La Giunga non è altro che il termine con il quale viene denominato il modo di giocare “alla brasiliana”. Impossibile tradurre il termine, si tratta di una sorta di atteggiamento, di musicalità del corpo, di calcio che si fa “gioco” e danza, di professionalità che si fa gioia. "Volevo che questo mio lavoro non fosse d'élite, relegato alle scatole d'oro dei teatri d'opera. E anche quando ero impegnata sulle scene più importanti del mondo sono sempre tornata in Italia per esibirmi nei posti più dimenticati e impensabili". Queste sono forse le parole più adatte per provare a far capire la grandezza di una delle artiste più conosciute della danza internazionale. Sono tante le cose che si potrebbero dire su Carla Fracci (avrebbe compiuto 86 anni fra pochi giorni) come tante sono le definizioni che gli sono state date. Dal "You are wonderful" di Charlie Chaplin, "all'eterna fanciulla danzante" di Eugenio Montale. Una icona che non si può ridurre a una semplice ballerina; rimane intatta la sua importanza attraverso la ventata di novità che ha portato al mondo della danza. Carla Fracci nasce qualche anno prima dell'avvento della seconda guerra mondiale, il 20 agosto del 1936 a Milano. Grazie ad alcuni amici di famiglia che l'avevano vista ballare nel salone del dopolavoro genitori, la iscrivono alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala. Debutterà nel 1955 nella Cenerentola, e, a soli 22 anni, viene promossa prima ballerina. Grazie alla sua leggerezza e alla sua tecnica, saranno tantissimi i ruoli che interpreterà: dallo Schiaccianoci sino alla Giulietta, senza dimenticare il suo personaggio per eccellenza ovvero la giovane contadina innamorata Giselle. La sua bravura, inoltre, la porterà lontano, le farà superare i confini nazionali e, nei primi anni Sessanta, dopo aver lasciato la Scala per un ballo cancellato, da artista indipendente, diventerà l'étoile italiana più famosa nel mondo a tal punto che il New York Times la definirà "la prima ballerina assoluta".

"L'importante è che la gente veda la danza". Questa la frase che amava ripetere e a cui ha dedicato tutta la sua vita iniziando a portarla dappertutto. Inizialmente debutterà in televisione con Scarpette Rosa, di Vito Molinari, nel 1967 ma anche in tantissimi altri show del sabato sera. Non solo la televisione, il cinema ma come disse lei stessa: "Ho danzato nei tendoni, nelle chiese, nelle piazze. Sono stata una pioniera del decentramento. Nureyev mi sgridava: chi te lo fa fare, ti stanchi troppo, arrivi da New York e devi andare, che so, a Budrio. Ma a me piaceva così e il pubblico mi ha sempre ripagato". Per la danza inoltre non ha smesso mai di lottare e non ha mai temuto di "metterci la faccia”. Si è battuta, per esempio, contro lo smantellamento dei Corpi di Ballo dalle fondazioni liriche, anche con un appello nel 2012 all'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Alla fine degli anni Ottanta decise di darsi da fare e così dapprima iniziò a dirigere il Corpo di Ballo del Teatro San Carlo di Napoli, poi nel 1996 quello dell'Arena di Verona, e dal 2000, per dieci anni, fu alla testa della Compagnia di danza all'Opera di Roma. Ma un ballerino, con immani sacrifici, può essere paragonato a un campione di calcio? La danza può, metaforicamente, essere compagna di viaggio di un fuoriclasse del rettangolo verde? Uno spettacolo può abbagliare come i corpi in volo di un tersicoreo piuttosto che di un trequartista? Quanta emozione deve dare a ogni gesto tecnico la magia leggera di un movimento che serva a raggiungere scopi ben precisi: la grazia del movimento e poi, come d'incanto, lo spettacolo. Di Stefano, la "Saeta rubia", è stato qualcosa di più di un grande campione, e non ci sono schemi dove collocarlo e le prose che lo hanno raccontato sono state in ogni caso inferiori al suo talento, che era qualcosa di eccezionale nella misura in cui era originale.

