Sì, è proprio vero. Ho giocato a calcio con Paolo Rossi, ma quando Paolo Rossi non era ancora… Paolo Rossi.

Correva l’anno 1972 e, poco più che ragazzino, ero stato tesserato dalla Juventus F.C. nell’ambito del NAGC (Nucleo Addestramento Giovani Calciatori), la cui responsabilità era affidata ad un Maestro di Calcio Giovanile, quale Mario Pedrale. Ero nella rosa della squadra “Berretti”, i cui migliori elementi (ed io, ovviamente, non fui fra questi) avrebbero potuto ambire alla “Primavera”, ovvero alla formazione giovanile, anticamera della prima squadra.
All’epoca, tutti i calciatori bianconeri (dalla prima squadra alle giovanili) si allenavano nei campi adiacenti la Curva Filadelfia del Comunale di Torino e, più precisamente, nel primo campo (“Il Campo Combi”) si allenava la prima squadra, mentre nel secondo campo (“Il Campo Marchi”) si allenavano le formazioni giovanili.
Ebbi quindi modo di incrociare i tacchetti con la squadra Primavera, allora fortissima. Nella stessa militavano, oltre a Paolo Rossi, calciatori di assoluto livello, che ebbero una carriera in serie A di tutto rispetto, quali Nicola Zanone (attaccante talentuoso) e Luciano Marangon (terzino di fascia). Rossi, Zanone e Marangon si ritrovarono poi nel Vicenza delle meraviglie, allenato da un tecnico visionario, quale G.B. Fabbri.

Tornando al 1972, giocai quindi contro la Primavera in diversi allenamenti, affrontando quelli che per noi giovanissimi erano già da considerarsi dei “mostri sacri”. Ci picchiavano sempre di santa ragione, in quanto non alzavano mai la gamba nei contrasti e pazienza se poi qualche ragazzino usciva un po’ malconcio dai vari scontri. All’epoca, su Paolo Rossi sapevo soltanto, su indicazione di mio padre, che era stato appena acquistato dalla Juventus. Come ruolo, non giocava centroavanti ma ala, per la precisione all’ala destra.
Per noi giovanissimi, Lui, come qualsiasi altro calciatore della Primavera, era considerato un mito, praticamente inarrivabile.

L’anno successivo, smisi di giocare nella Juventus e contestualmente cessai di coltivare mire riguardanti il calcio professionistico. Mi rimase il dilettantismo ed una passione, sfrenata e mai sopita, per il Calcio e, in particolare, per i colori bianconeri.
A distanza di sei anni da quella esperienza giovanile (correva l’anno 1978), si disputarono i Mondiali in Argentina e l’Italia si presentò con una formazione in “bianco e nero”. Il blocco Juve aveva però al vertice dell’attacco, in tandem con Roberto Bettega, proprio Paolo Rossi, calciatore del Vicenza, in quanto la Juve lo aveva appena perso alle “buste”, risolvendosi la comproprietà a favore della squadra veneta, con una valutazione folle per l’epoca.
Fu un’Italia incredibile, che disputò un grandissimo Mondiale, raggiungendo la semifinale e Paolo Rossi divenne Pablito.

Nel frattempo lo scrivente, iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza di Torino, viveva, come tutta la popolazione italiana, gli indimenticabili (in negativo) anni di piombo. Vedere all’opera quella Nazionale consentì di evadere, per quella estate, da una cappa di violenza e terrore, che incombeva sulle nostre teste e di cui non si riusciva a capire se e quando ne saremmo mai usciti, ben sapendo però che, comunque, noi tutti ne avremmo portato le sciagure di quel periodo nelle nostre menti.

Dopo quattro anni, si celebrò il Mundial Spagnolo e l’Italia, sempre allenata da Bearzot (e reduce da un Europeo deludente, disputato in Italia nel 1980), si presentò alla competizione, subissata da critiche, non ultima quella in cui Bearzot aveva privilegiato la scelta di convocare Paolo Rossi (reduce da due anni di squalifica e con appena tre partite giocate dal suo rientro) in luogo di Roberto Pruzzo (inesorabile bomber giallorosso). Sappiamo tutti come andò la rassegna continentale e coloro che hanno più di mezzo secolo rammentano esattamente che cosa stessero facendo in occasione delle partite dell’Italia, soprattutto di quelle che rimasero nell’immaginario collettivo nazionale (Argentina, Brasile e Germania).

Personalmente, nell’Estate del 1982 partii, con mio sommo gaudio (???), per il servizio di leva obbligatoria a Salerno, Caserma Cascino 89mo Battaglione Fanteria Salerno (Centro Addestramento Reclute). La mia passione per il calcio juventino era ben viva ma, per quello nazionale, era notevolmente affievolita per almeno due ordini di motivi. Il primo, perché le prime tre partite del girone eliminatorio (Camerun, Polonia e Perù), tutte pareggiate, avevano reso l’idea di una Nazionale deprimente, che nel gironcino finale avrebbe dovuto scontrarsi con Argentina e Brasile (non c’era storia. Ci avrebbero massacrati!). Il secondo motivo perché il sottoscritto aveva lasciato a Torino tutto ciò che lo interessava (dagli affetti agli interessi) e si trovava a Salerno senza sapere esattamente a cosa sarebbe servita la leva obbligatoria per il proprio futuro.

Inoltre, anche la mia “carriera” calcistica da dilettante era naufragata nel marzo del 1981, quando, nel corso di un torneo serale, mi ruppi, in un contrasto, legamento crociato, collaterale e menisco mediale. Gli ortopedici mi dissero che la lesione era già stata codificata nei protocolli ufficiosi come la “Triade interna sfortunata dei Francesi”. Ripresi a camminare e a corricchiare dopo un’allucinante rieducazione. Ma il calcio, a qualsiasi livello agonistico, per me era finito e, all’epoca, non associai i miei problemi all’articolazione con quelli, molto più significativi, che Paolo Rossi accusò lungo tutta la sua carriera.

