Nella vita serve tempismo. Lo richiedono le situazioni, i momenti chiave, gli eventi che si evolvono dinnanzi ai nostri occhi. Si può creare un palcoscenico perfetto, con le giuste decorazioni e con un pubblico all’altezza. Possiamo essere anche le persone giuste, nel luogo perfetto e con un’atmosfera da far venire i brividi. Ma se a tutto questo non c’è una perfetta sincronizzazione con il tempo, non possiamo far altro che rassegnarci.

E lo faremo a distanza di giorni, di mesi o di anni. Non ce ne accorgeremo mai lì per lì, perché siamo in preda alla rabbia, al rammarico, forse svincolati dal rimorso perché consapevoli di averci provato. Non potremmo mai sapere quando il nostro orologio biologico busserà alla nostra porta per dirci che è arrivato il nostro momento, ma lo sapremo solo quando ci ritroviamo a cavalcarlo.

E se nel calcio c’è un giocatore giusto al momento giusto, questo, prende il nome di Felipe Caicedo.

Un’infanzia che non vuole ricordare

Santiago de Guayaquil, nota anche solo come Guayaquil, è una città dell’Ecuador, e che nel 1988 ha visto una nuova luce con Felipe Caicedo. Lui, però, all’inizio, ha conosciuto soltanto paura. Ed era un continuo correre, ma non per il pallone, ma per i numerosi spari tra bande che inondavano la città. Non c’era riparo: se ti trovavi lì, era solo colpa del destino. E via dentro casa.

Piccola, ma accogliente. Perché lì dentro, oltre alla speranza di Caicedo, che cominciò a fiorire diversi anni dopo, c’era la mamma, che, facendo le pulizie, era sempre pronta a sacrificarsi per tutti; il papà, che si accontentava di arrotondare lo “stipendio” vendendo le noci allo stadio; e, infine, cinque sorelle.

Un reality vinto, “Camino a la gloria”, che gli ha permesso un provino con il Boca Juniors ma che non lo ha discostato dalla professionalità che ha sempre mantenuto in campo, e anche nell’animo. Come anche è stato protagonista di un documentarioLa historia de un Luchador”: un racconto a scopo benefico, in cui si vede lui con un paio di occhiali e un berretto con scritto “Felipao” dove narra il tutto. E, infine, la passione per i computer:

“Come sarebbe la mia vita se non avessi preso quel volo?”

Probabilmente un bomber anche dietro uno schermo e una tastiera. Nel dubbio, però, la laurea l’ha presa. La mamma desiderava tanto che continuasse gli studi e così, le ha dato una doppia soddisfazione: corona d’alloro in testa, ma con la casacca addosso.

Una lacrima indelebile

Al passato, spesso, gli si vuol chiudere la porta in faccia. A volte si vorrebbe avere anche una chiave e chiuderlo dentro le quattro mura dell’oblio. Ma non è così semplice. Felipe ama la sua famiglia e gli viene il sorriso quando si parla di loro. Poi, però, il volto ci mette un attimo a diventare ancora più tetro, non appena gli si chiede com’è stata la sua infanzia.

Spari, morti, sangue ovunque. Il sogno, più che diventare un calciatore, era di non trovarsi al momento sbagliato in mezzo ad uno scontro tra gang. Perché in Ecuador era così.

E dato che la chiave per archiviare i ricordi brutti non esiste, allora il rimedio è conviverci. Una lacrima tatuata sotto l’occhio sinistro che rappresenta un periodo difficile, vuoto, sterile e privo di speranza. Un tatuaggio che rappresenta il dolore, ma che va di pari passo con la grinta e con la forza che fanno di lui un uomo. L’uomo della Provvidenza.

Un biglietto di sola andata

Un sogno diventato realtà in fretta e in furia. Senza preavviso e senza aspettative. Caicedo è cresciuto, professionalmente, nei due club ecuadoriani del Barcelona SC e del Rocafuerte. Poi, a diciassette anni, un volo che non ti aspetti: Guayaquil-Basilea. Classe economica per carità, i soldi non c’erano. Come non c’erano i vestiti nella valigetta. Pagò un’escursione termica dal caldo ecuadoriano al freddo svizzero devastante. Anche se non lo scalfì minimamente, anzi, assaporò anche il gelo russo qualche anno dopo, ma ovviò al problema comprandosi sei cappotti in soli due mesi.

Ma se non fosse stato per quel Venezuela-Ecuador dell’U17, lì, a Maracaibo, e sotto l’occhio vigile di Ruedi Zbinden, forse, oggi, staremmo parlando di un genio dell’informatica. E invece, proprio da quel dì, si fece trovare al posto giusto e al momento giusto: una questione di tempismo.

