Nel vocabolario della squadra capitolina troviamo questo: “Tutto passa ma la Roma resta”. Una sorta di comandamento scritto nel DNA dei tifosi o negli striscioni da stadio o quelli esposti fuori ai cancelli di Trigoria. Una frase indirizzata a tutti, che siano giocatori, dirigenti, presidenti, insomma, chi più o chi meno, ognuno con la sua fetta professionale, una volta che salutano la Capitale, gli si viene dedicata questa frase. Così, anche se sono stati pittori di un quadro mozzafiato o se, semplicemente, hanno sporcato la tela di cui non valeva nemmeno la pena vederlo. Poi c’è la fascia dei privilegiati, quelli che di Roma hanno fatto la storia e che vengono omaggiati nella Hall of Fame e gli viene conferito il giusto contributo meritevole per i traguardi ottenuti. Chi non troveremo in questa benedetta Hall of Fame è il tanto “amato” James Pallotta, il quale ha firmato i contratti preliminari per la cessione della società. Un rapporto di odi et amo quello tra i tifosi e l’ormai prossimo ex presidente della Roma: tante promesse, pochi fatti. Un rapporto incrinatosi già da diverso tempo, quando con le parole si cercava di ammaliare e ipnotizzare i tifosi, ma si sa, l’effetto narcosi non dura per molto tempo e, pian piano, hanno cominciato a svegliarsi, scoprendo di non appartenere più al paradiso promesso, ma di essere sulla Terra come tutti quanti. A questo si sono susseguiti diversi eventi: il più eclatante e che ha definitivamente portato alla rottura, è stata un’intervista, dove James Pallotta definiva alcuni tifosi dei “fucking idiots” e che ha smosso l’ira della Curva Sud. Il non venire mai a Roma, ma utilizzare degli pseudo-consulenti che gestissero direttamente da Trigoria il tutto, ha sempre visto Pallotta non come un presidente, ma come un “proprietario di un’azienda” dove almeno, in quest’ultimo caso, un vero proprietario ci mette la faccia. Un mare in tempesta che portava a riva solo detriti, fin quando poi non c’è arrivato il rinnovo contrattuale di Totti e De Rossi: un gesto che l’ha sancito definitivamente alla gogna.   Per gradi, ripercorriamo il percorso seminato da James Pallotta.

Tante promesse ma pochi fatti: in nove anni la Roma ha alzato un bonsai

Non voglio essere duro con i tifosi giallorossi, ma è la pura e mera verità. Un Presidente che appena è arrivato ha promesso il paese dei balocchi e che invece si è trasformato in un parco in cui ogni anno si vede affisso il cartello “apertura rimandata al prossimo anno”. Ogni anno è stato l’essenza del sarà per la prossima volta e questo non ha fatto altro che spegnere l’entusiasmo della piazza. La delusione più cocente arriva nel 2013, quando, dopo una stagione abbastanza deludente, infarcita da alti e bassi, la Roma si trova a sfidare la Lazio per la finale di Coppa Italia. Un trofeo che non vale solo la decima Coppa Italia, ma vale l’onore, la dignità, una vittoria nel derby, specie se una finale, non solo salverebbe un’intera stagione, ma significherebbe solcare un sentimento che si porterà avanti per anni e per secoli. Nemmeno se si fosse ripetuto in una finale di Champions avrebbe avuto lo stesso peso, perché sarebbe stata una replica, una perdita dell’aura originale che non avrebbe trovato conforto in nessun altro avvenimento. Eppure, anche l’unica occasione, è stata buttata via, creando una cicatrice immensa nella storia della Roma. “Sono arrivati gli americani a Roma”, una sorta di liberazione, dove la seconda Guerra Mondiale era all’interno del tessuto giallorosso. Una Roma che è stata salvata, ma che poi è stata rigettata in pasto alle delusioni ed è annegata per sempre – in questi anni – in un oblio della felicità. Cosa se ne fa la Roma di una semifinale di Champions, di tre secondi posti, di una finale persa, di due 7-1 (di cui uno in casa) e di un’alzata di bonsai? Nelle bacheche vengono affissi e permangono i trofei, oggetti inanimati destinati a conservare il ricordo per l’eternità. Il fatto di essersi avvicinati alla vittoria, rende i tifosi ancora più immersi nella frustrazione e ne conserva solo un rimasuglio amato, come granelli di sabbia che alla minima folata di vento si mischiano con altrettanti granelli di sabbia.

