Mi chiamo Francesco, affetti a parte, amo, in ordine sparso viaggiare, la musica, i libri, il teatro, lo sport, qualsiasi sport... ma il calcio di più.

Ci sono storie che forse non dovrebbero mai essere raccontate, che dovrebbero rimanere laggiù, da qualche parte, relegate in quel sistema selettivo della memoria che fa sì che non galleggino mai in superficie. Storie che non avresti voluto vivere, che ti hanno segnato in maniera così profonda, da non rendertene conto, altrimenti la tua vita sarebbe cambiata, anche troppo. Poi, arriva un giorno, forse perché 30 anni fa cifra tonda, forse perché è solo arrivato il momento – perché il momento giusto c’è quasi sempre – che risale da quelle grotte di memoria che la tenevano incatenata, sempre li, giù, da qualche parte, e la rigurgiti, anzi, la vomiti, perché non è una bella storia, è acida, fa male. Ma succede. E una sera, poco prima di addormentarti leggi sullo schermo del PC il titolo di uno speciale TV – io che la tv l’ho spenta da quindici anni – e lo leggi distrattamente, come qualsiasi altra notizia di passaggio, di quelle che non meritano di essere approfondite, tanto “le sai”. E, in piena alba, ti svegli, con gli occhi davvero aperti e ti torna su, violenta, tutta la storia, come se fosse appena accaduta, rumori, colori, volti, denti, grida, angoscia, spintoni, corsa, cadute, dolore, sangue, paura, panico. Buio. Colore. E ti rendi conto che quella tua storia non la sa nessuno, non per intero. Sì, qualche passaggio quasi a scivolar via, qualche frammento detto più per significare “io c’ero” che per spiegare, qualche risposta a domande precise, come a mostrare fotografie senza però dare un senso alla sequenza. Non l’ho raccontata alle madri dei miei figli, ai miei figli, alle mie compagne di vita, ai miei fratelli, né a mio padre, né alle mie madri, nemmeno ai miei amici, neppure ai colleghi di mestiere e passione, che l’avevano vissuta con me.

Alloa, 29 maggio ’85, avevo trent’anni di meno, ero alto e forte e mi applicavo intensamente a coltivare in ordine sparso, le cinque passioni della mia vita (affetti a parte): i viaggi, la musica, i libri, il teatro e lo sport, qualsiasi sport ...ma il calcio di più. ho giocato per anni a pallone 10 ore al giorno, con mia madre che, come nei film d’epoca, iniziava a chiamarmi dalla terrazza, minacciando ritorsioni e castighi inverosimili, almeno mezz’ora prima che il pranzo o la cena fossero pronti dicendo che il piatto era già in tavola, per riuscire a farmi rientrare a casa almeno mezz’ora dopo la scadenza dell’ ultimatum, ma che vuoi farci – le spiegavo io – prima Paolo Pillà o palla e porta, poi ogni 3 corner 1 rigore, quindi chi segna l’ultimo gol vince e infine chi perde paga la spuma. Lo capisci anche tu, mica potevo andarmene così ... A proposito ho vinto e ci sarebbe la maglietta da sistemare, l’avevo messa intorno al sasso per fare un palo, ma quello scemo di “tiramoscio” ha usato un sasso a punta e s’è strappata. Però poco poco. Ho giocato a pallone per tutta una vita, e non tutta per la vita, perché dopo quel giorno, il 29 maggio dell’ottantacinque, praticamente smisi, quasi senza accorgermene. A quel tempo Francesca ed io aspettavamo Camilla, avevamo appena iniziato a convivere e ci saremmo sposati dopo qualche mese. Io viaggiavo, tanto, per lavoro, in giro per il mondo, turismo, un po’ dappertutto, ogni occasione era l’occasione giusta. Figuratevi quando un collega mi propose di collaborare per organizzare dei voli charter per Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni: Juventus Liverpool. Organizzammo da Roma 3 voli charter e r pullman. Io seguivo uno dei voli. Con noi, oltre agli addetti ai lavori, accompagnatori e guide turistiche, un gruppetto di musicisti che facevano capo alla più importante radio romana di allora che avevano contribuito a promuovere i pacchetti “299.000 £ tutto compreso”: passaggio aereo + trasferimenti + city tour + visita 2 Musei + ingresso stadio. Fantastico.