Un fenomeno anche in bicicletta

Proprio così. Perché se nel Caicedo che conosciamo oggi c’è grinta, umiltà, strapotere fisico, oltre ad essere un genio dei pc, è un fenomeno anche sulle due ruote. A raccontarlo è proprio Christian Gross, suo ex allenatore al Basilea:

“Ogni tanto portavo la squadra in bici per spezzare i ritmi degli allenamenti. Felipe non cambiava mai marcia, neanche in salita, e partiva da solo in mezzo ai boschi, divertendosi a superare tutti. Quarta, quinta marcia, per lui era uguale. Aveva una potenza muscolare incredibile".

Non lo raggiungeva nessuno. Né l’allenatore, né il preparatore atletico proprio quello che doveva stare davanti a tutti. Racconta di come Felipe fosse un vero talento, uno dei migliori che abbia mai avuto. Nove reti il primo anno e sette il secondo: anche Caicedo credeva in Caicedo e questo lo spinse nella fretta, verso le terre inglesi, nel campionato più competitivo del mondo.

Dal City e poi in giro per il mondo

Perché se con quella bicicletta fosse davvero così forte, sarebbe stato bello esplorare tutti i paesi con il mezzo senza motore. Al City non andò come sperava, voleva confrontarsi con un altro campionato, ma era troppo giovane. A soli 19 anni voleva già conquistare i tifosi. Per la voglia e per il carattere ci riuscì, ma non per i risultati.

Ed ecco che vola in Portogallo, a Lisbona, dove fa peggio di Manchester; poi a Malaga, dove, con 18 presenze realizza 4 gol; ma non basta ed ecco che, nuovamente a titolo temporaneo, indossa la maglia del Levante: una stagione pazzesca, condita da 14 gol in 29 presenze. Gli vale il riscatto, ma poi viene ceduto la stessa estate ai russi del Lokomotiv Mosca. Tanto freddo, diverse presenze (63) e 15 reti ascritte all’albo. Qualche mese negli Emirati e poi di nuovo in Spagna, all’Espanyol: con loro, arrivò ad indossare perfino la maglia numero 100. Bei ricordi quelli condivisi con i periquitos, ma imparagonabili a quelli di adesso.

Chi è Felipe Caicedo?

La sua peculiarità e districarsi nelle difese. Oltre che per la sua agilità – nonostante il peso discretamente significativo – ma per il fatto quello di danneggiare le idee difensive con il suo strapotere. E con i spalla a spalla ovviamente.

Nasce come seconda punta, poi si sviluppa come attaccante centrale. All’occorrenza gioca e ha giocato al fianco di Immobile, in un modulo condito da due punte. Il sinistro è il suo piede preferito, il destro quello debole. Anche se, paradossalmente, capita che il meno amato tra i due canta di più.

In Svizzera ha sperimentato anche il ruolo da esterno d’attacco a sinistra, anche se veniva impiegato preferibilmente come prima punta. La qualità migliore? Forse la testa:

“Aveva un grande velocità di pensiero, gli davi il pallone e sapeva cosa fa fare"

Ce lo dice Gross, ex suo allenatore del Basilea. Tanto fisicità, ma nei pensieri primeggiava su tutti.

Dal buio alla luce: il riscatto nella stracittadina

Magari per saranno stati anche bei momenti con la sua penultima maglia, ma i tifosi non appena hanno saputo della sua cessione ai biancocelesti, hanno esultato come se fossero andati in gol. Caicedo era uno che viaggiava, ed è passato dalle strade ecuadoriane, al freddo polare della Russia. Roma poteva essere soltanto un ennesimo corredo da viaggio. La ciliegina dei suoi trasferimenti.

Un’altra stagione composta più da bassi che da alti, una riserva per Ciro Immobile. Ma una riserva che aveva già il bagaglio pronto: non solo per una stagione opaca, ma specie per quel gol mangiato contro il Crotone che aveva il sapore di Champions.

Mancavano meno di 6 minuti allo scadere dei 45’ e Felipe Anderson imbucò il Panterone, vincitore del contrasto con un difensore. Si era allargato e aveva il pallone sul suo piede sinistro, quello preferito. Il tiro fu debole, molle, tanto che Cordaz si piegò in una parata plastica. La curva esplose, la Lazio anche. Ma di rabbia.