Un’indecisione esagerata

Forse uno degli errori più grandi che la gestione Pallotta potesse andare incontro. Di sbagli ne sono stati stillati molti, ma questo è da evidenziare in maniera eccessivamente marcata. Non si può pensare di rendere grande un club se poi ogni anno si va incontro ad una rivoluzione. Non si può affermare “in cinque anni vinceremo tutto, come ho fatto con i Boston Celtics”, quando non c’era cura, premura nei confronti delle scelte importanti. Dapprima un modello Masia, quello scelto dal Barcellona e che sforna talenti quotidianamente; poi un modello Godot, aspettando l’arrivo di un qualcosa di concreto, che a tratti sembrava fosse imminente - scudetto, coppa Italia, Champions addirittura - ma che poi si è trasformata in vapore non appena si stavano toccando per mano. Un impero - quello della Roma - che se avesse lasciato, non tutti, ma la maggior parte dei grandi giocatori, ora le promesse di Pallotta e il sogno dei tifosi, avrebbe senso, concretezza e non sarebbe la solita utopia di cui sono abituati a vedere. Ma con gli anni il buon James ci ha indirizzato verso il suo tipo di atteggiamento, e cioè che “il calcio è come un’azienda e quindi i calciatori si salutano cordialmente e poi si continua a lavorare”. E come vedremo, nei paragrafi successivi, ce ne sono stati di calciatori che hanno salutato, che hanno preso le valigie con i loro averi, per portare valigie piene di soldi nelle casse del Presidente. L’AS Roma è un’azienda, così è sempre stata considerata da Pallotta e così lo è stata con il passare degli anni. Un’azienda che ogni anno produce un certo fatturato, a seconda dei risultati ottenuti: se questi sono buoni, i giocatori rimangono, altrimenti, si stringono la mano e si ritroveranno, forse, in campi avversi. Anche se qui, posso aggiungere che non è solo e soltanto colpa di James Pallotta. Da buon imprenditore, sa che per avere un esoso fatturato bisogna avere ciò che glielo porta. I risultati? Anche, ma non solo. Parlo dello stadio. Seguendo un modello inglese, dove ogni squadra possiede uno stadio di proprietà (non a caso anche le squadre retrocesse possono permettersi di spendere cifre che qui da noi, forse, si possono permettere chi va in Champions) e dove il fatturato è abbandonante al di là dei risultati. Ovvio che questi ultimi contano, ma con esso, si sarebbe garantito quasi sicuramente un destino diverso. E su questo Pallotta è stato coerente. È stata la prima pietra miliare che voleva incastonare. E invece niente. Tutto bloccato dal 2012, senza mai un inter burocratico che ha visto la luce. L’ormai ex presidente giallorosso lo disse: “senza uno stadio non saremmo mai un top club”. Di crescita la Roma ne ha avuta, senza ombra di dubbio, ma fatto sta che ogni anno si è vista costretta a vendere giocatori pregiati, i migliori e spesso anche alle rivali. Non sapeva a cosa sarebbe andato incontro e voleva costruire un qualcosa che qui a Roma non s’era mai visto, ed ecco che a galla sono saliti scandali politici, ostacoli idrogeologici, problemi sulla viabilità, insomma, di tutto e di più. “Senza uno stadio io me ne vado”. Detto fatto: lo stadio non c’è e, ormai, nemmeno più Pallotta.

O tutto o niente

Una politica ambiziosa, ma un po’ meno reale in abito gestionale. Perdipiù se Mr. Pallotta considera – o considerava – l’AS Roma come un’azienda. Proprio perché si sta parlando di un settore – quello di una società calcistica – da mandare avanti, composti da varie organizzazioni – dirigenti, staff, medici, fisioterapisti e via dicendo – e dipendenti – i calciatori – non si può adottare una politica così selettiva. L’ho ribadito nel paragrafo precedente: il problema legato allo stadio non è un problema che si può addossare all’ex presidente giallorosso. Al massimo si può affermare che è andato incontro – a sua insaputa – in un tunnel senza fine e senza luce, ma sicuramente non è dipeso da lui il mancato progetto. La colpa che invece può essergli addossata è stata la mancanza di un piano B. Per Pallotta questo non esisteva. Sarà stata l’estrema convinzione di veder luce ad uno schizzo su carta, sarà stata la ventata di positività portata prima da Marino e poi dalla Raggi, ma poi le emozioni sono rimaste tali e, di conseguenza, non si sono tramutate in azioni. In tutto questo tempo, James, è rimasto con le mani in mano, a rimuginare quanto è importante possedere uno stato di proprietà. Lo è, nessuno lo discute, ma dal momento che questa possibilità non esiste, è bene adottare altre politiche, economiche o gestionali che siano. E questo non è stato fatto.

I due voltafaccia della comunicazione

Già, perché in quest’era Pallotta, è possibile identificare due tipi di comunicazione che dovrebbero viaggiare all’unisono, ma che invece hanno viaggiato e, continuano a farlo, su binari completamente diversi. Se volessimo partire dalla comunicazione esterna, beh, devo dire che è stata impeccabile. Una gestione sui social senza nulla da ridire. Anzi, dal 2019, l’AS Roma ha annunciato una partnership con l’associazione benefica Missing People, una collaborazione per dar risalto alla campagna di sensibilizzazione sui bambini scomparsi in terre scozzesi, inglesi e gallesi. Insomma, per ogni acquisto, la Roma metteva il volto di un bambino scomparso con la speranza di ritrovarlo (una bambina è stata anche ritrovata). Una collaborazione fantastica, che dava un’immagine pulita della squadra. Così, inoltre, come le pagine Facebook, Instagram, Twitter, fino a YouTube, influendo sul fatturato – relativo ai followers, ma anche economico – sempre più preponderante. Questo ha garantito al club una conoscenza anche nei paesi esteri e intercontinentali, dando vita anche a diversi FanClub. Senza parlare del brand Nike. Insomma, la comunicazione esterna è stata impareggiabile e ha dato un nuovo volto alla Roma, facendole raggiungere livelli mai visti e pensati negli anni precedenti (anche se, prima dell’era Pallotta, i social avevano un’importanza minore rispetto al periodo attuale). Se però, dobbiamo impartire degli appunti sulla comunicazione interna, rabbrividisco. Roma Radio è stata innovativa, ma la sposterei più un piano di esportazione piuttosto che di importazione. Tutte le radio romane, che hanno circumnavigato con i loro discorsi il perimetro della squadra, non sono mai state d’aiuto, anzi, il più delle volte si sono dimostrare deleterie. Questo ha creato delle spaccature all’interno dello spogliatoio sempre più numerose. Le radio, così come anche i giornali e i quotidiani sportivi influivano, e non poco, sul morale dei giocatori. Il fatto che mancasse una protezione, il fatto che non ci fosse qualcuno alle loro spalle che li difendesse a spada tratta (tra l’altro è stato quello di cui Conte ha accusato la società), ha portato ad alcuni di loro a lasciare le mura di Trigoria e trovarsi di meglio altrove. Guardate Schick ad esempio: bene con la Samp, male con la Roma (spesso ricopriva un ruolo non suo), bene con il Lipsia. Due domande me le porrei. Tutti quei castelli che venivano costruiti dai giornali e dalle radio, dove non poggiava quasi nessun fondo di verità, hanno permesso di avere numerose visite dai lettori o dai radioascoltatori, portandogli guadagno ovviamente. Ma senza nessun intervento della società, del Presidente in primis, questo via libera si è trasformato, giorno dopo giorno, in un buco nero, dove tutto è stato risucchiato al suo interno. Terreno fertile per chi inventava contenuti, terreno completamente arido per i giocatori, costretti a sentire idiozie e invenzioni su di loro e cibandosi ire ingiustificate dei tifosi allo stadio perché assoggettati dai mass media. La nuova società dovrà lavorare molto a questo.