Il mio volo “tutto in un giorno”, dovrebbe partire all’alba delle 6 di mattina e rientrare subito dopo la partita, 1° slot, il più ambito, perché si ha tutto il tempo a disposizione. In effetti parte verso le 11, con buona pace del Museo Reale delle Belle Arti e del Museo di Magritte, ma tant’è, non ci andiamo per quello. Con me un fido zainetto con poche cose, passaporto, guida di Bruxelles, coltellino svizzero Victorinox, documenti, chiavi e soldi, tanti, per ritirare dal corrispondente belga gli introvabili biglietti per la partita, e un libro, un giallo con la copertina gialla, rigida. Per fortuna. Decollo, 137 persone parecchie coppie, 5 o 6 famiglie con tanto di pupetti al seguito, il resto gruppetti di amici e qualche tifoso sciolto. Casino, canzoni, cazzeggio. Arriviamo con il sole, ci aspettano 3 pullman, è l’ora di pranzo, qualcuno al sacco, qualcuno panino e salsiccia nei chioschi del centro, pochi nei ristoranti. Per le strade si muove una marea disordinata di inglesi alticci, cantano, urlano, sembrano sguaiati, ma forse anche noi facciamo la stessa impressione, anche se la quantità di bottiglie e lattine seminate per terra, noi l’avevamo vista solo a Woodstock, ma lì furono 3 giorni e 500.000 persone. Il Belgio è un paese ospitale e educato, ti lascia in pace, vivi e lascia vivere, infatti per trovare una divisa, di qualsiasi tipo, a cui chiedere un’informazione, ci metto un quarto d’ora. Il Giro della città è solo una parentesi necessaria a fare tempo, con la sventurata guida locale che tenta di raccontarci in un italiano stentoreo i pregi – pochi invero – della capitale, i monumenti principali e le opere raccolte nei Musei che tanto non vedremo. L’unica architettura che ricordo di ricordare è l’Atomium, da tutti subito ribattezzato “Il pallodromo”. Una struttura colossale, 9 (mi pare) palle colossali che girano intorno ad una palla ancora più colossale. Vabbe’. A Bruxelles ci sono tornato parecchie volte, è una città deliziosa, ricca di cultura e di spessore umano, ma allora non lo sapevo.

A metà del grazioso city tour lascio il gruppo in prossimità di uno degli alberghi dove alloggiano gruppetti di tifosi più facoltosi, di quelli che possono permettersi un viaggio di 2 giorni e una notte a 499.000 £, ho un appuntamento con un responsabile dell’Agenzia locale, quella che ci ha fornito l’assistenza a terra, pullman, hotel, guide, contatti, e, soprattutto i biglietti. Dovrebbero essere per contratto quelli del settore ospiti. Mi accompagna Fabio, un collega, è venuto con me per farmi da guardaspalle, in fondo giro con più di 10.000 $ in contanti nello zainetto, vero che siamo in Belgio, paese ultracivile che vive e lascia vivere, ma così mi sento più tranquillo. A quel tempo le transazioni “cash” erano praticamente le uniche che garantivano certezza e immediatezza dei servizi, un passe-partout obbligato se volevi raggiungere rapidamente un obiettivo ambito da molti. Il mio corrispondente era lì, i biglietti anche, ma sono per un settore diverso, la curva Z, quella riservata ai cittadini belgi, e agli italiani che vivono da quelle parti, certo non proprio al centro del tifo juventino, ma tranquilla e facile da raggiungere. La “Federazione” ha deciso così. Quelli o quelli. Ok. Pazienza, strilleremo di meno. Fra 3 ore inizia la partita. Recuperiamo il gruppo vicino lo stadio, distribuiamo i tagliandi e iniziamo ad entrare in fila indiana passando per una minuscola porta in cima ad una scala di cemento alquanto malmessa. Lo stadio visto da fuori sembra malridotto, vetusto da dentro è vetusto, malridotto e scomodo, non sembra la cornice adatta per una finale di Coppa dei Campioni. Ma tant’è, fra un paio d’ore inizia la partita. La prima cosa che noto, appena mi guardo intorno è che vicino a noi, separati da una rete di quelle del giardino di casa dei miei, alta come quella del giardino di casa dei miei, è l’unica