Decisi quindi di non seguire Italia- Argentina e, profittando del deserto in caserma (tutti davanti allo schermo), andai ai bagni a fare doccia e barba (!!!???). Quando sentìi i boati provenire dalla sala tv, capii che mi ero perso qualcosa…

Alla luce della vittoria contro l’Argentina, non potevo quindi sottrarmi alla visione della partita decisiva contro il Brasile. Riuscii a farmi dare tre giorni di permesso e tornai a Torino. Vidi la partita con il gruppo di amici “storico” e fu l’apoteosi. L’Italia vinse contro una squadra, da considerarsi, non a torto, come la migliore formazione brasiliana di sempre (forse poteva giocarsi la leadership con quella che ci asfaltò nella finale di Mexico 70). Sul versante civile, l’Italia aveva appena sconfitto il terrorismo e l’artefice di tale vittoria, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, era stato nominato Prefetto di Palermo, con il preciso scopo di destabilizzare il controllo criminale mafioso in Sicilia. Purtroppo, le cose non andarono come sperato…

Vidi la finale con la Germania a casa, sfruttando sempre una licenza e, al termine, di quella memorabile partita, esplose una gioia collettiva nazionale senza precedenti. Ci riversammo a milioni sulle strade e piazze di tutta Italia. Rammento una lunga, interminabile fila di auto, in direzione del centro di Torino. Io, mio fratello, sua moglie e la mia fidanzata su una 500 “scapottata”. La gente a piedi, che accompagnava il corteo di auto, sembrava impazzita. Ci offrirono cibo, vino ed ogni ben di Dio. Ci abbracciamo con chiunque ci capitasse a tiro e, alla fine, tutti osservammo il rito del bagno nella fontana di Piazza Solferino.

Le immagini dei telegiornali dell’epoca riversarono sui teleschermi la gioia di tutto il Paese, finalmente riunito per festeggiare tutti insieme un evento che apparteneva alla collettività intera, senza distinzione di ceto o di sesso.

Nel 2006 abbiamo avuto la fortuna di rivincere il Mondiale e di provare una gioia immensa ma, posso assicurare, che i Mondiali del 1982 sono rimasti, nell’immaginario collettivo nazionale, come la più grande manifestazione di giubilo nazionale.
Non poteva essere altrimenti.
Gli eventi che ci avevano colpito negli anni precedenti in un’escalation del terrore - che dalla Strage di Piazza Fontana del 1969 si era protratta sino alla Strage di Bologna del 1980, con omicidi e gambizzazioni quasi quotidiani, in ogni parte del territorio nazionale – avevano creato nel Paese un clima di tensione sociale senza precedenti, sfociato infine, proprio a Torino nel 1980, nella famosa marcia dei 40.000 quadri intermedi Fiat, che segnò la linea di demarcazione con la lotta di classe che il terrorismo riteneva di rivendicare.

Dopo il Mondiale, Paolo Rossi vinse con la mia Juventus tutto quello che gli restava da vincere, compresa l’infausta Coppa dei Campioni del 1985 nella tragica notte dell’Heysel. La sua presenza in bianconero, sino alla stagione 1984/1985, accompagnò la mia vita di tifoso bianconero che stava, nel contempo, diventando uomo, avendo il sottoscritto iniziato proprio in quella stagione la sua attività professionale.
Dopo altre due stagioni anonime con il Milan ed il Verona, Pablito concluse la sua carriera di calciatore e se ne uscì in punta di piedi, lasciandosi totalmente alle spalle il mondo del pallone. Ricomparve diversi anni più tardi sulle reti private e nazionali come commentatore, ironico e graffiante, ma con i capelli…bianchi. Nel mentre, anche il sottoscritto si era prodotto in una trasformazione fisica senza precedenti. Alla capigliatura a riccioli (stile Antonio Cabrini) si sostituì dapprima un’acconciatura più “istituzionale” (corta e senza fronzoli) e poi sopraggiunse la barba per compensare i capelli, che, grigi, non crescevano più. Ai jeans si sostituirono i gessati, ai giubbotti i cappotti, alle fidanzate la moglie, ai viaggi i figli…

Ad un certo punto, Paolo Rossi scomparve anche dagli schermi televisivi e di Lui non ne sentii più parlare. Sino alla notizia della Sua morte intervenuta il 9 dicembre. Dopo l’immatura scomparsa di Maradona, ora il decesso (altrettanto inatteso) di Paolo Rossi. Due calciatori e due uomini così diversi tra loro, ma entrambi uniti dal fatto di aver scritto la storia del calcio.
Ma, se la morte di Maradona è stata da me interpretata come il segno di un destino ineluttabile della stella argentina (era impossibile, per come aveva vissuto, che Maradona potesse morire di “vecchiaia”), la scomparsa di Paolo Rossi mi ha lasciato sgomento. Non riesci ad immaginare che un uomo, così “normale”, possa defungere prematuramente. Io l’ho conosciuto! Lo immagini anziano, a raccontare le favole del Mundial ‘82 ai nipotini.

Come ho scritto nell'articolo, la morte di Paolo Rossi mi ha, inevitabilmente, riportato indietro con il tempo e mi ha fatto rivivere quei momenti indimenticabili. Allo stesso modo, mi ha però indotto una riflessione. Con Lui, se ne è andata via una parte di me, anzi di tutti gli italiani calciofili che hanno superato i cinquantanni. Noi tutti dovremmo ringraziare Paolo Rossi di essere esistito.