James, dove sei?

Senza una guida, senza un leader, senza un timoniere, la nave è destinata ad affondare. All’interno dello spogliatoio, questo non c’è stato. C’era sempre chi lavorava a distanza – Baldini e lo stesso Pallotta – come in un infinito smart working e un Baldissoni che ricopriva le veci del presidente. Ma tutto questo non è normale. Il proprietario deve sapere cosa accade e non saperlo da altri. Quello che è accaduto a Roma è stato una sorta di guerra interna tra bande in continuo fermento, dove uno cercava di dominare sull’altro. Il fatto di non avere una figura di riferimento, né per i dirigenti e né per i calciatori, faceva in modo che ognuno curava i propri interessi e non quelli della società. In questi anni, non c’è mai stato un bene comune, ma un bene individuale, un bene che guardava solo a livello personale. Un continuo dominarsi a vicenda che è sfociato in accuse senza un minimo di freno. Quando Totti se ne andò dalla Roma – non da calciatore, ma anche da dirigente – fece delle dichiarazioni che scatenarono punti interrogativi e sbalordimenti vari che nemmeno fosse Tangentopoli. Servono pochi uomini e una gestione pulita, priva di impurità. Tanti uomini non servono a nulla, ma solo a suscitare fermenti, insoddisfazioni e rivalità. In una gestione, specie all’interno di una piazza delicata come quella della Roma, è necessario una figura carismatica. Non esagero affermando che serve un romano che ami la squadra, ma un imprenditore che, perlomeno, si presenti allo stadio, che faccia i complimenti ai ragazzi quando le cose vanno bene, che li rimproveri quando hanno dimostrato svogliatezza e scarso impegno, che li supporti nel momento del bisogno e che li difenda dalle intemperie che ci sono fuori Trigoria. Pallotta è stato l’unico presidente che era l’ultimo a sapere le cose. Delegare una persona che ne faccia le sue veci, dire Forza Roma in smart working non va bene.

Un pass per le grandi

La crescita c’è stata. Questo, a differenza di altre cose, è un dato oggettivo e più vero dei “dati” non c’è nulla: nel 2011, quando la squadra giallorossa venne ceduta dalla famiglia Sensi, il valore si aggirava intorno ai 120 milioni di euro; ora, leggendo il comunicato, il club porta con sé un valore di 591 milioni di euro che, senza la pandemia, sarebbero stati anche di più. La società americana ha creato un’aura magica, che mai prima d’ora si era respirata a Roma. I trofei non sono arrivati, è vero, ma mai, in tutta la sua storia, il club è stato così competitivo, pronto per stare ai vertici della classifica e audace nello scalare il ranking Uefa. Con il suo “odiato” quinto posto, la Roma è stata costante, e mai, prima del periodo inerente al 1928-1936, è stata tra le prime sei consecutivamente. Tutto questo, ha creato non pochi scompensi nei sentimenti dei tifosi: se adesso arrivano lamentele per un quinto posto, significa che per tutto questo tempo sono stati abituati a traguardi molto più competitivi, e questo, a mio modo di vedere, è un segno da cui ripartire. Competitività. Non solo, una semifinale di Champions arrivata in maniera casuale, inaspettata, per giunta rimontando una delle squadre più forti al mondo. Un risultato che le ha permesso di arrivare in dodicesima posizione nel ranking europeo. Insomma, un traguardo appagante. Senza poi dimenticare il record di punti raggiunti con Spalletti: 87 (che di solito ci si porta a casa lo scudetto) e miglior score nella storia della Roma. Si, è vero, nessun trofeo, ma tutto questo deve porre le basi per costruire la nuova Roma. Pallotta ha preso una squadra acciaccata, piena di turbazioni e l’ha resa elegante, bella e anche raffinata in terre estere (anche se con qualche sbandamento). Il nuovo proprietario, avrà già il piatto pronto e quello che dovrà fare è rimediare ai restanti errori collezionati negli anni precedenti. Non sarà semplice, ma il foglio compilato ce l’ha, deve “solo” portarli a termine.

Un americano a Roma: Bradley l’unico calciatore a stelle e strisce

103 calciatori acquistati nell’era Pallotta. Alcuni sono rimasti nei cuori dei tifosi, altri sono finiti nella parte dedita all’odio più profondo e, altri ancora, finiti nel dimenticatoio, non solo mnemonico, ma anche professionale. Andiamo per gradi: stagione 2011-2012: Pjanic, uno dei giocatori più graditi della platea giallorossa. Un acquisto sopraffino, come il suo modo di fare in campo, accompagnato da una galanteria tale nell’accarezzare il pallone che verrà poi strappato dalla Juventus. Oggi è al Barcellona; Heinze, un ricordo vago perché durato poco. Di certo non fu disastroso come alcuni che vedremo più in là; Borini, famoso per l’esultanza che gli vedeva il “coltello fra i denti”. 24 presenze e 9 gol, non il massimo, ma nemmeno così disastroso da condurlo nell’Inferno; Josè Angel, un contratto quinquennale, 1.25 milioni lordi a stagione e 32 presenze tra coppa e campionato. L’anno dopo andò alla Sociedad. I tifosi non si sono dimenticati di lui, peccato che non ne conservano un dolce ricordo; Kjaer, oggi in forza al Milan, ma ha avuto una parentesi a Roma. È stato fortemente voluto da Walter Sabatini (l’ex ds della società giallorossa) che lo conosceva sin dai tempi del Palermo. Come accennato sopra, giusto una parentesi; Lamela, uno degli acquisti migliori dell’era Sabatini. Un giocatore squisito, che sapeva incantare i tifosi con le sue giocate e i tiri di precisione, mandando in estasi chiunque. Due anni di Capitale, con l’exploit conosciuto con Zeman in panchina. Venne acquistato poi dal Tottenham. Operazione guidata da chi? Baldini, che nella breve esperienza inglese, l’ha strappato da Trigoria. Un amore, quello tra i beniamini giallorossi e l’argentino, che non è mai cessato; Marquinho, due anni di Roma, due anni di nulla; Junior Tallo, un giocatore promettente, che fece palpitare il ds della Roma. Prelevato dall’Inter, con la Primavera giallorossa, realizza 17 gol in 16 presenze: numeri paurosi che gli valgono la convocazione in prima squadra e una prima parte di riscatto del suo cartellino. Nella stagione successiva, viene riscattato completamente, ma la sua carriera naufragherà tra i prestiti;