separazione dal settore inglese. Loro stanno lì, bivaccano, bevono, cantano, anzi urlano. Io, un po’ per mestiere, un po’ per caso, mi piazzo in alto, proprio vicino alla rete, parlo inglese, magari può servire, e poi posso controllare da lassù il “mio” gruppo, musicisti compresi, Anzi, quelli stanno qui, con me, meglio un paio d’ore passate ad aspettare cantando che un paio d’ore passate ad aspettare e basta. Iniziamo con “ le bionde trecce”, per forza, e dopo una “non ricordo quale”, cominciamo a fare canzoni inglesi e americane, tre o quattro in tutto, nemmeno intere, solo alcune strofe che ricordiamo a memoria, è l’85, Crosby, Still, Nash & Young, Cat Stevens, i Beatles. Loro, i tifosi del Liverpool, si associano, ubriachelli e stonati ma cordiali e, a loro modo, simpatici. Ci passano anche un paio di bottiglie di birra e modeste quantità di fumo, che noi accettiamo, solo per dovere di cortesia, ricambiando con mezza bottiglia di vino rosso e modeste quantità d’erba, che loro accettano, immagino, per lo stesso motivo. Tra noi e loro, in tutto una ventina di persone, solo la rete di casa dei miei. Va tutto bene. Dopo una manciata di minuti, a metà di “father and son”, questa me la ricordo, cambia tutto. Improvvisamente. Gli inglesi cominciano ad urlare, a spingere, a muovere la rete per romperla. I primi ad essere sorpresi sono i ragazzi che stanno cantando con noi. Il più vicino, nel tentativo di opporsi, viene preso e sbattuto per terra, il secondo, alza una mano e fa la stessa fine. Noi cominciamo a rinculare mentre una marea di magliette colorate e sudate, di barbe e capelli e braccia e gambe e grida e urla si accalca sulla rete di casa dei miei che ondeggia e ondeggia e ondeggia ancora. Scappiamo. Comincia a piovere di tutto, maglie di ferro, lattine, bottiglie, frantumi di cemento, poi pezzettini di cemento, poi blocchetti di cemento. Sono i pezzi delle gradinate che si sbriciolano come se fossero gesso. Ma è cemento. Io, allontanandomi di corsa vado ancora più in alto, anche perché è l’unico spazio libero, quasi tutti gli altri invece, musici compresi, si dirigono verso il centro della curva, quasi a volersi riparare in mezzo alla massa. La prima mazzata mi arriva su una spalla, la seconda proprio in mezzo alla schiena, fa male. Ormai si sta riempiendo anche la parte alta della curva, è come un’inondazione, tutti vanno dappertutto e non c’è un posto dove andare. Un po’ indietreggiamo poi, spinti da quelli che stiamo spingendo torniamo indietro. E gli inglesi, ancora fermi dietro i resti della rete di casa dei miei, continuano ad urlare, a sbraitare sempre più forte, non so cosa e a tirarci addosso di tutto. Vedo schiantarsi a mezzo metro da me una cassetta piena di bottiglie vuote, la vedo solo, c’è un frastuono tale che non sento neanche il rumore dei vetri rotti che schizzano da tutte le parti. Uno finisce nella guancia del povero cristo che mi sta a fianco. Rosso, Il primo sangue. Guadagno qualche metro indietro e riesco a tirar fuori dallo zainetto il giallo con la copertina dura. L’ho detto, faccio un sacco di sport, e uso il libro come se fosse una racchetta. Dall’alto piove una sassaiola che sembra infinita, vedo un pezzo di cemento che arriva e cerco di allontanarlo con il libro, poi un altro e un altro e un altro ancora. Vado avanti così per qualche minuto, cercando di capire come andarmene da lì. Le dita cominciano a sanguinare, stanno lì, esposte. Non so quanto dura, ma tanto, sono spaventato, ormai sono in mezzo ad una massa che spinge e si muove, e la gente comincia a cercare uno spazio che non c’è, le urla sono assordanti, adesso è solo rumore, come un fragore che esplode continuamente e aumenta, aumenta. Pressione, schiacciamento, smarrimento. Cominciano a cadere le prime persone. Vedo che a una ventina di metri da me c’è il muro di cinta dello stadio, vedo che sopra ci sono conficcati a protezione