Il duemila, il nuovo millennio. Non sempre si ha questa “fortuna” di vivere in mezzo a due millenni. I pluricentenari, addirittura, lo hanno fatto per tre: fine ottocento, tutto il novecento e inizio del duemila. Gli inizi sono sempre stati suggestionati e costellati da numerosissime teorie fakenews, in quanto affermavano che avrebbe portato alla fine del mondo. Senza una teoria apparente, ma solo per scatenare l’inquietudine o il terrore da chi si facesse manipolare da queste voci. E si sa, una strana notizia fa sempre più rumore di una notizia normale. Basti pensare al “cane che morde il padrone”. È una notizia all’ordine del giorno e crea chissà quale clamore. Differente se, in prima pagina, troviamo scritto che “il padrone ha morso il cane”. Sì, sarebbe tutto un altro effetto. Comunque, il nuovo millennio è stato impreziosito anche dalla nascita di giovani talenti. Purificati dall’anno 2000 in poi, sono iscritti all’albo del futuro del calcio. Alcuni stanno attraversando un percorso di maturazione, ma già hanno fatto vedere di quale pasta e materiale sono composti; altri, invece, già si sono affermati su palcoscenici delle grandi occasioni, di quelli abbinati anche al pubblico numeroso.

Quale fabbrica sforna questi talenti?
Sarà un mainstream, è vero, ma il Brasile non cesserà mai di deludere. Sarà perché è scritto nel DNA, sarà perché la storia del calcio ha scelto la fabbrica brasiliana come vettore principale, ma è così. Certo, non sarà come il passato, dove talenti sbocciavano come creazioni mitologiche in cui qualsiasi altro comune mortale li avrebbe guardati dal basso, ma pur sempre un ibrido tra vocazione innata e lavoro. Al calcio di oggi la tattica è fondamentale e anche per i futuri marchi di fabbrica brasiliani sarà così. Anche Argentina e Cile provano a spalleggiare la nazione con capitale Brasilia, ma, seppur ogni tanto qualche creatura viene forgiata, non troverà mai il numero progressivo della prima. Quando l’universo calcistico sceglie, non si può far altro che annuire con la testa e alzare le mani. In Europa, l’Inghilterra, cerca di non badare troppo al talento. Secondo la loro idea di calcio, si può anche non nascere con qualche dote innata, ma la si può acquisire con il tempo, perfezionandola, con l’allenamento e la palestra. In Gran Bretagna, dopo la rivoluzione industriale, le fabbriche non hanno mai cessato di lavorare e, da lì, fuoriescono giocatori, pronti per essere ammaestrati e imbevuti di tecnica. Non a caso, nel 2017, vincono il Mondiale U20 e U17 e un Europeo U19. Per poco non si portavano a casa anche l’Europeo U17, ma la Spagna ha scelto di giocarsela ai calci di rigore e lì, c’è poco da fare, o si è fortunati o non si è fortunati. Eppure, in quell’anno, l’attacco inglese era composto da Sancho, Odoi e Brewester: Borussia Dortmund, Chelsea e Liverpool. Salute!
Tante le nuove promesse, tante le promesse già diventate certezze. Andiamo a conoscere nel dettaglio questa Beata gioventù.

Jadon Sancho, “The Rocket”
25 marzo 2000. La Lazio vinceva il derby e sognava lo scudetto. Nel contempo, “The Rocket”, vide per la prima volta la luce. Il soprannome era dovuto alla sua velocità supersonica. Veniva ben visto da tutti, specie da un certo Guardiola. Sì, perché il ragazzo, aveva un curriculum già bello da fare invidia, visto che presidiava le giovanili del City. Ha iniziato a 7 anni con il Watford, poi a 15 dai Citizens. Un talento, un fiore in mezzo al deserto. L’allenatore spagnolo ne era estasiato: il secondo anno realizzò in 4 partite 12 gol e 4 assist. Una media paurosa che fece tremare i portafogli dei più grandi club, compreso quello attuale, che fece di tutto per trattenerlo. Ha spalleggiato per tanto tempo con Foedon (lo vedremo successivamente), dove quest’ultimo ha trionfato per il posto in prima squadra. “The Rocket” anche per decidere di andare via. Scelta complicata, ma arrivata in poco tempo. Voleva giocare: le gambe, la corsa e il suo dinamismo gli permettevano di scegliere la destinazione che più preferiva. Scelse il Borussia Dortmund e venne acquistato per 8 milioni. Il Manchester United – secondo il Daily Mail - ha offerto 90 milioni di sterline (98 milioni di euro circa), in questa sessione estiva/autunnale. Alla fine ha rinnovato con i gialloneri. Ci fu subito il paragone con Dembele e il numero di maglia – la 7 – alimentò il tutto. Ma Sancho rispose alla grande: non gli importava delle pressioni (non a caso a 12 anni andò a vivere lontano dalla sua famiglia in un convitto), lui rispondeva con i gol: 12 in campionato, 1 in Champions e un altro in coppa nella stagione 2018-2019; in quella successiva, il bottino l’ha portato a 17 in campionato e 2 in Champions e un altro in Supercoppa. Alcuni lo definivano egoista, ma leggere 39 assist in due anni a lascia di stucco anche ai migliori nemici. Il The Guardian, due anni fa, lo inserì tra i migliori 60 giocatori degli anni 2000. Ad oggi, penso che la lista si sia accorciata. “The Rocket” è formidabile. Ala sinistra e piede destro. E che piede. Brucia tutti. Nel dribbling riesce ad andarsene a più persone, a volte anche tre o di più. Un po’ per la velocità e un po’ per la tecnica del dribbling. Pazzesco. E poi ha un destro che canta e fa cantare il Muro giallo e chissà se a breve non sarà quello di un’altra squadra. Progressione, talento e corridore, Jadon, non si ferma e i numeri lo dimostrano. Anche nella corsia di destra, quella non sua, ha fornito una serie di assist che ha portato il conto ad un numero spaventoso. Fa leva anche sulla potenza delle gambe, un po’ come le sfrutta Zaniolo, ma, quest’ultimo, è già anziano per la lista del 2000… Può migliorare nel gioco aereo, ma va bene anche così. Sancho ha compiuto vent’anni in pieno lockdown, mi chiedo tra dieci dove lo troviamo.