stagione 2012-2013: Bradley, il primo americano a Roma nella storia giallorossa. Un giocatore che non presenta chissà quali grandi qualità, ma viene ricordato per l’ottava vittoria consecutiva di Rudi Garcia sulla panchina: giallorossi in dieci contro l’Udinese, una percussione e il pallone va in gol; Castan, un difensore che rimarrà per sempre nel cuore dei tifosi, che siano della Roma o meno. Leale, pulito e bravissimo negli anticipi. Più passava il tempo e più si guadagnava il rispetto del mister e della tifoseria, arrivando ad un prolungamento del contratto fino al 2018. Poi, però, la sua carriera è radicalmente cambiata a causa di un intervento chirurgico causato da un cavernoma. Le prestazioni purtroppo cambiano, ma l’amore nei suoi confronti mai; Ivan Piris, l’eccessiva foga del ds sabatini verso i giocatori uruguaiani lo portava a fare diverse follie. Lui era una di queste. Impeccabile nell’assist a Mauri nel derby contro la Lazio perso per 3-2; Balzaretti, il gol al derby lo fece commuovere sotto la Sud, sciogliendosi quei capelli biondi che, in contrasto con il volto rosso, facevano di lui, un vero giallorosso. A causa della pubalgia, si ritirò dal calcio giocato; Destro, uno dei più grandi misteri del calcio italiano. A tratti svogliato e spesso incostante. Il 2014 fu la sua stagione migliore: 20 presenze e 13 gol in campionato, con una media realizzativa di una ogni 93 minuti, la migliore in Serie A. Poi, però, profondo rosso; Tachtsidis, uno dei giocatori più scarsi dell’era Pallotta. Zeman lo preferiva a Pjanic: nulla da ridire al mister, sicuramente più competente di me, ma i curriculum dei giocatori spiegano tutto; Marquinhos, a 18 anni arriva alla Roma e se la prende. Prestazioni maiuscole per un ragazzo così giovane che ha sempre manifestato la sua fede giallorossa ai tifosi. L’anno successivo passa al PSG per 31,4 milioni di euro, regalandolo una plusvalenza monstre. L’altro ieri, è stato l’artefice di uno dei due gol che hanno spento il sogno dell’Atalanta a tre minuti dalla fine; Dodô, un giocatore che ha diviso la piazza: c’è chi ne rimaneva soddisfatto e chi invece non poteva vederlo per rischio di congiuntive agli occhi. Numerosi punti interrogativi, come un po’ la sua carriera, condizionata da numerosi infortuni; Goicoechea, non commento per rispetto dei tifosi; Torosidis, impegno, sudore per la maglia. Un giocatore sempre rispettato dalla tifoseria a cui non mancava il vizietto del gol;

stagione 2013-2014: Gervinho, soprannominato la freccia nera. Arrivato a Roma insieme a Rudi Garcia, quest’ultimo lo volle fortemente, anche perché fu uno degli artefici dello scudetto con il Lille. Il primo anno fu devastante: corsa, velocità, ubriacava qualsiasi difensore, peccava un po’ in fase realizzativa, ma se avesse segnato la maggior parte dei gol mangiati, oggi staremmo parlando di Neymar. Di ritorno dalla Coppa d’Africa qualcosa era cambiato, ma è stato sempre amato dalla piazza; Maicon, un giocatore fenomenale all’Inter e lo è stato anche alla Roma. Tecnico, amante della fase offensiva, accelerate perentorie, poi però un lento declino. L’età non aiutava, ma il primo anno è stato magico, come quello della Roma; De Sanctis, arrivato da Napoli con furore ha portato tanta esperienza, ma anche qualche “paperata”, come quella contro il Sassuolo di Zaza. Oggi è nella dirigenza, ma anche lui è stato amato a metà, e ancora oggi viene ritenuto – da alcuni – una specie di spia dell’ambiente giallorosso; Benatia, stesso destino di Pjanic. Giura amore eterno ai giallorossi, ma poi minaccia la dirigenza che, se non lo avessero ceduto, non si sarebbe presentato mai in campo e nemmeno agli allenamenti. Viene ceduto al Bayern Monaco l’anno dopo, per 26 milioni e 4 di bonus; in seguito passerà alla Juventus e poi al club qatariota dell’Al-Duhail. Ieri sono uscite alcune clausole sulla cessione che hanno fatto storcere il naso ai rappresentanti della Fifa. L’amore con i tifosi è durato un anno, basta sentire la “calorosa” accoglienza che gli riserva – ormai riservava – l’Olimpico; Ljajic, giocatore tecnico, ma con tanta incostanza; Nainngolan, il giocatore più amato dalla piazza giallorossa. Partite mostruose, infaticabile, favoloso nella protezione del pallone, abile negli assist, preciso con i tiri: la tifoseria, ogni volta, gli regalava il coro “Ollele, ollala, Radja Nainggolan, Radja Nainggolan”. Fu ceduto per i suoi eccessivi sbandi serali, anche se in campo non ha mai mostrato nulla di dubbioso. La cessione all’Inter non si sa se fu più dolorosa per lui o per i tifosi.  L’ultima volta che ha varcato l’Olimpico era l’1-1 contro il Cagliari: una standing ovation da far venire i brividi. Belga, ma romanista, la Roma non si dimenticherà mai di lui; Strootman, soprannominato la “lavatrice” perché ripuliva tutti i palloni sporchi a centrocampo. Un giocatore di sostanza, grintoso, che metteva timore solo a guardarlo. Un giocatore che, rompendosi due crociati, aveva perso quella verve di inizio anno, ma ha sempre sudato per la maglia. La cessione all’OM a mercato chiuso, fu una delle operazioni più discutibili di Monchi; Jedvaj, un giocatore che doveva essere un talento, ma è stato solo un grande equivoco; Bastos, lo si ricorda solo perché alzò la sciarpa sotto la Sud con scritto “Lazio me**a”, poi, però, chiese scusa alla società biancoceleste; Toloi, non ho mai compreso il perché la Roma non esercitò il riscatto su di lui. Ora è un inamovibile dell’Atalanta; Skorupski, poche apparizioni, causa il suo ruolo di secondo portiere. Apparì in Europa League contro la Fiorentina persa per 0-3: imperdonabile il suo errore. Ora titolare fisso del Bologna;