E poi arrivò il 2 marzo del 2019, un anno prima della pandemia. I biancocelesti ospitarono la Roma di Di Francesco: i primi, erano reduci da innumerevoli fantasmi: Milinkovic diventato “Il Fu Milinkovic-Savic”; Luis Alberto era tornato al primo stadio della sua evoluzione nella Capitale e i risultati tardavano ad arrivare; i giallorossi, invece, scorgevano il tramonto dell’allenatore. La bella epopea di Barcellona era soltanto un frammento del passato e i risultati del presente erano seduti su un’altalena.

L’orologio segnò il dodicesimo del primo tempo. Correa era in stato di grazia e la difesa della Roma in un’apnea insostenibile. Dodici minuti e alla fine annegò drasticamente: l’argentino servì Caicedo, che, repentinamente, aggirò la goffaggine di Juan Jesus, superò anche Olsen e fece urlare di gioia la Nord.

Era scoppiato l’amore.

L’uomo della Provvidenza

Una nuova vita, un nuovo ruolo. Un protagonismo che va oltre il suo ruolo di panchinaro perché scritto così sa molto più di dispregiativo. Invece è qualcosa che va oltre, e che entra in simbiosi tra poetica e cinismo.

Sì, perché il Panterone si è trasformato. Da quello che veniva considerato lo scarsone della Lazio, adesso è l’uomo della Provvidenza. Perché non è l’uomo che ti entra perché Immobile è esausto; non è quello che occorre per far girare la squadra e per far rifiatare i giocatori; di certo non è nemmeno quello che viene lanciato per cambiare il modulo a partita in corso.

Caicedo è altro. È quello che viene schierato nel momento inatteso, quello che fa impaurire gli avversari per la dote razionale che possiede nel buttarla dentro a tempo scaduto. A cambiare il destino di un match a tempo scaduto. Felipe è l’uomo giusto al momento giusto.

Chiamatela pure “zona Caicedo”

In origine era “zona Cesarini”. Una locuzione per indicare un gol maturato nei minuti conclusivi della partita. E adesso è mutato. Perché se il nostro buon Renato Cesarini, segnò per cinque volte in extremis, durante il momento delle lancette bonus, Caicedo è andato oltre, siglando per sei volte la rete. In cinque di queste è stato anche decisivo.

Sampdoria 1-2 Lazio: 91’

75’ della partita. La Samp è in vantaggio. Inzaghi prova il tutto per tutto e mette dentro Caicedo. Si scalda in pochissimo tempo e ancora non è consapevole di quanto sarà importante da lì in poi. Aveva il superpotere senza nemmeno accorgersene. Cinque minuti dopo, Milinkovic, trova il pareggio. La partita si scalda e si innervosisce. C’è tensione: da una parte per il vantaggio perso, dall’altro per un arrembaggio in cerca di una vittoria clamorosa. Eh sì, perché accadde proprio quello: il serbo si porta a spasso tutta la difesa doriana, che però si dimenticano dell’ecuadoriano. Sergej no, anzi, lo vede. Lo serve. Caicedo lascia scorrere il pallone, forse perché aveva timore del fuorigioco, o forse perché aveva visto arrivare come un treno un suo compagno. Fatto sta che, in quel rimpallo, il pallone gli cade sui suoi piedi. La butta dentro. Era solo l’inizio.

Sassuolo 1-2 Lazio: 91’

Mancano dieci minuti. Inzaghi fa uscire Correa e guarda dalla panchina l’uomo di Guayaquil. Lo fa entrare. Si va oltre il minuto di recupero e la partita è inchiodata sull’1-1. Luis Alberto scambia un pallone con il Panterone, che tra un affanno nel tenerlo e la fretta di ridarlo via data la consistenza della difesa, se lo ritrova tra i piedi. Di nuovo la stessa strofa, ma stavolta Caicedo lo tiene con sé. Anzi, fa di più: avendo lo spazio chiuso, fa un giro su sé stesso, tiene Magnanelli lontano con un braccio e scarica la foga con il destro, il piede meno amato. Consigli rimane immobile, Caicedo lascia partire il tiro. È 1-2 della Lazio.

