Nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino e dello scudetto dell’Inter dei record, scelsi, all’apice della Milano da bere, di iscrivermi quattordicenne ad un liceo linguistico sperimentale che prevedeva un mix di materie da tortura di sei ore al giorno, più un impegno medio di studio giornaliero di circa quattro ore per provare ad uscire vivi da quell’inferno.

Di quell’esperienza “ovviamente” conclusasi, con la codardia di chi non vuole essere bocciato, con il ritiro ad inizio primavera, ricordo con enorme piacere tre cose:
- la scelta di buon senso di passare alla più umana e pragmatica ragioneria l’anno successivo
- due maschi (me compreso) e diciotto femmine in classe
- le lezioni di storia contemporanea, materia nella quale, con grande orgoglio, ero il primo della classe.

La storia mi aveva sempre affascinato, ma quell’anno, ascoltando, leggendo, studiando, capii l’importanza del passato nell’oggi che viviamo, nel domani che faremo vivere a chi verrà dopo di noi. Tutto ciò che succede è in qualche modo condizionato da un pensiero, da una filosofia, da un qualcosa costruito o distrutto prima.
Riaprendo il libro di storia di quell’anno scolastico, alla prima pagina compare il Congresso di Vienna, tenutosi presso il castello di Schonbrunn dall’autunno 1814 alla primavera 1815, conferenza alla quale parteciparono le maggiori potenze europee con l’intento di ridisegnare la cartina geografica del vecchio continente, di restaurare il potere dei sovrani assoluti dopo la sconfitta e l’esilio di Napoleone.
A quelle riunioni durate circa otto mesi (qualcuno sostiene dieci), uno dei principali protagonisti fu la Russia capitanata dallo zar Alessandro I detto il Beato, il quale presentò un piano in cui prevedeva la creazione di una Polonia indipendente satellite della corona russa, ottenendo, alla fine di un lungo e combattuto accordo, durante il quale si sfiorò la guerra tra russi ed europei centro-occidentali, la spartizione del territorio polacco.
Continuando a sfogliare quel favoloso libro, facendo un salto di quasi un secolo e mezzo, si scopre che nel febbraio del 1945, durante la seconda guerra mondiale, si tenne a Jalta, in Crimea, una conferenza per molti aspetti molto simile a quella di centotrenta anni prima, una riunione nella quale uno dei punti principali di discussione fu ancora una volta la sorte della povera Polonia, la decisione sul suo assetto futuro.
La Russia fu ancora una volta protagonista, ma il secondo soggetto di fondamentale importanza per l’esito della guerra tra i nazi-fascisti e il resto del mondo, e per i nuovi confini geopolitici europei furono gli Stati Uniti, i quali, insieme ai russi, decisero in quei giorni d’inverno, che il mondo da quel momento doveva essere diviso in due, da una parte il sistema democratico e l’economia di mercato americana, dall’altra il comunismo sovietico.

Veniamo ai giorni nostri, a quello che stiamo purtroppo vivendo e che su quel libro di liceo del 1989 non c’è scritto, ai confini europei ancora una volta spostati una trentina di anni fa dopo la fine dell’Unione Sovietica.
La Polonia è finalmente libera, non è più contesa, ha potuto scegliere chi essere, dove stare, con chi stare, e il suo posto lo ha preso la povera Ucraina, altra terra di mezzo da sempre torturata durante le varie dispute, durante le varie guerre dal XIII secolo in poi.
Oggi l’Ucraina ha preso il posto della Polonia per importanza geopolitica, tutti la vogliono, e lei è schiava di se stessa, di quella posizione geografica di grande importanza nell’essere la linea di demarcazione tra occidente e oriente, tra potere americano e russo, tra il bene e il male qualcuno addirittura sostiene.

Lasciamo gli ucraini liberi di decidere chi essere, dove stare, con chi stare, abbattiamo una volta per tutte i muri, quelli veri, buttiamo le armi, cancelliamo i confini e proviamo ad essere tutti una sola cosa, esseri umani abitanti di un pianeta meraviglioso chiamato Terra.