è tutto ciò che riesce a regalarti un sorriso nella consapevolezza che l'acqua che scorre non è mai la stessa per due volte di seguito, che tutto quello che hai intorno è solo una ruota che gira.
Per questo, e sicuramente anche per altro, si è più propensi a pensare, con un velato sorriso, al passato piuttosto che a un futuro, già di per sé, ricco di incognite.

La mia televisione, in funzione di ciò, era, soprattutto, altro...
Paolo Valenti nasceva a Roma un secolo fa, il 6 ottobre 1922, ed è stato un giornalista e conduttore televisivo italiano.
Quanta nostalgia ripensando a quelle domeniche: dopo aver sentito a "Tutto il calcio minuto per minuto" Ciotti, Ameri, ci si precipitava al televisore per vedere i gol e, sarebbe superfluo ricordarlo, "90° Minuto" era la bibbia del nostro sapere. Collegamenti dagli stadi, interviste, battute, frasi buttate lì, saluti (come non ricordare la manona di Luigi Necco, dal S. Paolo di Napoli, con la folla che saltava alle sue spalle), risate e tanto buon umore. La generazione cresciuta con Giorgio Bubba da Genova, Tonino Carino (slang marchigiano da pompetta da aerosol) da Ascoli, Marcello Giannini da Firenze ("un' ci siamo", quando si perdeva, un classico), Cesare Castellotti (gotine rosa con cravatte immettibili) da Torino, Ferruccio Gard (emotivo da farlo sembrare rauco) da Verona, Vasino da Milano, Franco Strippoli da Bari, fa davvero troppa fatica ad appassionarsi al calcio di oggi, vissuto come scienza esatta, da sviscerare e analizzare in ogni suo aspetto, da vivere come eterno dramma. 
Geniale. 
Valenti aveva capito che i suoi giornalisti tifosi, tra pronunce incomprensibili, look improbabili e battute ruspanti, erano il teatrino adatto per attirare tutta la famiglia davanti alla tv.
Che cosa aggiungeva di suo, di profondamente personale, di tacitamente espresso, Paolo Valenti? La signorilità, per cominciare. Arrivava nelle case con cortesia e discrezione. Non contraddiceva, si permetteva soltanto di dubitare. Non snocciolava verità rivelate, osava soltanto proporre un'ipotesi o una testimonianza. Occorreva un occhio esercitato per cogliere i particolari di questo tratto tanto fine: il bon ton di Valenti era così naturale, da risultare appena riconoscibile. Tuttavia, anche senza "spiegarsela", i telespettatori avvertivano una differenza fra quel distinto signore e una certa crescente marea di cafonaggine.
Henry Shapiro, corrispondente da Mosca all'epoca di Stalin e poi leggendario direttore della United Press International, cominciò un suo celeberrimo libro sul giornalismo con questa frase: "Io scrivo per il garzone del latte, sono un giornalista". Forse Paolo Valenti aveva letto quel libro e perciò ne applicava, senza darlo a vedere, con la disinvoltura del gentiluomo, la profonda lezione. Che era quella di parlare facile, usando le espressioni che usa la gente comune, anzi: che usano i bambini.
Frasi come "un bel salto in avanti", "eh, oggi non è andata troppo bene", ritenute puerili e banali dagli intellettuali (?) della esegesi sportiva, servivano invece a Valenti per raccontare il gioco del pallone come una favola e per entrare così nel cuore dei suoi spettatori. I quali capivano ugualmente che quella suadente semplicità era espressione non di ingenuità o ignoranza, bensì di saggezza e cultura.
Paolo Valenti era laureato in filosofia, aveva scritto un romanzo, molti racconti e tanti libri. E proprio per questo non avvertiva il bisogno di auto-promuoversi, sfoggiando paroloni o avventurandosi in rischiosi labirinti di congiuntivi.

