L'alberello di fico, in questa primavera che era iniziata siccitosa, aveva messo comunque fuori il suo primo frutto, dacché è nato. Forse speranzoso o forse, ancora, perché le piante hanno una loro saggezza innata. Quasi commovente, per quello che significava, e, stupefatto da quell'inaspettato evento, l'avevo fotografato con qualche difficoltà, appeso ad un ramo interno e nascosto da quelle fantastiche foglie che sembravano enormi, rapportate all'altezza, non certo ancora maestosa, della pianta che le aveva generato.

Cosa c'è di strano in un alberello di fico che in primavera produce il suo primo frutto? Un primo frutto, comunque, è cosa sempre eccezionale, per una pianta. Rappresenta un passaggio vitale nella sua esistenza. Ma lo strano della faccenda, così banale se vogliamo, è che quell'alberello fa parte di un sogno collettivo, durato parecchi anni e da cui i sognanti e combattivi individui, che lo hanno voluto a tutti i costi attraversare, nonostante le vicissitudini personali e sociali degli anni interessati, con il ricambio fantastico di energie e idee che ne hanno prolungato l'esistenza fino al confine più distante possibile (appena ad un ultimo passo dal fargli incontrare la realtà per migliorarla), non avrebbero certo voluto uscire ma condividerlo con gli altri fino a renderlo tanto duraturo da generarne altri e sempre collettivi, mentre intorno si coltiva l'individualismo e l'egoismo sociale.

Adesso è lì, in attesa di essere giustiziato dalle ruspe che con tanta facilità lo strazieranno, fragile e inerme, così come politici, locali e nazionali, insensibili all'idea di un cambiamento realmente ecologista che generasse una speranza collettiva, hanno voluto, pure in un momento in cui una regione alluvionata piange i suoi morti, e con tanti dei sopravvissuti spinti via da case diventate inagibili o definitivamente perdute, in attesa che un'altra redditizia colata di cemento si prenda il posto in cui è nato.

E chi lo spiega, adesso, ai due merli che si erano abituati a stabilire un rapporto con tutte le persone che vedevano girare con una frequenza quotidiana? A volte con il cipiglio improvviso di chi sa dell'inganno consueto di falsi attivisti verdi, ecologisti da campagna elettorale, amministratori politici dall'animo usurato dai veleni del continuo compromesso ad ogni costo, purché redditizio, ma più spesso con il sorriso per quel sogno collettivo che, naturalmente, senza forzare nulla, si andava riempiendo di piante e fiori. Dove potevi, nascosta da foglie e toccata dal sole, vedere qualche lucertola godersi la mattinata attaccata ad una pietra già tiepida, pronta a scappar via se quegli enormi esseri si fossero avvicinati più del dovuto, rapida ed elegante per sparire in una fessura, quasi a lasciare l'impressione che fosse stata solo un gioco della fantasia.

I merli che becchettano quanto di vivo si è creato in questi anni da un suolo un tempo morto e che adesso ha i colori del fiori di tarassaco e quelli speciali e bellissimi della malva. Dove la lattughetta selvatica si alza sfrontata e tenace nel ribadire la sua presenza, l'iperico occhieggia con i suoi fiorellini appena aperti tra l'erba alta e dove tutte le altre piante che neppure conosco, se non ormai per consuetudine, fanno comunità vegetale, con le proprie regole sociali, magari anche con qualche prepotenza e velleità espansionista, rintuzzata velocemente dalle norme democratiche di un prato non condizionato dalla volontà umana, spesso disastrosa e con l'idea di soggiogare lo spontaneismo della natura, non entrandovi in simbiosi ma forzandola con le regole bislacche di chi vuole impartire lezioni senza avere neppure provato a capire e imparare dalla sua eterna saggezza.