I veri assi non si ripetono, i geni, anche nel calcio, improvvisano con l’eccellenza di un’ispirazione che li fa ringiovanire ogni volta. Possono avere tutti i vizi del mondo ma li sublimano in quegli istanti, in quei minuti, in quelle ore, come Pablo Casals il violoncellista quasi cieco e quasi sordo che a ottant'anni suonava come un dio; sia Paganini, il violinista genovese pagano, che metteva nel suo Stradivarius sortilegi e cavava note come tele di ragni e arcobaleni sanguigni. “Colpisco di qui, con la parte bassa dell’esterno collo del piede sinistro. É una cosa istintiva, che ho sempre fatto sin da ragazzino, quando calciavo a piedi nudi. Nessuna preparazione. Mi viene così e basta”. Éder Aleixo de Assis, da un’intervista alla Gazzetta dello Sport del 17 giugno 1982. “Se alla prima amichevole non segna entro 15 minuti te lo cedo gratis, se invece segna entro i 15 minuti fissiamo un prezzo per il ragazzo”. Queste furono le parole che nel lontano 1972, in un paesino a pochi chilometri da Cordoba, patria dei boscaioli e del legname, uscirono dalla bocca del presidente della squadra locale Tossolini. Suo interlocutore Petraglia, il numero uno dell’importante squadra dell’Instituto di Cordoba. Oggetto del contendere? Mario Kempes. Nato nel 1954 a Bell Ville, Mario Alberto Kempes Chiodi era già un giovane attaccante promettente nel paesino argentino e, incoraggiato dal padre ex-giocatore di calcio, mostrava le sue enormi doti calcistiche nei campetti del paese. Tossolini lo notò fin da subito e fiutò l’affare. Ne parlò con la società e Petraglia accettò la scommessa. Alla prima amichevole con la maglia degli Albirojos, Mario realizzò un gol al 14° minuto e poi ne segnò un altro, un altro e un altro ancora. Quattro reti e pesos negli occhi di Tossolini. La cifra fu di 3 milioni, Kempes fu di fatto un giocatore dell’Instituto e da qui nacque la leggenda del matador.

"Ancora adesso, se debbo pensare al calciatore più utile a una squadra, a quello da ingaggiare assolutamente, non penso a Pelé, a Di Stefano, a Cruijff, a Platini, a Maradona: o meglio, penso anche a loro, ma dopo avere pensato a Mazzola", parole di Giampiero Boniperti. Nemmeno uno come Pelè riusciva sempre a capire cosa riuscisse Didì a fare in campo. “A volte era troppo intelligente... A volte fintava un passaggio da una parte per poi incrociarlo dall’altra. Capitava che ci confondesse e gridava: no, idioti, sto cercando di confondere l’altra squadra!”. Queste caratteristiche lo resero uno dei calciatori più forti della sua generazione e, considerando le innovazioni da lui introdotte, di tutti i tempi. Combatteva l’idea che il calcio fosse una lotta tra chi è più potente: “L’intelligenza umana e la capacità di ragionamento ci distinguono dagli animali” - disse una volta. “Allora che cosa è un giocatore che dipende esclusivamente dalla sua forza fisica?”. I fuoriclasse del calcio respirano arte fin dalla nascita: proporzioni, colori, armonia, ritmo. Per loro è arduo valutare normale ciò che è normale. Tanti giocatori sono tecnicamente straordinari, usano il corpo alla perfezione e l’arte è ispirazione non solo nel gesto; nei loro c’è la splendida chiarezza, il fraseggio, l’elasticità e la lucentezza della tecnica e una sobrietà stilistica che non sacrifica i valori espressivi, ma, come l’efficacia, li esalta.