Erling Haaland, 194 cm di Norvegia
21 luglio del 2000. Nasceva “Chew chew” o anche “Gastrorobot”, il primo non vivente a nutrirsi di zuccheri e trasformarli in energia elettrica. Diciotto anni dopo nascerà Erica, il primo robot in silicone che condurrà un telegiornale. Comunque, insieme a “Gastrorobot”, nacque Erling Halland. Nacque a Leeds, per poi crescere – anche di centimetri – a Bryne, a Rogaland in Norvegia. Per la prima volta che ha messo piede sulla Terra, suo padre Alf-Inge, giocava nella squadra natale, come difensore centrale. Erling guardava il padre e poi si innamorava del pallone. Avrebbe voluto anche lui, un giorno, tutta quella gente pronta ad inneggiare il suo nome, ma sapeva che bisognava essere pazienti con il tempo e colmi di sacrificio con l’affinazione della tecnica. I centimetri lo aiutavano: già a sei anni era uno spilungone e i genitori lo iscrissero allo Bryne Fotballklub, per poi passare, a quindici, alla squadra più importante del paese: il Molde Fotballklubb. Il gigante delle terre nordiche piaceva, piaceva e come. E, con il Molde, sotto la guida di mister Solskjaer, in 50 presenze riuscì a buttarla dentro 20 volte. Gli osservatori evidenziavano sempre di più il suo nome, fin quando la dirigenza del Salisburgo non fece un’offerta di 5 milioni per portarlo in rosa. Haaland jr. era contento, così come anche Haaland papà, che vedevano la squadra come un ottimo prospetto di crescita. E così fu, perché fece più gol che presenze: 17 contro 16. Segnava ovunque e come voleva: destro, sinistro, al volo, di piatto, a giro, di testa, a incrociare. Haaland faceva impazzire Haaland e anche i tifosi. Per questo passò dopo una sola annata in Germania, al Borussia, dove poi trovò Sancho e i gol assumevano la dicitura dell’infinito. Tra l’altro, in Champions, contro il Genk, si portò il pallone a casa, per poi andare a segno contro Napoli (doppietta all’andata e un altro gol al ritorno) e Liverpool. 6 gol in 3 partite di Champions a 19 anni. Salute pure a lui! Senza dimenticare poi, che, prima di iniziare l’avventura in terre tedesche, nel Mondiale U20, vinse con la sua Norvegia per 12-0 contro l’Honduras. 9 di questi gol erano i suoi… Un giocatore che sa giocare sia di sponda - quindi generoso con i compagni - sia per vie centrali, sorvolando il fuorigioco e cogliendo impreparati gli avversari. Nato nel 2000. Vent’anni appena compiuti e uno strapotere fisico che, con i suoi 87 kg per 194 cm, riesce a vincere quasi tutti i duelli aerei. Come se non bastasse, calcia anche i rigori. La freddezza proviene dalle terre del nord. È dotato di un tiro tecnico e molto teso, in grado si sorprendere molto spesso i portieri avversari. Nonostante il suo peso, è molto abile nella progressione. Inoltre, non solo è generoso con i compagni, ma lo è anche nella fase di non possesso, dove continua in un pressing asfissiante sui portatori di palla avversari (difensori) e sceglie la marcatura a zona nelle palle inattive “nemiche”. Forse non crescerà di più a centimetri, ma di talento sicuramente sì.

Alphonso Davies, il terzino nuovo come il millennio
Il 2 novembre del 2000 il primo equipaggio giunge alla Stazione Spaziale Internazionale. Sulla Terra, invece, nasceva Alphonso, ancora inconsapevole di essere un extraterrestre del mondo del pallone. Buduburam, è lì dove nacque. Precisamente in Ghana, in un campo profughi, l’unica fonte di salvezza dalla guerra civile che si abbatteva in Liberia. Lì, i sogni, non esistevano. Esistevano soltanto le preghiere di non essere vittima di dinamiti o spari che provenivano dappertutto. Alphonso nacque nella confusione, quella confusione che poi riversò nei campi di calcio sugli avversari a distanza di lustri. Per iniziare a sognare, il ragazzo, dovette aspettare cinque anni, quando la famiglia lo iscrisse in una scuola calcio in Ontario, provincia canadese. Queste le parole di mamma Victoria:

“Oggi siamo qui, abbiamo tutto quel che ci serve. Quando eravamo in Liberia per trovare da mangiare dovevamo girare in mezzo ai cadaveri. C’era la guerra civile, avevamo paura di morire. Era pericoloso, era terribile, per questo abbiamo deciso di scappare […] Sono fiera di mio figlio Alphonso. Nel campo rifugiati non avevamo da mangiare, non avevamo vestiti. Ora il Canada, il paese nel quale noi speravamo per salvarci, ripone la propria fiducia in mio figlio per ottenere grandi risultati sportivi. Ad Alphonso ho detto che può lasciarci, lui mi ha risposto che non cambierà mai”.