stagione 2014-2015: Davide Astori, il ricordo vive nel cuore di chi resta; Ashley Cole, arrivava un giocatore con più trofei della Roma, ma prestazioni che lo rendevano irriconoscibile. Preso in giro sui social per quella foto di gruppo che lo ritraeva lontano dai compagni e anche per un’Atalanta Roma che, nei duelli contro Cristiano Raimondi, li perse tutti. Addirittura il giocatore della Dea lo chiamarono CR77; Manolas, uno dei difensori più forti dell’era pallottiana. Se penso ad una difesa con lui, Marquinhos e Benatia mi brillano gli occhi. Il ricordo di questo giocatore è intriso nel suo volto, dopo il gol del 3-0 al Barcellona, la notte più bella per i tifosi da inizio millennio. È andato via dalla Capitale “per andare a vincere” a Napoli, portando a casa la Coppa Italia. Le prestazioni non sono mai brillate come a Roma. L’accoglienza all’Olimpico era la stessa riserbata a Pjanic e Benatia; Keita, prelevato al Barcellona, portò alla Roma tanta esperienza e un bagaglio di trofei; Iturbe, il giocatore più caro – all’epoca – pagato nella storia giallorossa. Un buco nell’acqua per molti, ma tanti interrogativi. Dopo l’infortunio patito a ottobre contro il CSKA, la sua carriera sarà segnata per sempre. Qualche anno dopo Sabatini dichiarerà che il giocatore non aveva mai smaltito l’infortunio, ma giocava ugualmente; bisognava operarlo, ma non l’ha mai fatto. Alla Capitale realizzò due gol pesantissimi: uno contro la Juventus, l’altro contro la Lazio; Emanuelson, uno di quelli cui nessuno possiede chissà quale grande ricordo; Yanga-Mbiwa, non particolarmente amato dalla piazza, a causa delle sue prestazioni poco lodevoli. Nella sua breve esperienza, realizzerà il gol al derby contro la Lazio di testa: un importante pass per la Champions. Sarà rimembrato “solo” per quello; Holebas, un terzino particolare: incuteva timore, aveva delle percussioni incredibili ed era molto grintoso. La cessione destò un po’ di perplessità. Famoso per l’eurogol contro l’Inter; Paredes, un gioiellino che aveva tanta personalità. Trovò spazio con Spalletti alla guida della panchina. Con un po’ più di esperienza, sarebbe diventato un ottimo centrocampista per la Roma. Ora è al PSG; Uçan, un acquisto misterioso; Sanabria, non ha mai trovato spazio con la Roma, ma ovunque è andato, ha dato modo di mettere in vetrina le sue abilità. Un giocatore che a me piace, ma sicuramente non da Roma; Doumbia, uno degli acquisti più errati dell’era Sabatini. Nemmeno il giocatore sapeva perché si trovava lì nella Capitale. Bersagliato dai tifosi e dai media, fece ben presto le valigie. Due gol nella città eterna; Ibarbo, pazzesco a FIFA, il videogioco. Solo lì però. Fece un assist a Iturbe valevole per il derby. Ricordo solo questo; Spolli, prelevato dal Catania che militava in Serie B. Venuto alla Roma per fare la riserva, della riserva, della riserva. Esordio da titolare nell’ultima contro il Palermo: una presenza, un rosso, un rigore causato e partita persa per 1-2. Insomma, la descrizione perfetta se qualcuno mi chiedesse “Ehy, allora, com’è andato questo 2020?”;