pezzi di vetro, vedo che sarà alto non più di due metri e penso che, tutto sommato, se riesco ad arrivare fino lì, posso farcela a saltare dall’altra parte. Alla fin fine sarà un salto di quattro o cinque metri, mi taglierò le mani scavalcando, mi romperò le gambe buttandomi giù, ma sempre meglio che restare qui, che non riesco più nemmeno a respirare. Ci provo, mi muovo, un metro, due metri, poi vengo risucchiato dalla marea umana. Mi trasporta verso il basso, verso la parte inferiore, proprio dove c’è la confusione maggiore. Un affollamento brutale, che sembra animalesco, migliaia di persone schiacciate una sull’altra che continua a schiacciarsi tra pianti, gridi di dolore, urli di disperazione. Tanti. Dappertutto. Non sono impaurito, sono terrorizzato. Mi sembra così assurdo e così cretino morire in quel modo lì. E scendo giù, sempre più giù, la pressione è insopportabile, paralizza, cado un paio di volte ma mi rialzo, cado la terza e mi piomba addosso una valanga sconvolta. Pianto i gomiti per respirare, sono a faccia in giù. Provo a rigirarmi e mi trovo faccia a faccia con una faccia insanguinata, sangue, rosso, tanto. Posso muovere solo un braccio. Ricordo una maglietta verde, un paio d’occhiali, calci, botte, rumori cupi di corpi contro altri corpi. E ancora grida, ma appena più attutite. Riesco a girarmi sulla schiena e a fare un mezzo respiro, e vedo un pezzo di cielo, azzurro azzurro, ma sta molto più in alto, fra me e quello spazio ci sono almeno cinque o sei persone. Piano piano vedo che l’azzurro si fa sempre più piccolo e che sta diventando buio, come l’eclisse di qund’ero bambino. Poi sento, un po’ più lontano uno schianto tremendo, e, se possibile, il volume delle grida di nuovo aumenta ancora. E non so come, davvero non lo so, riesco a risalire, braccio dopo braccio, mento dopo mento, gamba su gamba, sono quasi in piedi. Per farcela mi appoggio su una schiena che per fortuna non cede e mi spingo fuori, prima la testa poi le spalle, poi mezzo metro di terra tutta per me. Aria. Non so più cosa stia succedendo intorno, ma la pressione della gente adesso è insostenibile e mi spinge sempre di più verso non so dove. C’è un signore, con una bimbetta in braccio e cade, mi urla qualcosa che n on riesco a capire, allungo una mano ma vengo travolta da una forza contraria che mi sbatte da un’altra parte. Penso che non ci sia più nulla da poter fare, continuo a lottare con tutti quelli che mi stanno intorno per contendermi dieci centimetri. A forza di dare gomitate e spintoni cerco un equilibrio precario, proprio mentre una stretta, ancora più cattiva mi riafferra e mi schiaccia. Guardo in alto e quello che vedo è una montagna umana, di corpi umani senza forma, indistinguibili, che si dibatte e si scuote senza riuscire a muoversi, alta, almeno due volte me. Da dietro la disperazione delle persone calpestate è devastante. E allora, che ne so, sono alto, e forte, e faccio un sacco di sport, e mi arrampico, aggrappandomi a tutto quello che trovo, e senza più un pensiero passo sopra e poi dall’altra parte, e rotolo giù ad occhi chiusi. Una gran botta. Quando riapro gli occhi, è tutto verde, è l’erba del prato. A pochi metri dalla porta. Mi alzo come un fantasma, non sento praticamente nulla, comincio a camminare, la linea di fondo, la linea dell’area di rigore, poi, seguendo altre sette otto figure, in diagonale verso la linea laterale, verso una porta dove c’è gente che sembra normale, e attenta. Entro, attraverso uno spazio che non saprei e mi infilo in un corridoio che finisce in un altro spazio un po’ più grande. Mi fanno sedere e mi dicono di aspettare. Mi guardo intorno, sono nello spogliatoio della Juventus. Riconosco un paio di giocatori che passano veloci, poi arriva un medico un infermiere, che mi dice: sei ferito alle mani. Ed io gli rispondo anche la schiena e la spalla e le gambe e le braccia. Lui mi