Il calcio è strano, ma la vita non lo è da meno. Da un momento all’altro può cambiare, così, senza neanche accorgersene. Alphonso, poi, cambierà il calcio e lo farà con record, gol e velocità. Una volta stretta amicizia con il pallone, il giovane, è passato ai Vancouver Whitecaps, dopo esser stato con gli Edmonton e Internationals. Un anno dopo ha firmato, a soli 15 anni, con i Whitecaps FC II, diventando il calciatore più giovane a firmare un contratto professionistico nella lega americana. Qualche mese dopo troverà anche il suo primo gol, entrando, anche in questo caso, nella storia. Poi, un giorno, a bussare alle porte dei Whitecaps FC II, ci pensano gli osservatori del Bayern, per prelevarlo all’età di soli 18 anni, assicurandosi il colpo del ventennio. Un giorno affermò che:

“Quando mi arrivarono le notifiche di Hummels e degli altri giocatori su Instagram, non ci credevo. Poi vedevo la spunta blu e capivo che era tutto vero…”. Sì Alphonso, era tutto vero. La stessa conferma che ti chiediamo noi, quando ti vediamo: “ma è tutto vero?”.

Ala sinistra, imprendibile. Avete presente l’azione contro il Barcellona? Ecco, per questo ci chiediamo se è tutto vero quando dà vita a quelle creazioni. Gioca molto sulla sua velocità e sul suo “andare via” in dribbling, saltando come birilli gli avversari. Sembra uscito da “FIFA” quando sfoggia le sue skills negli spazi stretti, trovando, spesso e volentieri, il tiro dalla distanza. È bravissimo a sguizzare via ai difensori: non solo per la sua rapidità, ma anche per i suoi inserimenti furtivi alle loro spalle, trovandosi a tu per tu con il portiere, che avrebbe fatto a meno di avere un ospite così indesiderato. Bravo anche in difesa e questo non fa altro che renderlo elastico nel modulo. Riesce bilanciare “fase di possesso e di non possesso” egregiamente. Per questo Alphonso Davies è un fenomeno. Alcuni dicono che sia “il terzino giovane più forte al mondo” altri ribadiscono il concetto omettendo l’aggettivo e sostantivo “giovane”.

Vinícius Júnior, con il sogno del pallone d’oro
12 luglio del 2000. Un articolo riportava dei dati inquietanti: 600 milioni di bambini, distribuiti in tutto il mondo, vivevano sotto la soglia di povertà. 12 luglio del 2000, contemporaneamente, nasceva la futura “perla nera” del Flamengo. La passione iniziava già nel grembo materno, poi, si è concretizzata man mano che guardava con i propri occhi di cosa era composta la Terra. Nasce a São Gonçalo, nello stato di Rio de Janeiro, dando i primi calci al pallone nell’Escolinha Fla di São Gonçalo, una delle tante squadre affiliate al Flamengo. Iniziò a quattro anni e, quattro anni dopo, gli scout del club più importante, si mobilitarono per portarlo con loro. Vinicius aveva gli occhi pieni di speranza e di sogni. Aveva la mente pervasa completamente dall’irrazionalità e i genitori dovettero intervenire per rispedirlo sul pianeta Terra. Aveva otto anni e già navigava verso il “Pianeta del Tesoro”. L’irrefrenabilità del ragazzo non poteva più essere contenuta. Straripava ovunque, era un fiume in piena e, i genitori, trovarono un compromesso. Due anni. Due anni per sistemarsi, per valutare la situazione e per comprendere se fosse la scelta giusta per Vinìcius. Sì, era la scelta giusta. Dal Flamengo al sogno Real cominciato nel 2018. Afferma che, tra i 25 e i 26 anni, si vedrà con il Pallone d’Oro. Il conto alla rovescia è iniziato. Un attaccante. Lo si può mettere ovunque, basta che il suo ruolo primario sia offendere la porta avversaria. Nonostante non sia un gigante (176 cm) è abile nel gioco aereo e sa giocare molto bene di sponda, mandando in progressione i compagni di squadra. È abile negli spazi stretti e ama sfoggiare la sua potenza nelle gambe: con la sua velocità, a volte, ci si può solo arrendere. Ama dare ma anche ricevere, e ringrazia spesso i suoi colleghi. Infatti, quando la palla arriva nell’area piccola, riesce a impensierire il portiere, battendolo anche. Riesce a difendere molto bene il pallone, sia che si trova in alto a sinistra che come punta di diamante dell’attacco madrileno. Molto sicuro di sé ed estremamente “iperattivo”: non si lascia scivolare le provocazioni e, spesso, cade nella trappola avversaria. Ha 20 anni, deve crescere. Qualitativamente e caratterialmente. YouTube mandava in homepage i suoi sombreri, in cui una volta riuscì a saltare tre paraguayani con la baby Seleçao. Magari, fra un po’ di tempo, riuscirà a saltare anche i primi posti per il Pallone d’Oro. L’ha detto lui, noi, un po’ di fiducia, gliela concediamo.