stagione 2015-2016 Szczesny, ha fatto “paperate”, ma fu imperioso nella parata a Bonucci contro la Juventus vinta per 2-1. Due anni di prestito dall’Arsenal, non venne riscattato, ma fu acquistato dalla Juventus dove, oggi, è il titolare dei pali; Salah, a mio modo di vedere, l’ala più forte della storia giallorossa. Gol, assist, velocità, sembrava la reincarnazione perfetta di Gervinho. Fece faville con Dzeko l’anno dopo, ma poi fu ceduto al Liverpool per 42 milioni + 8 di bonus, raggiunti quasi tutti. Motivo? Servivano soldi; Falqué, esplosivo nella fase precampionato, devastante contro la Juventus, sembrava che la Roma avesse trovato l’ala sinistra giusta. Poi si è perso con il tempo e la sua carriera ha preso una lenta discesa; Dzeko, basta il nome per descrivere un giocatore come lui. Gli ho dedicato un articolo che trovate sulla mia pagina personale di calciomercato. Segna, realizza assist per i compagni, altruista, è leader e capitano della Roma (lo sottolineo, perché c’è anche chi è capitano ma non è leader), torna nella fase di ripiego, è quarto nella classifica marcatori della storia giallorossa con Pruzzo nel mirino, fa sponde e potrei continuare all’infinito. L’unico difetto? Prima o poi dovrà smettere; Digne, arrivato con un prestito oneroso a 2,5 milioni con diritto di riscatto dal PSG. Buone prestazioni, ma la Roma, evidentemente, non poteva permettersi di spendere troppo e venne rimandato al mittente con l’amaro in bocca. Venne acquistato dal Barcellona. Ora è all’Everton di Ancellotti; Rüdiger, ero felice quando è arrivato, nonostante l’infortunio ancora non smaltito e che gli ha rallentato la preparazione. Lo conoscevo e secondo me la Roma aveva fatto un ottimo acquisto. Ha incontrato parecchie difficoltà nell’adattarsi al nostro campionato, ma pian piano migliorava, anche se poi, l’infortunio al crociato bussò alle sue porte. Due anni dopo, con l’arrivo di Monchi, venne ceduto qualche mese dopo che il ds ex Siviglia disse “La Roma non è un supermercato [...]”. Ora in forza al Chelsea; Vainqueur, giocatore abbastanza inusuale; Gyomber, incomprensibile il suo riscatto; Emerson, un giocatore che aveva trovato la fiducia di Luciano Spalletti, migliorando partita dopo partita. Si ruppe il crociato il giorno dell’addio di Totti, ma il suo infortunio scivolò in agenda dei media, tant’è che molti nemmeno ne erano consapevoli di ciò. A gennaio 2018 venne acquistato dal Chelsea per 20 milioni più 9 di bonus; Sadiq, 6 presenze e 2 gol. Si era fatto notare con la Primavera, ma non ebbe poi così tanta risonanza in prima squadra. Un fuoco di paglia che, ora, lo vede in forza al Partizan in Serbia; El Shaarawy, un faraone a Roma. Quasi mai incostante, ma sempre buone e belle prestazioni. Voluto fortemente da Spalletti portò una ventata di aria fresca in quella stagione, confermandosi totalmente in quella successiva. Venne ceduto in Cina, portando un dispiacere enorme alla tifoseria. A mio modo di vedere è stata una cessione senza senso, dettata dall’impulsività che nemmeno ha dato il tempo di pensare al giocatore. Questo gennaio giravano voci che lo avrebbero visto tornare alla Roma, ma così non è stato, forse il Covid-19, in quella che era la sua fase embrionale, bloccò tutto; Zukanovic, uno di quegli acquisti fatti per riempire la panchina; Perotti, chiamato El Monito. Un calciatore che alla Roma serviva, visto che era l’unico in grado di puntare l’uomo e saltarlo. Aveva una capacità incredibile di andare sul fondo, trovare il cross e imbeccare i marcatori. Parlo al passato perché i suoi infortuni non lo hanno reso splendente come prima. Di ghiaccio quando calcia i rigori, rendendolo infallibile; adesso, un passo dall’addio;

stagione 2016-2017: Alisson, è stato per un anno il protettore dei pali giallorossi. Per un anno è stato il vice Szczesny, poi ha preso il suo posto e non necessita di descrizioni. Alla Roma impostava lui, dribblava gli attaccanti e giocava, a volte, fuori la sua porta. Probabilmente è il portiere più forte al mondo e se n’è andato ai Red Devils per una cifra che si aggirava intorno ai 73 milioni compresi bonus; Vermaelen, un giocatore non adatto al nostro campionato e ha fatto patire le pene dell’inferno ai suoi tifosi e anche alla sua coscienza; Juan Jesus, la partita più bella, più prestante e aggiungerei perfetta, la fece contro il Barcellona, paradossalmente, marcando Messi e scambiandosi il mantello dell’eleganza per un giorno. Per il resto è stato un teatrino di accuse da parte dei tifosi; Bruno Peres, un’altalena di emozioni. Mai costante, è stato caparbio nell’impresa semifinalista della Roma in Champions: quel piede magico, davanti la linea di porta, ha permesso alla Roma di ospitare lo Shakhtar con tranquillità all’Olimpico. Un paio di prestiti e quest’anno è ritornato a Trigoria. Con il nuovo modulo sembra aver ritrovato serenità, perlomeno nella fase offensiva; Fazio, monumentale appena arrivato, poi nell’ultimo paio d’anni un crollo fisico. Lento, stoppaccioso, macchinoso. Da titolare inamovibile a riserva fissa. Forte nei colpi di testa e aggressivo negli anticipi. Disastroso, però, negli 1vs1; Gerson, si dice che se avesse vinto il pallone d’oro, il Barcellona avrebbe dovuto dare alla Roma all’incirca 150 milioni di euro e, automaticamente, diventava un loro giocatore. Lo hanno visto anche con la 10. Non so se ho letto quotidiani reali o se ho navigato nei sogni del brasiliano; Grenier, trasparente: nessuno si è accorto che arrivasse e nessuno si è accordo che se ne andasse; Mario Rui, non fortunato nella sua brevissima esperienza capitolina: viene acquistato dall’Empoli e poi si rompe il crociato a Boston; torna a gennaio, ma davanti a sé trova un esplosivo Palmieri. Ora è in forza al Napoli di Gattuso;