guarda e inizia medicarmi le dita. Le sassate prese per ripararmi con il libro. Mi mette in piedi e mi accompagna fuori consegnandomi a qualcuno. Qualcuno mi fa salire delle scale e mi ritrovo nella tribuna centrale. A destra, una sessantina di metri più in là, c’è la follia di 39 morti. Ma io ancora non lo so. Anzi, non la sa ancora nessuno. Nell’anello intorno il campo un drappello di agenti a cavallo fa il giro come se fosse una giostra. Il resto conta poco, comunque molto meno. Durante la partita recupero ragione e un minimo di tranquillità. Dopo la partita recupero i pullman, il “mio” gruppo, di 137 partecipanti, una decina conciati maluccio e recupero anche la lucidità per farmi accompagnare, prima di andare in aeroporto, nell’hotel dove avevo ritirato i biglietti per chiamare casa e dire che sto bene. Arriviamo all’aeroporto tra i primi, mi fanno storie per la mancanza delle carte d’imbarco che avrei dovuto avere tutte io, finite chissà dove insieme ai miei documenti, al coltellino Victorinox, alle sigarette e allo zainetto. Gli spiego che non ho più nulla, tranne un po’ di soldi in tasca. Gli dico anche di non rompermi i coglioni e di non romperli a nessuno degli altri passeggeri. Glielo urlo in italiano. Capisce e ci lascia passare, e gli sfilo dalla tasca anche un pacchetto di Marlboro rosse, non fumo dalle birre con gli inglesi. Saliamo sull’aereo, mi accendo una sigaretta e aspettiamo più di due ore prima di partire, mi sento al sicuro. Finalmente. I musici sono tra quelli che stanno peggio, uno ha una brutta ferita dietro l’orecchio e sanguina, un altro ha un buco sul ginocchio, il terzo una spalla lussata (ma lo saprà più tardi) e nessuno dei cinque ha più uno strumento. Sembriamo un impossibile gruppo di reduci. Finalmente decolliamo, e, solo in quel momento, mi rendo conto di avere ancora tra le mani ancora il giallo con la copertina gialla. Assurdo, non l’avevo mai mollato. Avevo corso, saltato, ero caduto, mi ero rialzato, ero finito in un quella che sembrava una fossa umana, ero riuscito a tornare su, avevo spinto, sgomitato, scalciato, mi ero strappato i jeans, la camicia, avevo perso lo zainetto, avevo scalato una montagna di corpi e mi ero ribaltato sul prato, mi avevano assistito, medicato, avevo telefonato, avevo contato e ricontato il gruppo, avevo litigato col personale dell’aeroporto ma non avevo mai lasciato quel libro. Il viaggio di ritorno è un impasto agghiacciante di silenzio e pianti. Solo poco prima dell’atterraggio qualcuno inizia a chiedere e a raccontare qualcosa.

Esco dall’aereo per ultimo e sento, dopo quasi dodici ore, che quella stanchezza non me la leverò mai più di dosso.

Torno a casa, devo suonare perché anche le chiavi erano nello zainetto, mi apre Francesca l’amica di Francesca, hanno lo stesso nome, che le ha fatto compagnia durante la notte, lei, la mia Francesca, s’è appena addormentata dice, è incinta di due mesi. Entro in camera, si sveglia, io la tranquillizzo. Poi accarezzo quella che sarebbe diventata Camilla. Ma io ancora non lo sapevo. Dico a Francesca che può rimanere a dormire con Francesca, io vado di là, in salotto, tanto non ho sonno; mi sdraio sul divano, fumo l’ultima sigaretta del giorno e mi addormento. Da allora sono rientrato in uno stadio dopo quasi 20 anni con mio figlio Bernardo, perché le paure dei padri non devono diventare quelli dei figli, che ne hanno già troppe. Ecco, mo’ l’ho raccontata ... e poi? Non lo so, ma credo di aver fatto bene, e non perché debba interessare a qualcuno, è solo una storia mia, che non è il racconto di un fatto accaduto, quello è già stato sezionato e ripassato migliaia di volte, 39 morti; 5 agenti di polizia in tutto lo stadio; 28 agenti di polizia fuori lo stadio all’inseguimento di un ladro di salsicce!

E’ solo una storia che mi sono tenuto dentro per trent’anni e, sapete che c’è? Mi sento più leggero, mi sento meglio.