Lazio 3-1 Juventus: 94’

I biancocelesti sono in vantaggio per 2-1. Inzaghi fa uscire Milinkovic ma non si vuole abbassare troppo e fa entrare Caicedo al 90’. La Juve spinge fino al midollo, tanto da avere 7 giocatori nella trequarti avversaria. È in 10 a causa dell’espulsione di Cuadrado. C’è un buco nero in mezzo al campo: Danilo tiene in gioco tre giocatori. Non ha il tempo di pensare alla linea del fuorigioco, ma solo quello di rincorrere gli avversari. È 3 vs 1, quello che a breve sarà il risultato finale. Lazzari è velocissimo e prende al bacio il messaggio del compagno che lo ha servito. Il brasiliano prova a raggiungerlo, ma lui è già davanti a Szczesny. Un tiro pieno di paura, tanto che il portiere neutralizza. Solo che dietro di lui c’era la Provvidenza. Al posto giusto e al momento giusto: stop, contro balzo e tiro di sinistro. La Nord esplode.

Cagliari 1-2 Lazio: 98’

Siamo in terra sarda. Siamo all’80’ e Inzaghi toglie Radu per far spazio al Panterone, con la speranza che non c’è due senza tre. Bisognava almeno pareggiarla. Il tempo passa, forse anche troppo. Tanto che quel match finirà in un turbinio di polemiche. Il mago Alberto pareggia a tre minuti dal 90’ e tutti gli occhi erano puntati sull’uomo del tempismo. Forse si stava chiedendo troppo, ma Caicedo aveva già dimostrato di andare oltre la normalità. Ora il pareggio non bastava più. Si tiene fermo in area di rigore: era una partita fisica e forse poteva trarre vantaggio. Jony crossa e l’ecuadoriano svetta su Pisacane. Nessuno sapeva cosa stesse succedendo, ma Caicedo, come scritto pocanzi, era l’uomo adeguato a cavalcare l’onda del momento giusto. Nelle ultime tre partite su quattro, risulta decisivo per il match, oltre i tempi regolamentari.

Esce la parodia “Amami o faccio un Caicedo”.

Torino 3-4 Lazio: 98’

Una delle partite più pazze. Giampaolo è in cerca della sua prima vittoria e il tabellone recita 3-2 per loro all’88’. Più di un sospiro di sollievo insomma. Caicedo era entrato al 72’ ma non poteva accadere di nuovo, giusto? Al 95’ inizia l’imponderabile: mani di N’Koulou e rigore per la Lazio. Parte Immobile e batte Sirigu. 3-3. Giampaolo perde le staffe: la sua squadra macina tanto, ma poi presenta delle ricadute che possono causare errori irreversibili. L’ultima azione del match: un pallone viene servito dentro l’area di rigore del Torino, grazie ad un fallo commesso ai danni dei biancocelesti a centrocampo. Svetta Durmisi e trova Caicedo, ma è aggredito da 4 giocatori granata. Ma la palla, tra un rimpallo e l’altro, va nell’unica direzione in cui l’ecuadoriano può svincolarsi. Si butta, va in scivolata. Il pallone attraversa il tunnel lasciato da Sirigu sotto le gambe. È 3-4.

Lazio 1-1 Juventus: 94’

Manca davvero poco e Pirlo sta per trovare il primo successo a Roma, dopo quello mancato proprio contro i giallorossi. Caicedo era subentrato a Muriqi al 54’. Le lancette dell’orologio stavano per cessare il loro solito giro, ma l’ultimo pallone, o quasi, ce l’aveva Correa. L’argentino compie un dribbling sullo stretto in mezzo a Bentancur e Cuadrado. Via due. Se ne va dentro l’area di rigore, colpo di suola, e manda a vuoto anche il contrasto di Rabiot. Via tre. Demiral gli lascia troppo spazio, forse anche per paura di concedere un penalty, ma rimane un varco che risulta fatale. Correa serve Caicedo e, con la stessa giocata di Sassuolo, compie una mezza girata come fanno i cestisti, con Bonucci alle spalle e con Szczesny che non ci arriva. È 1-1 al 94’. Chiamatela pure zona Caicedo.

Il dodicesimo uomo

Se i tifosi di solito vengono annoverati con questa accezione, credo che possa esser ascritta anche per Caicedo. Un uomo umile, pieno di risorse. Mai protagonista di sé stesso nemmeno quando i meriti sono i suoi. Mai narcisista, ma un giocatore che mette sempre la squadra davanti a tutti e a tutto, dando il merito sempre a loro.

Fu il primo a pronunciare la parola scudetto, a sfatare quella parola tabù. Tutti ci avevano creduto, loro per primi probabilmente. Poi la pandemia e una rosa corta ha reso infertile un terreno che stava facendo progredire i suoi frutti. Sarà per un’altra volta, anche se questa è molto più complicata.

Il calcio però è strano e Caicedo ci ha insegnato che nulla è impossibile e che tutto è l’esatto contrario. Basta essere quelli giusti e al momento giusto.