stagione 2017-2018: Kolarov, ha subito causato l’ira irrefrenabile dei tifosi della Roma, causa il suo curriculum da ex laziale, che gli è valso anche un gol straordinario al derby. Con il tempo, però, lo fa dimenticare ai tifosi, grazie alle sue ottime prestazioni. Prestazioni che vanno scemando con il passare degli anni: in fase realizzativa rende meglio di alcuni attaccanti, ma, probabilmente per l’età, è dannosamente goffo negli anticipi di testa e nella fase di ripiego; Defrel, classico giocatore esplosivo nelle altre squadre e corrosivo a Roma. Dopo la parentesi giallorossa, non riuscirà nemmeno più ad incidere negli altri team; Lorenzo Pellegrini, il futuro della Roma. In tanti dicono che sarà l’erede di Totti e che indosserà la 10. In questa stagione ne ha fatti di lanci abbastanza nostalgici che baciavano il passato, ma a causa di alcuni infortuni, non ha ancora ritrovato la sua piena condizione. Forse, sarà l’ultimo che continuerà la dinastia del romanismo a Roma; Under, giocatore dinamico. Anch’esso è stato vittima di infortuni che non gli hanno permesso mai un’annata continua. Ogni qualvolta che sembra quella giusta, ecco che si presenta dal fisioterapista. Nel complesso, un’ala veloce, duttile, abile nella corsa e negli 1vs1, con un ottimo tiro dalla distanza. Ora è un passo dal Napoli per sostituire il partente Callejon; Moreno, è stato il primo acquisto dell’era Monchi. Non un buon inizio direi; Schick, il giocatore più pagato - e che ancora continua a pagare – nella storia della Roma. Un giocatore inutile alle richieste di Di Francesco. Un giocatore sbagliato al momento sbagliato. L’obiettivo era Mahrez, ma poi, sfumata la trattativa e per non vedere inferocita la folla giallorossa, ecco che il buon ds spende 40 milioni – dilazionati in cinque anni – alla Samp. Forse ritorna nella Capitale dopo un anno positivo al Lipsia; Gonalons, giocatore lento e macchinoso. Sbagliato per quel centrocampo e anche per la maggior parte direi; Karsdorp, doveva essere un terzino pazzesco, ma il ragazzo biondo olandese sarà vittima di numerosi infortuni. Qualche sporadica buona prestazione, il resto, carta straccia. Dichiarerà di essersi sentito abbandonato dal club, ma dubito che, in quegli anni, c’era solidità nella dirigenza; Jonathan Silva, devo essere sincero? Nemmeno me lo ricordavo;

stagione 2018-2019: Kluivert, un giocatore estremamente spocchioso. Qualche lampo di tecnica e abilità, ma è un ragazzino che ancora deve crescere. Se avrà una costanza, sono certo che farà strada, perché è forte. Deve imparare ad essere più altruista e meno egoista: è più importante vincere 1-0 che perdere 4-3 con una sua tripletta; Cristante, un altro giocatore vittima dell’incompetenza del ds. Un giocatore forte, che all’Atalanta segnò a profusione. Fece il trequartista alla Dea, la Roma lo acquistò per fare l’interno di centrocampo e adesso il regista. Il giocatore, con il tempo, si è preso una vagonata di insulti per la sua lentezza e svogliatezza nei passaggi, ma, da quando è arrivato a Trigoria, non ha mai ricoperto il ruolo che lo vedrebbe protagonista. Mai una parola fuori posto e sempre educato. Quando se andrà porteremo il rimorso di non aver conosciuto il vero Bryan; Olsen, ennesimo portiere sbagliato. Ah, doveva sostituire Alisson; Pastore, ero scettico fin quando la Roma provava interesse per lui. Tanti soldi spesi, un ingaggio da urlo e più infortuni/operazioni che presenze. Anche lui, un acquisto mai richiesto da Di Francesco; Nzonzi, un campione del mondo a Trigoria che doveva sostituire Nainggolan. Non abituato al nostro calcio fu uno dei protagonisti della peggior campagna acquisti del decennio; Santon, non spettacolare, ma pronto quando serve. Lento, ma ha sempre fatto il suo compito nonostante i limiti qualitativi; Marcano, preso a parametro zero dal Porto. Un colosso alto due metri, cui Di Francesco lo mise terzino in una partita persa con il peggior Bologna. Non ricordo una suona buona prestazione; Coric, probabilmente ha fatto comparsa su Chi l’ha visto; Mirante, un ottimo secondo portiere. Nonostante l’età, sforna ancora grandi prestazioni. Potrebbe far benissimo il titolare in più della metà delle squadre del nostro campionato. Ha trovato la titolarità quando Ranieri subentrò a stagione in corso sostituendo il malcapitato Eusebio; Zaniolo, l’unica luce in quel che è stata una campagna acquisti da horror. Un giocatore sensazionale, sublime e con una personalità gigantesca per la sua età. Vittima dell’exploit mediatico non si è mai scomposto. Cresciuto partita dopo partita, Zaniolo è il pilastro della nuova società;