Phil Foden, e la benedizione di Guardiola
Mai visto nulla del genere”. Questa è stata l’espressione di Pep, ma ci arriveremo successivamente. 28 maggio del 2000, “tra i due litiganti il terzo gode”. Valentino Rossi, Max Biaggi e Capirossi si contendono il GP. Nel testa a testa meraviglioso, Valentino, è il primo ad abbracciare il suolo. Poi, a capitolare, ci pensa anche Biaggi, concedendo a Capirossi la vittoria finale. Nello stesso istante, come in una vita parallela, a Stockport, nasce Phil Foden. Un orgoglio. Un orgoglio per lui e soprattutto per famiglia. Ha sempre militato tra le fila del City, sempre, sin da 9 anni. L’amicizia con il pallone risale ai tempi dei Reddish Vulcans e poi si è spostato sempre nei Citizens. Già da bambino illuminava gli occhi di lo guardava. Esperti e non esperti; scout e genitori dei suoi compagni. Tutti vedevano nel fanciullo di Stockport la stoffa per diventare grande. E nell’U17, nel Mondiale poi vinto, Foden fece cose incredibili, emozionando i suoi più cari che lo hanno sempre supportato. Lui, ci racconta questo:

“Mia madre era allo stadio e stava piangendo, non poteva crederci. Ero felice di averla resa orgogliosa. Ho chiamato mio padre su FaceTime e anche lui era in lacrime, non l’avevo mai visto piangere prima”, queste le parole di Phil dopo il trionfo mondiale”.

Quelle parole pronunciate da Pep, non sono state messe così tanto per, ma perché il tecnico le pensava veramente. Era “sconvolto” da quello che realizzava quel giovane. Lo disse dopo aver perso un derby di Manchester nel precampionato. Lo penserà sempre. Poi la paura dei tifosi nel perderlo come è accaduto con Sancho. Ma così non è andata, perché a dicembre di due anni fa, lo abbiamo visto sorridente insieme a Pep, al momento della firma. Non si sa chi ne è più felice: Foden o Guardiola? Micidiale nella piattaforma offensiva del campo. Micidiale il suo ruolo da ala destra. Micidiale il tiro di sinistro a rientrare. Sopraffino, superbo. Questo ragazzo è un valore aggiunto per il City e per il mondo del pallone. Veloce, rapido, imprendibile. Con Sancho avrebbe realizzato un duo formidabile. Bravo negli spazi stretti, fantastico in quelli più ampi, dove mette in mostra la sua abilità nella conduzione della palla in progressione. Gli rimane incollata al piede e sembra che non ne vuole sapere di staccarsi. Ha la stoffa del giocatore carismatico, una peculiarità che si porta dietro sin da bambino, quando era sempre il motivatore della squadra e il trascinatore (morale e professionale) del gruppo. Non gli importa di essere alto 172 cm e di pesare 70 kg. Se sei forte, sei forte e la “taglia non conta nulla”, affermerà in un’intervista. Elastico nel modulo, Foden è un giocatore di cui innamorarsi e capace di far saltare l’appuntamento domenicale con la propria ragazza: “Amore, usciamo?”. Mi dispiace, ma alle 17 gioca Foden.

Ansu Fati, il minorenne più forte al mondo
31 ottobre 2002. L’Italia girava con il lutto al braccio. Terremoto in Molise, il crollo di una scuola, numerose vittime. Era un giorno di lacrime e di pianti. E mentre io avevo appena 4 anni, a Bissau, in Guinea, nasceva Anssumane (Ansu è come lo chiamavano i compagni di squadra, ma poi divenne il suo nomignolo). Insieme al papà e al fratello, Braima, si sono trasferiti in Spagna e lì veniva quotidianamente monitorato dagli scout delle altre squadre, tra cui quelli del Barcellona. E, proprio questi ultimi, riuscirono a strapparlo, facendolo crescere ne “La Masia”. Il ragazzo era talmente forte, che non solo impressionava chi gli stava intorno (avversari, compagni, allenatori), ma anche gli analisti che evidenziavano numeri assurdi. Talmente assurdi che, in squadra, giocava con colleghi più grandi di lui di due anni e, a quella tenera età, sappiamo tutti che anche un anno fa la differenza. Lui, eludeva la carta d’identità, e poteva giocare benissimo anche contro chi possedeva cinque anni di più. Poi, verso la fine del 2015, si ruppe tibia e perone. In tanti temettero perfino per la carriera, perché sono punti delicati, e la preoccupazione non poteva non sprofondare nel negativismo. Non solo, ma a questa si aggiunse la sanzione al Barcellona per il tesseramento irregolare di minorenni: in questo modo, oltre che attendere 10 mesi prima di tornare in campo, Ansu, venne sospeso dalla FIFA. Poi, per fortuna – sua e del calcio in generale – ha superato gli ostacoli e adesso supera anche i difensori avversari. A breve, compirà 18 anni, ma, per l’età attuale, lo considero il minorenne più forte al mondo. (parlo per gli avversari): se vi trovate Ansu Fati sulla fascia sinistra e lo vedete rientrare con il destro, beh, evitate che tiri, altrimenti la butterà dentro. Il ragazzo è proprio questo: controllo palla favoloso, dribbling abbinato alla velocità e, quando sembra che stia per perdere la sfera, ecco che arriva il trick di magia, e se ne va. Impossibile gestirlo. La tattica a volte viene messa in secondo piano, perché Ansu decide di abbandonarla e non lo si può biasimare. 68 kg, non il massimo per proteggere la palla, ma quando hai un’ala in grado di scappare a chi lo insegue e che sceglie metterla dove vuole, con un destro che canta (senza dimenticare gli assist pregevoli) c’è poco da proteggere. Date carta bianca ad Ansu, e lui ne farà un ritratto meraviglioso.