Le farfalle, quelle più comuni, color crema, non vedranno i fiori di un futuro, in questo spazio, né lo vedranno le discendenti di quell'altra più colorata, unica per ora, e bellissima, come non ne vedevo da tanti anni. Né si contenderanno con le api, che ormai frequentano il luogo con continuità, i fiori sempre più numerosi che sarebbero nati.

Né noi vedremo crescere gli alberi che non hanno piantato e non hanno voluto che piantassimo noi. Insomma: cemento hanno voluto, con tutta la protervia e l'arroganza del potere spicciolo, che non fa storia ma danni, e cemento hanno imposto.

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Sì, il sogno è durato anni.

Iniziato quasi a metà del decennio che, al cui inizio, per noi interisti ha radicato dolci ricordi, rimasti poi isolati, per la supremazia, durata lunghi anni, dei colori bianconeri, con quella Champions League, che io vecchio preferisco ancora chiamare tra me e me, e impropriamente, Coppa dei Campioni, venuta al culmine di altri trionfi nazionali a formare la magica parola "triplete", la stanno chiudendo ora, a pochi giorni da una finale di champions che vedrà ancora i miei amati colori nerazzurri in gioco, e nel peggiore dei modi.

Ed era nato, il sogno, come quell'alberello di fico, spontaneamente. Durante una riunione di persone che si erano ritrovate in passato a battersi, nelle più svariate forme e occasioni, per l'equità sociale e una vita dignitosa per tutti, soprattutto per chi ha meno possibilità di difesa, si era saputo che, tra le tante colate di cemento urbano, ne avevano previste di monumentali anche poco distante da dove eravamo soliti riunirci.

Una di queste colate, su uno spazio in quel momento occupato da un distributore di benzina con annesso bar e autolavaggio. Da quello spiazzo di asfalto, dove solo in alcuni punti sbucava qualche pianta, si sarebbe passati direttamente ad un cantiere che avrebbe creato una struttura piramidale, di cemento e vetrate, per uffici, come se ve ne fosse altra esigenza.

Così nacque il sogno di sovversione nei confronti di ulteriore e superfluo cemento. Altro suolo pubblico il cui destino sembrava segnato... Sarebbe stato bello, invece, farlo tornare alla vita e accomunarlo ad un altro, gestito da un'associazione di cittadini, “Giardini in transito”, e dedicato a Lea Garofalo, vittima di mafia, che avevano restituito uno spazio, tra via Montello e i Bastioni di Porta Volta, ormai abbandonato all'incuria - dopo essere stato sottratto alla Piccola Scuola di Circo che vi aveva sede, per destinarlo ad un parcheggio multi piano - ad una splendida realtà, ormai entrata nel quotidiano degli abitanti della zona e di quelli di passaggio.

Così, l'idea di quel sogno di nuovo verde e di nuova vita per quel luogo condannato ad un'immensa lapide di cemento, fu condiviso in volantinaggi e chiacchierate con gli abitanti della zona, in tanti pomeriggi di giorni feriali, in tante mattinate festive, raccogliendo firme non virtuali, inchiostro e carta, contatti di persone interessate, sotto i cieli di varie stagioni, conoscendo tante altre persone, pure polemizzando con alcune. 3000 firme per far leva sulle istituzioni. Riuscendo a smuovere poco, perché il cemento ha il suo peso. Ed è alto. Tanto. Troppo.

È così che nacque il Comitato Baiamonti Verde Comune.

Ancora l'asfalto era al suo posto. Come il distributore. Il fico che tra poco verrà massacrato dalle ruspe non era neppure nei miei pensieri perché l'avrei visto sbucare dal terreno, ormai liberato dall'asfalto, anni dopo.

Vado a memoria: ad aiutare, prima, i bandi andati fortunatamente disattesi e, successivamente, nel 2017, al momento della bonifica dell'area, il ritrovamento di mura spagnole e il blocco di ulteriori avanzamenti dei lavori da parte della Soprintendenza (Archeologia, Belle Arti e Paesaggio ???).