stagione 2019-2020: Mancini, uno dei pochi giocatori che ha fatto bene una volta abbandonato il nido dell’Atalanta. Ha ricoperto egregiamente il ruolo da mediano per ottemperare alle mancanze del centrocampo di Fonseca. Silenzioso ma efficace: il futuro della difesa legge il suo nome; Pau Lopez, un portiere giovane, abile nei lanci lunghi, bravo nelle uscite, ma che ultimamente si è dimostrato troppo altalenante. Si è speso troppo per un portiere cui si poteva spendere meno. Il primo anno non è stato il migliore, ci sono state belle parate e “paperate”, ma di certo non è un portiere da quasi 25 milioni. Gollini, Musso, Cragno: di belle prospettive ce ne sono; Zappacosta: doveva partire titolare al derby e si infortuna per un mese; torna e si rompe il crociato. Difficile valutarlo: nelle poche apparizioni è stato troppo timido e difficile giudicarlo. Con la difesa a tre avrebbe potuto essere più a suo agio, ma è già ritornato al Chelsea; Diawara, avuto come contropartita tecnica per lo scambio con Manolas. Fonseca l’ha voluto fortemente. Anche lui, vittima di due infortuni gravi al ginocchio, ma comunque una stagione buona. Si è fatto trovare sempre pronto, a volte con qualche errore che è costato caro alla Roma, ma tutto sommato un calciatore che può continuare a fare bene; Mkhitaryan, esperienza, personalità, quello che a Roma serviva. Le prestazioni non brillano, anche lui frenato da diversi fastidi muscolari, ma segna, fa assist, quanto basta per riscattarlo. Ci sono partite si e partite no per lui, ma la butta dentro anche in partite no, quindi, ottimo colpo; Veretout, un giocatore splendido. Ha illuminato il Franchi e adesso si è preso l’Olimpico. Vuoto, è vero, ma comunque se l’è preso. Un giocatore veloce, che corre più di ogni altro avversario, dà grinta, batte i rigori ed è quello che occorre ad un centrocampo un po’ troppo sterile della Roma. Se dovesse arrivare Torreira, insieme, a lui, beh, sarebbe un signor centrocampo; Spinazzola, scambiato con Luca Pellegrini e, devo dire, che ci ha guadagnato la Roma. Nella difesa a 3, Leonardo, trova sempre più spazio nella manovra offensiva e la condisce con cross pericolosi per le mura avversarie. Ha personalità, cerca l’1vs1, va sul fondo, ci prova e bisogna provarci; Kalinic, spesso mi chiedo se è un giocatore che parla con gli altri. Non l’ho mai visto protestare, urlare, esultare, zero. Nelle ultime apparizioni è stato più incisivo, ma al 95%, tornerà a casa; Smalling, che peccato. Un giocatore essenziale, un pilastro della difesa che era quello che serviva a Fonseca. Non aveva fatto, assolutamente, rimpiangere Manolas, anzi. Ma tra il passaggio di proprietà, la prepotenza del Manchester United che giocava a rialzo e la mancata tutela da parte della UEFA, adesso è ritornato in Inghilterra; Cetin, poche apparizioni, ma è già in prestito al Verona; Carles Perez, preso nel mercato di gennaio, ha superato discretamente le prove che gli venivano richieste. Anche lui ha alternato buone a non buone prestazioni, ma tutto sommato è stato superiore di altri giocatori. Non avrei mai preso lui, perché a gennaio servono giocatori che conoscano il nostro campionato, bisogna andare sul sicuro. Generalmente, si può dire che si è adattato bene; Villar, un volto angelico, come quello di un bambino. Si, perché sembrerebbe molto più piccolo di quanto non sembri. Ha avuto modo di segnare, con il Parma anche due volte, ma è stato poco incisivo. Con il nuovo modulo sembra essere più a suo agio, ma deve crescere molto ancora. Un innesto che può rivelarsi utile nella stagione avvenire; Ibanez, arrivato in punta di piedi, ha avuto una crescita idilliaca. Per un attimo si pensava che Mancini avrebbe fatto panchina con lui. Poi, però, è partito Smalling e lui deve sostituirlo. Ha sconfitto i più scettici, anche me, e si è preso egregiamente il comando del reparto difensivo. Giovane, abile, elastico, è un prospetto interessante; Fuzato, ha giocato l’unica partita contro la Juventus all’Allianz Stadium. Un portiere di cui si parla molto bene, ad oggi è il terzo.

Chi è il nuovo arrivato?

Arriva un americano per un altro americano. Nato in California, ma Texano di adozione, Dan Friedkin sarà il neoproprietario della Roma. Ha lo spirito da imprenditore nelle vene e, non a caso, consegue un Master in Business Administration, oltre che una laurea. È a capo della “The Friedkin Group”, una plurisocietà che si occupa di vari settori: automobili, spettacolo, perfino golf. Forbes stima che il suo patrimonio superi i 4 miliardi di dollari e, non a caso, provò anche ad acquistare gli Houston Rockets, ma senza fumata bianca. Oltre ad essere proprietario del “The Friedkin Group”, lo è anche della “Gulf States Toyota”, dove distribuisce le automobili della compagnia nipponica in alcuni stati americani. È appassionato di cinema, tant’è che ha prodotto “The Square”, “All The Money in the World” e “The Mule”; è stato regista di “Lyrebird” ed è apparso nella parte finale di “Dunkirk”. Non solo cinema, ma nei suoi ideali c’è anche la passione per l’aviazione. Dan, insieme ad altre pochissime persone che non superano la decina, possiede la licenza di poter avere la formazione in voli acrobatici condotti dalla Air Force. È a capo della “Friedkin Avation”, “Horseman Flight Team” e “Air Force Heritage Flight Foundation”. Le attività da imprenditore lo conducono anche nel settore dei viaggi, fondando la società “Auberge Resorts Collection”, disponendo di hotel super lussuosi sparsi in Europa e in America. Infine, è anche un generoso attivista, donando quasi 400 milioni di dollari per salvare una buona parte della Tanzania. Friedkin conosce questo campo, non è l’ultimo arrivato. Conosce come si gestisce un’impresa, una catena, un’azienda. È consapevole di come vanno svolte le cose. Riuscirà a ripetersi anche a Roma?

La speranza per domani

Il compito del futuro presidente della Roma non è scontato. Quello che i tifosi della Roma devono aspettarsi è che non arrivi lo sceicco di turno che acquista a più non posso senza senso, solo per avere dei campioni cinque stelle nella rosa. Friedkin avrà il compito di sistemare una dirigenza troppo alle prese con gli individualismi e renderla la più coesa possibile. Stiamo parlando di un gruppo, di una famiglia, di un’organizzazione grande, composta da numerose persone che condividono un progetto comune. Dan dovrà comprendere quanto sia essenziale la sua figura a Roma. Guida tante aziende e associazioni, non ha di certo il dono dell’ubiquità, ma deve essere cosciente che a Roma, serva una guida solida e che il volto costante del Presidente è essenziale. Non si può rischiare di far naufragare di nuovo una piazza. Serve la mano di ferro, per cercare di dare un ordine ben preciso. Dovrà mobilitarsi per il discorso stadio. Le basi ce l’ha, la voglia c’è e c’è anche l’ok della sindaca. Bisogna superare quei maledetti iter burocratici, bloccati dal 2012, per spianare il terreno e mettere la prima pietra. Lo stadio è di vitale importanza e, ogni imprenditore, sa quanto vale possedere un bene proprio e non vincolato ad altri. La speranza è quella di avere le cose a posto e la voglia di un progetto comune. I trofei sono importanti, è ovvio, ma non sono la prima cosa a cui puntare: con un solido assestamento arriveranno anche loro. Bisogna andarci cauti, in punta di piedi e senza quelle frasi a effetto “in cinque anni vinceremo tutto” perché servono solo a sfruttare la scia dell’eccitazione che ha una durata a breve termine se poi non si verifica niente di tutto ciò. Precisione, coerenza, verità e pazienza: sono questi i concetti da cui ripartire. Quattro concetti alla ricerca della pietra filosofale che manca da troppi anni: “Vincere”.