Mason Greenwood, un’esplosione di gol
1° ottobre del 2001. Era la fine della benzina super, sostituita da quella senza piombo. A Bradford, invece, era l’inizio di una nuova vita. A casa Greenwood, c’era un fiocco azzurro per celebrare l’arrivo di Mason in famiglia, quello che di lì a qualche anno, sarebbe diventato un giovane pittore del mondo calcistico. Il suo nome iniziò a circolare a Wibsey, nel sud-ovest di Bradford, per una gara vinta. Una gara di modellismo e un premio vittoria di 50 sterline. Poi, però, la gara la fecero gli altri club per accaparrarsi del cartellino del futuro talento. Lui ha scelto il Manchester United. Lo ha fatto sin dalla giovane età di sette anni e non se n’è mai andato. Nemmeno quando i cugini sceicchi del City hanno provato a sfilarglielo. Lui non ha mai tentennato e ha sempre sposato i colori Red Devils. È un frutto sbocciato dell’Academy del Manchester United e ha segnato in ogni categoria: under 15, 17, 18, 19, fino ad essere una scelta per la prima squadra. Una passione per lo sport che è di famiglia, visto che la sorella Ashton era un runner e frequentava la Manchester Metropolitan University. Deteneva anche vari record personali, tra cui un 12,7 secondi sui 100 metri. Chiusa la parentesi familiare, Mason, sin da bambino, possedeva nel DNA l’istinto del bomber: tra U18, U23 e prima squadra, il giovane di Bradford ha registrato 57 gol e 17 assist. Ovviamente bisogna aggiungere le competizioni al di fuori del campionato e che vedono delle partecipazioni europee (Champions ed Europa League) e coppe di Lega. Nato ad ottobre del 2001. Non che sia un 2002 mancato, ma sicuramente un dato da tenere in considerazione. Il ragazzo adesso è titolare della prima squadra e, leggendo la sua carta d’identità, direi che cresce davvero bene. Titolare dell’ala destra della formazione. Il posto non glielo toglie nessuno. Il suo ruolo primario è quello di punta centrale, ma nello schema attuale di gioco, si adatta in alto a destra. E si adatta bene: Mason sa sempre quale spazio è l’ideale per far spiccare le sue doti qualitative, sia in velocità, sia in dribbling. Ecco, quest’ultimi, sanno essere notevoli. Punta l’uomo e se ne va in velocità: chissà, che se non avesse giocato a calcio, non avrebbe seguito la sorella Ashton… Si inserisce bene alle spalle dei difensori e, quando se ne accorgono, è già troppo tardi. Abile, scattante, dinamico e poliedrico lì davanti, Mason, ha già ha il pass da titolare in una grande squadra e il talento non manca. Ora, deve solo possedere la continuità dei grandi, per confermarsi tale. I presupposti ci sono.

Dejan Kulusevski, il giovane raccomandato da Ronaldo
25 aprile del 2000. Dal 1945, in Italia, si festeggia la fine dell’occupazione nazifascista: è la Festa della Liberazione. A Stoccolma, invece, si festeggia la nascita di Dejan. Un giovane che, come tutti gli altri, amava passare le giornate con il pallone, stringendo rapporti sempre più intensi. A notarlo, fu un vicino di casa, il quale disse alla madre di Dejan, che aveva la stoffa per fare il calciatore. Vederlo dribblare, palleggiare, calciare, insomma, era diverso dagli altri ragazzi della sua età. La convinzione di quell’uomo divenne ben presto realtà, anche perché passati quindici anni rispetto a quell’affermazione, ora, veste la maglia della Juventus. Comunque, nel 2006, mentre impazzivamo per i Mondiali di Berlino, si iscrive ad una scuola calcio. Cresce professionalmente nel Brommapojkarna e ci rimane per dieci anni. Tanti, una vita. Quanto basta per essere notato in un torneo estivo da Maurizio Costanzi, il responsabile del settore giovanile dell’Atalanta. Ne rimase innamorato. Dai passaggi, dalle movenze, dalle caratteristiche tecniche del talento di Stoccolma. Dejan era un portento, giocava sia con la squadra dei ’99 che con quelli del ’00. Scendeva in campo sia il sabato che la domenica. Costanzi lo prese con sé e lo soffiò ai Gunners per 100 mila euro. Volò con gli U17 e i numeri confermarono l’acquisto e la predizione del vicino di casa: 22 match e 17 gol nel primo anno e 6 gol e 12 assist con la Primavera. Numeri non banali, ma che evidenziano le eccezionalità di quel calciatore. Nella stagione 2018/2019, Kulusevski vede la possibilità di affacciarsi in prima squadra da Gasperini. Danza tra questa e la Primavera e, proprio in quest’ultima, si laurea campione d’Italia, raggiungendo numeri importanti (23 presenze, 11 gol e 14 assist), nonostante un minore utilizzo. L’anno dopo, viene mandato in prestito al Parma di D’Aversa e lì, esplode definitivamente: 10 gol, 9 assist e, nella prima metà di campionato, contribuisce alla partecipazione della metà delle azioni che hanno portato al gol (46%). Bella figura anche in Nazionale, dove trova anche i complimenti del nuovo compagno d squadra, Cristiano Ronaldo. Sì, perché l’Atalanta lo cede per 35 milioni alla Vecchia Signora. 186 cm per 79 kg. Un carro armato di muscoli, eppure, il controllo palla non è un suo problema e vanta un’ottima conduzione. Ha un mancino tenace, che spesso ha usato con la scusa di accentrarsi a sinistra (gioca in alto a destra). La facilità della palla al piede, gli permette di andarsene usufruendo del suo fisico. Come ala destra, è in grado di ricevere palloni dall’altra parte del campo (utili per i cambi di gioco), oppure, apre la linea difensiva avversaria, allargandola e contribuendo alla superiorità numerica. I difensori, sono consapevoli delle capacità di dribbling di Dejan e, spesso, applicano il raddoppio. Nella fase di non possesso, è ammirevole l’aiuto che offre alla squadra, tornando e cercando il più delle volte di essere di ausilio in fase di ripiego. Il Parma ha occupato moltissimo la zona di centrocampo, sia in fase di palleggio che di non possesso e, Kulusevski, si faceva trovare sempre pronto, sia per la manovra offensiva, sia per quella difensiva. Nel pieno dei vent’anni, occupa l’ala destra della formazione bianconera. Non male.