Poi, finalmente, alla restituzione da parte della Soprintendenza, l'affidamento temporaneo al Comitato BVC di parte dell'area interessata per attività ricreative, proiezioni, eventi musicali e altro, non a scopo di lucro. Il fico che sbucava dal terreno, nascosto da una pianta più grande, lo adottai ponendo delle pietre intorno, un po' per proteggerlo e un po' per mantenerne maggiormente l'umidità. Forse per gratitudine verso tutti i suoi parenti siciliani che mi avevano sempre regalato bocconi di dolcezza. Lo adottai che mi arrivava all'altezza delle caviglie e adesso che, dopo pochissimi anni, è alto quasi tre metri, ha generato un primo frutto ed è appena robusto a sufficienza per sostenere e proteggere i volatili di passaggio. Lo guardo e non so come salvarlo. E me ne dolgo.

Torno a raccontare ancora qualche tappa. Il punto peggiore, che ha fatto inclinare il piano verso il disastro della scelta tra natura o cemento, fu la decisione del sindaco di Milano di suggerire all'allora ministro Franceschini di farsi carico della costruzione di cui altri non avevano voluto sapere: quella piramide in vetro e cemento, destinata all'origine ad uffici, avrebbe ospitato il “Museo Nazionale della Resistenza”!

Così, da quel momento, a chi, come il comitato Baiamonti Verde Comune, si opponeva ancora ad una colata inutile di cemento e al sacrificio di altro suolo pubblico senza nessuna necessità effettiva, veniva lanciata l'accusa di essere contrari alla memoria dei tanti che hanno dato la vita per gli ideali della liberazione e ai tanti altri che hanno, pure, poi contribuito a scrivere le pagine del dopoguerra e a sanare ciò che era stato lacerato nella fratellanza di un popolo.

Costretti a ripetere che si è a favore di un Museo della Resistenza ma contro altro cemento accumulato dissennatamente, ribadivamo che questo avrebbe potuto essere ospitato in uno dei tanti edifici di proprietà del Comune di Milano, perfino con maggiore dignità che farlo nascere togliendo vita ad un piccolo spazio dove andava ricreandosi autonomamente un ecosistema, piuttosto che forzarlo in una struttura nata per uffici. Si sarebbe potuto piantare altri alberi, anziché sacrificare i grandissimi tigli esistenti, vere fabbriche di ossigeno in mezzo al traffico della zona, per chiamare quello spazio “Bosco della Resistenza”: quella che ha generato la nostra Repubblica e quella che si batte per migliorare il nostro molto compromesso futuro ambientale, soprattutto per i giovani.

Pensando a quanto raccontava Mario Rigoni Stern, delle sue montagne e dei luoghi dove si rifugiavano i partigiani, ho sempre immaginato quella nobile fase storica che appartiene al nostro Paese, molto vicina alla natura. Quasi in concerto con essa. Poi, sentire le parole piccate del presidente provinciale dell'ANPI per queste nostre richieste che mettevano in discussione la costruzione dell'edificio, mentre sezioni ANPI di varie zone di Milano ci avevano portato la loro solidarietà, mi ha in parte sconcertato e in parte deluso. Come la mancata risposta al nostro appello.

La presa di posizione del presidente nazionale dell'ANPI Gianfranco Pagliarulo, con il suo generico appello al buonsenso per fare coesistere la memoria della lotta partigiana e quella, fatta più pressante di momento in momento e proprio in contemporanea con il disastro di una regione alluvionata, della lotta per la tutela dell'ambiente, mi ha lasciato la sensazione che non conoscesse neppure la reale portata del progetto, forse rassicurato dai vertici delle strutture locali.