Il football è Arte, improvvisazione, agilità, grazia, anima e cuore proprio come la danza. Ciò che affascina è paragonare l’infinito talento, l’immaginazione creativa, l’efficienza della danza con il pallone. Sono riferimenti veri, non fantasiosi, giocatori che sono dotati di una eleganza rassicurante, che vanno alla ricerca della bellezza inventiva. Divertimento e sacrificio, questa è la consegna per chi si dedica al calcio e alla danza, due attività che si integrano tra loro. Ci si basa molto sull’improvvisazione, come vuole il gioco del calcio e, un po’ meno, la danza, ma sia nel ballerino che nel calciatore esiste un’ansia di perfezione e un’autenticità che costituiscono la componente concettuale per valorizzarne i gesti. Diego Maradona come Fred Astaire: ballando sotto la pioggia e sotto il sole nell’area avversaria trovava il modo di ubriacare gli avversari prima di infilare il pallone in rete di sinistro. Pelè dribblava fintando, aggirava gli avversari come se fossero stati dei principianti. Scrisse Italo Moscati: “Compassato e armonioso, limpido come una lama, Schiaffino. Abituati a vivere come bruti, tifosi, allenatori e dirigenti riscoprivano il tocco di classe. Schiaffino era il massimo dell’eleganza, della padronanza dello stile. Non c’era discussione su di lui che non terminasse in un elogio condiviso da tutti sulla misura e sull’efficacia di ogni suo movimento. Perché, ecco il punto, la sapienza dell’artista del tip-tap a ritmo perfetto, quand’anche colpiva di testa, non spostava un solo capello. Schiaffino aveva, per giunta, un qualcosa di ieratico e di spirituale. La canizza lo stringeva dappresso abbaiando e lui la teneva a bada, vi scivolava dentro, la beffava con un passaggio, un tiro, un amabile tocco di tacco". Di Omar Sivori Gianni Brera scrisse: “Omar non è un gigante ma sembra più piccolo che nella realtà. Anche questa, a pensarci bene, è una herminella. E’ un normotipo, vicino al brevilineo. Le sue gambette ancorché tozze, cioè brevi, si muovono secondo una straordinaria coordinazione. Egli, inoltre, è capace di scatti relativi, cioè brevi, che sembrano irridere gli avversari tanto sono improvvisi. Quando corre disteso lo fa con le falcatine di quei cavallucci mongoli dalla criniera lunga e le gambe pelose. Non è nemmeno veloce, suppongo; avere scatto relativo non significa correre veloci, significa avere il guizzo per arrivare primi sulla palla. Impadronitosi di quella, Sivori non è più propriamente un calciatore, bensì un ballerino classico o, se preferite, un "espada".

Gabriel Hanot, sul Miroir des Sports, così scrisse di Ricardo Zamora, il famoso portiere spagnolo: “Credo che questo grande artista del pallone, accentuando la lentezza, renda più acuto e sorprendente il contrasto tra la superba statua marmorea del portiere immobile e la velocità di scatto dell’atleta in movimento". Adolfo Pedernera era considerato il più grande calciatore fra tutti i grandissimi sudamericani. Egli era capace di giocare in tutti i ruoli. Era centravanti del Milionarios de Bogotà e della Nazionale argentina. Nel 1950 ebbe come compagno Di Stefano: furono i maggiori interpreti di quello che, per inarrivabile maestria di palleggi e passaggi, a ritmo diabolicamente coreografico, fu detto “il balletto azzurro”. Stanley Matthews, il “Baronetto”, di cui non si finiva mai di parlare per la sua abilità nel dribbling. Affrontava l’avversario e si fermava ad aggiustarsi i capelli e, quando l’avversario entrava in tackle, era già ripartito a passo di danza, a dimostrazione che, sia nel calciatore che nel ballerino, esiste un’ansia di perfezione e autenticità che sono componenti concettuali atte a valorizzare il gesto. Ma qual è la differenza tra il calciatore e il ballerino classico? Nei loro gesti c’è la splendida chiarezza del fraseggio, l’elasticità e la lucentezza della tecnica, una sobrietà stilistica che non sacrifica i valori espressivi e l’efficacia dei movimenti. Il ballerino classico è concentrato tutto il tempo sul proprio corpo e i suoi movimenti; il calciatore non deve concentrarsi che sul risultato che, con i passi di danza, otterrà senza badare a fronzoli. Per questo, la caratteristica principale del talento non è la perfezione, ma l'originalità.

"Meu pai sempre me dizia,

meu filho tome cuidado

Quando eu penso no futuro

Não esqueço o meu passado, oi!

Desilusão, desilusão

Danço eu, dança você na dança da solidão

Desilusão, desilusão

Danço eu, dança você na dança da solidão"... - cantava Beth Carvalho.

Del resto, ognuno possiede un ingegno. Ma, se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, passerà tutta la sua vita a credersi stupido; quest'ultimo, infatti, non ha limiti, mentre il genio dura oltre la bellezza ed è fonte ispiratrice dell'anima. 

Senza se e, soprattutto in questo caso, senza ma...