Eduardo Camavinga, il talento strappato al judo
11 novembre 2002.  "Il fumo fa male, sempre e comunque". Questo è quanto disse l’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. E mentre il fumo uccide, a Miconage, l’amore porta la vita. A veder la luce fu Eduardo. Ma oltre al fumo, anche gli spari di un’arma da fuoco portano alla morte. Già, quella che toccò al nonno di Eduardo, ucciso dai militari locali e che costrinse i genitori - mamma Sofia e papà Celestino - a emigrare a Lille. Un clima totalmente diverso, non solo di freddo, ma soprattutto surreale rispetto a come vivevano lì in Angola. Il primo giorno furono costretti a dormire per strada e, gli anni successivi, vissero in una casa popolare priva di una cucina. Eppure, i sacrifici dei genitori, non hanno mai fatto mancare nulla – almeno di sussistenza – ai tre figli. Dopo due anni, precisamente nel 2005, un’autorità del posto propose alla famiglia di spostarsi e andare nella località di Fougères. Un luogo sconosciuto, ma una casa più grande. Sofia aspettava il quarto figlio e il lavoro di Celestino distava a 200 metri rispetto alla nuova abitazione. Bisognava farlo per forza. Poi, il papà, decise di iscrivere Eduardo a scuola di judo. Il talento c’era, ma la passione no, perché quella volgeva solo al pallone: poster a casa, palleggi dentro la camera, finestre rotte, tanto da costringere la mamma a segnarlo in una scuola calcio - AGL Drapeau Fougères Football – per farlo sfogare un po’. L’allenatore, amico di famiglia, rimase sbigottito dinnanzi alla forza e alla qualità del ragazzo. Anzi, proprio quest’ultimo, un giorno, gli sussurrò di voler giocare nel Rennes. Da desiderio a certezza. Nel 2015 riuscì ad entrare nell’Academy del Rennes e divenne campione di Francia nell’under 17. Il Rennes ha visto da subito le doti di Eduardo e l’ha vincolato sino al 2022, perché tutti lo vogliono. Vogliono quel centrocampista duttile, dinamico, in grado di ricoprire il ruolo da mezz’ala, da regista, in mediana, ovunque. Ovunque va, fa bene. La sua versatilità gli permette, non solo di essere ammirato da tutti gli allenatori (chi non vorrebbe un giocatore in grado di ricoprire qualsiasi parte del centrocampo?), ma soprattutto perché, per la sua età, forse è unico. In una partita con il PSG aveva dato vita al prototipo del giocatore-tipo. 182 cm per 70 kg: solo muscoli, ma “leggero” allo stesso tempo. L’allenatore disse che se avesse dovuto tenere il risultato lo avrebbe messo in difesa, altrimenti, se avesse dovuto segnare, lo spostato in attacco. È del 2002, ed è già richiesto da un’infinità di club.

Ryan Gravenberch, il gigante olandese
16 maggio 2002. Il Belgio è il secondo paese europeo a dire sì all’Eutanasia, mentre un secco “no” è la risposta italiana. Quel giorno, in Olanda, primo paese a dire sì alla morte volontaria, ad Amsterdam precisamente, nasceva Ryan. Un fiocco azzurro non solo in casa loro, ma soprattutto nell’Ajax, la squadra che ben presto lo avrebbe lanciato. Ha mosso i primi passi nello Zeeburgia, una realtà che ha visto realizzare il sogno di tanti fanciulli calcistici. Era da lì che partivano le frecce olandesi. Nel 2010, i lancieri, allungarono l’occhio e, visto che si sbagliano poche volte, anche qui, andarono sul sicuro. All’età di otto anni era già un talento formidabile, per questo non ha mai giocato con il proprio gruppo, ma sempre sotto età. Con l’U17, che poi divenne campione del mondo, mise in mostra quali fossero le sue prestigiosità olandesi, lasciando basiti tutti, perfino se stesso. Con l’U19 ha esordito a 15 anni, un miracolo calcistico direi.

“Chi si unisce all’under 19 a quindici anni è ovvio che abbia qualcosa in più. Come fratello maggiore sono orgoglioso di lui e posso solo continuare a supportarlo e a dargli consigli e suggerimenti. Non è un caso che molti dei migliori team europei siano dietro di lui”.