L'indulgenza, a volte un po' ecclesiale, era la sua caratteristica. La usava verso tutti; verso l'arbitro colto in errore, verso il terzino sorpreso in pieno sgambetto, verso il collega di giacca troppo pacchiana o di aggettivazione troppo ardita. Un'occhiata alla telecamera, un sorriso e i telespettatori avevano già capito, non c'era bisogno di dire nulla. Suppongo che gli italiani fossero grati anche per la sua fedeltà alla pronuncia, agli accenti e alle consonanti. Benché fosse nato a Roma, non lavorava in romanesco e non esibiva, con orgoglio quirite, la sua romanità dicendo "perzonale", in "corzo de svorgimento",​"'a federcalcio". Rispettava l'unità di lingua e, di tanto, gli erano intimamente grati gli italiani di Torino e di Bari, di Trieste e di Cagliari; consci di quanto fosse meritoria la compostezza di quell'irreprensibile professionista in una televisione locale a diffusione nazionale, quale appare spesso la Rai.

Valenti trasferisce al TG1 il proprio gioiello. Diciotto anni con punte record d'immutabile gradimento. E quando lo intervistano, per capire, risponde a disagio: "Forse sono un ombrello che va bene per la pioggia e per il sole. Racconto la verità e la verità è propellente di spinta fantastico".
Il popolare telecronista viene attirato dall'avventura politica. Atto di presunzione? Assolutamente, lo affascina la novità. Va come va. Riprende a zappare nel proprio orto, un po' smunto, un po' invecchiato. Lo vediamo adattarsi al "Processo" biscardiano, lo ritroviamo appagato al centro del programma in cui s'identifica. Poi d'improvviso chiede scusa per la provvisoria assenza, un'ombra di malinconia nello sguardo. Riappare, provato, promette di tenerci compagnia.
Non manterrà fede a quest'ultima; un tumore lo porta via a sessantasette anni, il 15 novembre 1990.

In occasione della sua morte, Enrico Ameri lo ricordò in un pezzo giornalistico, richiamando la cronaca dell'incontro Griffith-Benvenuti e una magistrale radiocronaca, nella quale Valenti fu in grado di trovare il modo di commentare alla radio per mezz'ora la posizione immobile di surplace del ciclista Antonio Maspes durante una competizione.
Durante la sua lunga carriera di giornalista sportivo, Valenti rifiutò sempre di dire per quale squadra calcistica tifasse, né la cosa traspariva dai suoi commenti, estremamente imparziali. Affermava però che sarebbe apparso in televisione con i colori della sua squadra il giorno in cui avesse smesso di condurre la sua storica trasmissione, ma morì prima di portare a termine tale compito. Toccò a Nando Martellini rivelare, nella puntata di "90º Minuto" del 18 novembre 1990, la squadra per la quale Valenti tifava.

"Da questo studio per 20 anni Paolo Valenti ha presentato puntualmente 90° minuto, la sua trasmissione, quella trasmissione che aveva voluto, organizzato e diretto. Noi suoi coetanei lo ricordiamo affettuosamente, dopo un sodalizio di vita e di lavoro quarantennale. Paolo Valenti ha presentato la sua trasmissione finché le forze glielo hanno consentito. La sorte gli ha tolto, purtroppo, la gioia dell'ultima - e lui ci aveva confidato quale sarebbe stata - diretta con il suo stile educativo, con il suo sorriso, ai giovani che tanto amava. Voleva salutare coloro che benevolmente lo avevano appoggiato, ammirato per 20 anni, e voleva così, innocentemente, comunicare la squadra per la quale faceva il tifo. E oggi, comunicandovelo, mi sembra quasi di assolvere un suo desiderio: Paolo Valenti era tifoso della Fiorentina".

La domenica successiva, in occasione di Fiorentina-Lecce, gli dedicammo in curva Fiesole uno striscione: "Paolo, al 90º l'abbiamo saputo, Viola con classe e dignità".
Se è vero che la delicatezza piace agli occhi e la dolcezza incanta l'anima, bisogna anche sottolineare che ci vuole tanta forza per stare in silenzio.
Molta di più, credetemi, nel mettere raffinatezza nelle parole.