Queste le parole del fratello Danzell. Anche lui calciatore, ma con un talento minore rispetto al fratello. Come ribadito da lui, non è stato un caso se, a soli quindici anni, ha esordito con gli U19. Il giocatore, poi, affermerà che il suo obiettivo era diventare un titolare di loro e di raggiungere in due anni la prima squadra. L’anno scorso si è alternato molto tra U21 e prima squadra, realizzando in quest’ultima, due gol e un assist in 480 minuti di gioco. Ha battuto anche Seedorf tra gli esordi, un record che apparteneva a lui e rimasto immutano dal 1992. È di Raiola, il timore di perderlo era elevato: poi è arrivato il rinnovo fino al 2023. Non parliamo di una punta o di una seconda punta, ma sicuramente di un ragazzo a cui piace segnare e che di certo non lo nasconde. Un centrocampista deputato maggiormente come mezzala sinistra, ma l’allenatore non si è risparmiato ad usarlo in condizioni più urgenti lungo la mediana. È un gigante di 190 cm e lo dà a vedere durante le partite: si destreggia con una facile progressione palla al piede e vince molto spesso i duelli corpo a corpo. D’altronde, un ragazzone di quella caratura, è difficile scomporlo. Ama andarsene lungo gli spazi stretti e non mostra nessuna difficoltà nel farlo. Come scritto poc’anzi, ama la parte offensiva e lo fa con tiri devastanti dalla distanza: con l’U17 della Nazionale, colpì una traversa - che ancora trema – contro l’Italia. È pericoloso nei duelli aerei e può essere incisivo nelle palle inattive. Deve correggere la componente difensiva, troppo ingolosito nell’offendere; e deve migliorare l’equilibrio nel dispendio di risorse nella gestione dei 90’: infatti, è capitato spesso, di uscire anzitempo, perché le batterie si erano scaricate. Forte, tenace e che non si fa influenzare dai paragoni. C’è chi lo vede come un Pogba in campo, altri come un Seedorf (forse per il record di debutto che apparteneva all’ex Milan), fatto sta che non si scompone, né psicologicamente, né tantomeno fisicamente.

Reinier: nelle vene, scorre il talento dei più grandi brasiliani
19 gennaio del 2002. “Il Signore degli Anelli” sbancava il botteghino. Incassi record e venivano stracciati quelli che appartenevano al “Silenzio degli Innocenti”. A Brasilia, invece, nasceva uno dei giocatori più promettenti di tutto il panorama calcistico: Reinier Jesus Carvalho. Sarà stato perché chi nasce in Brasile non può fare a meno del pallone, sarà perché lì il calcio è più importante della vita, sarà per qualsiasi altro motivo, fatto sta che il buon Reinier, inizia sin da subito a mostrare chi è. Si era trasferito a Rio de Janeiro nel 2011, senza la famiglia rimasta ancora nella capitale, e girovagava fra le squadre brasiliane: Vasco, Fluminense e infine Flamengo, in cui firma un contratto fino al 2021. Soffriva la mancanza del papà, l’uomo che lo ha avviato nell’universo calcistico, e che, l’universo stesso, non smetterà mai di ringraziarlo. Il ragazzo ha mostrato tutte le sue qualità in qualsiasi squadra l’ha avuto: nessun dubbio nel prenderlo ma tanti dispiaceri nel perderlo. I media lo considerano il giovane più forte al mondo e lui si accontenterebbe di ereditare l’1% delle peculiarità di Zizou:

“Zidane non l’ho mai visto giocare, ma da piccolo mio padre mi mostrava i suoi video. Cerco sempre di fare delle giocate come le sue. Se faccio l’1% di quello che faceva lui posso ritenermi soddisfatto”.

Eh sì, perché quando Zizou se ne andava sotto la doccia dopo il rosso rimediato ai Mondiali del 2006, Reinier, aveva appena quattro anni. Di quel giorno, vide solo i filmati. Numeri stratosferici: prima del campionato sudamericano U15 con la maglia numero 10 alle spalle, ha realizzato 30 reti stagionali, agendo come falso nueve. Prima dei 18, il Real, spende più di 30 milioni di euro per lui, facendo stracciare il contratto che lo legava al Flamengo fino all’anno prossimo. Adesso, due anni di Bundesliga al BVB. Una mezzora in due partite già se l’è ritagliata. Nel Brasile è stato spesso impiegato come trequartista. È la zona che più predilige e che più si trova a suo agio. Tira in modo potente e batte anche le punizioni. Sovente, ama andarsene palla al piede. Nella nazionale (non maggiore) è possibile vedere come a volte cerca la giocata personale anziché il passaggio che porterebbe la superiorità numerica. Poi ci pensa lui, ci mancherebbe, ma quel dribbling su 1 o 2 avversari, porta al rallentamento dell’azione. Ma comunque, i margini di crescita ci sono e come. Riesce a difendere in maniera imponente la sfera di gioco, e, grazie alla sua leggerezza e alla facilità di skills sugli avversari, se ne va in modo furtivo. Il controllo palla c’è, ma spesso è ingannato dalla sua dinamicità: deve migliorare anche qui, ma a prenderlo, non lo prende nessuno.

Rayan Cherki, è un 2003 e fa paura
17 agosto 2003. Una delle estati più calde in Italia, si appresta ad abbracciare il decreto salva-calcio. Intanto, il Milan di Berlusconi, si coccola il neo arrivato trequartista brasiliano Kakà, mentre, dalle notizie dal mondo, si viene a sapere di aver liberato i 14 ostaggi europei dal deserto del Sahara algerino. 17 agosto 2003. Pusignan, un piccolissimo comune del dipartimento del Rodano. 3559 abitanti sulla carta. Tra questi, se ne aggiungeva un altro, Rayan. Il calcio come stile di vita. A sei anni inizia a giocare nell’As Saint-Priest, la stessa squadra dove l’ex capitano dell’OL, ha cominciato un feeling mozzafiato con il pallone. Un anno solo, perché dopo diventa per sempre del Lione. A soli sette anni aveva già il nome sulla maggior parte dei taccuini degli scout. Nessuno poteva aspettarsi un exploit di quel genere a quella tenera età: tutti lo volevano e tutti ne erano titubanti. Era difficile prevedere cosa potesse fare un bambino di quell’età. Eppure, il Lione, ci mise poco a crescerlo con sé. Batte ogni record e, nel 2015, precisamente all’età di 15 anni e 33 giorni, diventa il più giovane marcatore della storia della Youth League. Un neo-quindicenne deteneva un primato così importante. Una medaglia d’oro che andava oltre il primo posto. Poi il record è stato battuto da un quattordicenne (ne parleremo in un altro momento) del Borussia Dortmund, Youssoufa Moukoko. Ha giocato sempre con i gruppi più grandi di lui: faceva la differenza lì, figuriamoci nei pari età. Il 19 agosto 2020, nella partita persa contro il Bayern, è stato il più giovane ad aver mai esordito in una semifinale di Champions. All’età di 13 anni c’è stata la paura più grande, quella di smettere. È stato vittima della osteocondrite al ginocchio, una sindrome degenerativa delle ossa, che ne frammenta le estremità e che si verifica, specialmente, nei giovani sportivi, tra i 10 e i 20 anni. Il timore è stato immenso, anche a livello psicologico. Ha avuto il massimo supporto dalla famiglia e dalla squadra soprattutto, che non l’ha mai abbandonato ma che l’ha seguito e incoraggiato dall’uscire da un tunnel così pericoloso. Adesso sta bene, corre, è infermabile. Rayan è pronto ad entrare nel mondo dei grandi. Ah no, già c’è. Nasce come trequartista, ma può ricoprire tranquillamente la mattonella destra o sinistra del campo. Micidiale nelle ripartenze, Rayan, se ne va palla al piede, lasciando sul posto i difensori, senza concedergli la possibilità di inseguirlo. Se ne va negli spazi stretti e, in quelli più ampi, tratta il pallone con grande dimestichezza. Possiede una visione di gioco periferica, in grado di vedere i compagni liberi anche semplicemente alzando la testa e con la coda dell’occhio: caratteristica che lo aiuta moltissimo e che penalizza non indifferentemente gli avversari. Gioca con il destro, ma sa usare alla grande anche il sinistro. Basti guardare il siluro sotto l’incrocio dei pali nella partita contro il City. È sicuro di sé, non sente le pressioni. Potrebbe essere un rischio: Darwin parlava di emozioni fondamentali, ovvero quelle emozioni in grado di farci comprendere i segnali di pericolo e di avvertirci quando una cosa non va come dovrebbe. Forse la “spavalderia” di Cherki potrebbe non è essere un bene per lui e potrebbe non fargli mantenere i piedi per terra. Il problema è che è un 2003, ed oltre che emozionare quando lo si guarda, tutto gira a suo favore.

Sergiño Dest e i 400 milioni sulle spalle
3 novembre del 2000. A fine primo anno del nuovo millennio, un aereo della Singapore Airlanes precipitava con 179 persone a bordo. In Olanda, invece, ad Almere precisamente, Sergiño vedeva la luce del sole. L’amore nel pallone lo si vedeva nei piedi, poi anche nella testa e nel cuore, perché si sa, l’amore vince su tutto. Dest era ed è completamente innamorato di quella sfera che, a sua volta, fa innamorare miliardi di persone. E così, fino al 2012, gioca nell’Almere City, squadra appartenente alla sua città natale. L’interesse dell’Utrecht e Ajax soprattutto, si combina, quando, un anno prima, viene nominato talento del mese e già parte il monitoraggio da parte degli scout. Doveva passare ai lancieri in quell’anno, poi ha avuto diversi problemi fisici che hanno costretto allo slittamento dell’ingaggio. Slittamento, perché prima o poi era destinato a loro. Di fatti, sbarca al De Toekomst. Impiega un po’ di tempo per integrarsi: i problemi fisici avuti qualche mese prima, il corpo troppo esile (sia in altezza che in termini di peso) non lo aiutarono. Poi, però, trovato un equilibrio psico-fisico con sé stesso, Dest, sboccia definitivamente: gioca con gli U17, U19 e realizza 34 presenze con gli U19, totalizzando 4 gol e 5 assist. Infine, la conferma con la prima squadra. Una vita in Olanda, poi, quest’anno, una vita diversa l’approdo al Barcellona: contratto sino al 2025 e 400 milioni di clausola sulle spalle. Sceglie il numero 2, il ricordo di Dani Alves è lampante. Dest è un classico Jolly. Un po’ come alla Bale, può essere impiegato su tutta la fascia destra, anche se con una predominanza nel ruolo di terzino. Proprio in quest’ultima parte, gli piace l’affondo e non sono poche le manovre offensive che ha guidato il più delle volte. Corre e non lo fa a vuoto: con una buonissima conduzione del pallone, è in grado di mettere in grave difficoltà gli avversari, andandosene con rapidità negli 1vs1, creando superiorità numerica. L’altezza non eccelsa (174 cm) non gli permette di vincere i duelli aerei, ma sgattaiolare sulla fascia, beh, quello sì. Adesso è in forza ai blaugrana e, a quest’età, non è cosa da poco, vista la clausola tra l’altro.