***

Per provare ad alleggerire la narrazione dirò che mi ha fatto molto piacere, recentemente - quando l'asfissiante assedio era pronto a concludersi tirando via l'area verde, che stavamo difendendo con continui presidi, per fare spazio al nuovo cemento, e i grandi tigli del vicino Giardino Comunitario Lea Garofalo, nonché l'ottuagenario glicine che estende la sua chioma, spettacolare quando è fiorita e comunque sempre imponente, di trecento metri quadrati - che tanti noti interisti hanno risposto, in vario modo, alla raccolta di firme online promossa dall'associazione Giardini in Transito, dal Circolo Combattenti e Reduci, che ospita il glicine, e altre associazioni della zona. L'appello che non metteva in discussione la nuova costruzione, chiedeva di salvare alberi e glicine. Pur avendolo firmato individualmente ed avendo invitato gli altri a farlo, non eravamo tra i promotori, proprio perché metteva in discussione la possibilità di creare altro spazio verde e non si opponeva a nuovo ingiustificato consumo di suolo.

Bene, forse sull'ala dell'entusiasmo per la comune squadra del cuore nerazzurra, magari per avere recentemente conquistato un posto nella finale di Champions League, ho visto un interista come Giovanni Storti battersi a difesa del glicine e contro il consumo di suolo indiscriminato, in appassionati e divertenti video, e a seguire vari componenti del gruppo Elio e le storie tese e giornalisti nerazzurri come Michele Serra e Beppe Severgnini parlarne e fare appelli alla ragionevolezza. Perfino un appassionato e mattoide Vittorio Sgarbi ha attaccato di petto il sindaco Sala, tacciandolo di amare troppo il cemento e di sognarsi le betoniere anche di notte... e qui devo purtroppo ammettere che il più grande ostacolo a che questo spazio rimanga sgombro da cemento e venga riqualificato a verde pubblico, vale a dire l'attuale sindaco, è pure lui interista.

Tornando adesso a scrivere con un piglio più serio: l'appello che ha superato la raccolta di 50.000 firme, in un periodo in cui si è restii a farsi appassionare dalla politica, soprattutto durante le fasi elettorali, ha messo in stato di allerta i politici che hanno attenuato i toni, ma non le intenzioni reali e così, il glicine diventato simbolo della protesta, mettendo volutamente in secondo piano la difesa di tutta l'area verde, sembra che verrà potato al massimo e poi fatto ricrescere per farne tettoia all'uscita del museo, anche se, vedendo dov'è il tronco principale e dove coleranno cemento, ho dei dubbi che le escavatrici riescano a non recidere le radici, che devono essere diffusissime, senza uccidere la maestosa pianta. E maestosi sono anche i tigli che si tenterà di salvare, stante ai propositi venuti fuori dall'incontro tra i rappresentanti degli amministratori pubblici e i promotori della raccolta delle firme, ed anche qui il mio scetticismo è altissimo, visto che i nastri che delimitano l'area interessata ai lavori va ben oltre gli alberi e che “errori” possono venire fatti, in questi frangenti.

All'appello di Baiamonti Verde Comune, di presidiare l'area il 29 maggio, quando era previsto il passaggio delle aree interessate dal comune al ministero, hanno risposto in circa centocinquanta, duecento persone - tra cui un Giovanni Storti, richiestissimo dalla stampa e dalle tv presenti - con la voglia di non farsi sottrarre un altro pezzo di spazio pubblico. Quel giorno, forse per la numerosa presenza di persone all'iniziativa, il previsto passaggio sfumò, e, tra un girotondo sull'area da salvare, un canto resistente come “Bella ciao” e i vari interventi in cui si ribadiva anche la difesa per quella e le altre aree verdi interessate al consumo insensato di suolo pubblico, la giornata si chiuse, tra divertenti chicche musicali e un improvvisato e frugale buffet, tra la soddisfazione per tanta solidarietà e la maggiore preoccupazione per l'imminenza dell'inizio della devastazione.

Ieri, mentre le forze dell'ordine erano presenti a controllare che i lavori di chiusura dell'area si svolgessero regolarmente e mentre quello spazio, che ormai mi ero abituato a frequentare quotidianamente, insieme al resto di sorelle e fratelli di questa famiglia di resistenti formatasi nel tempo, veniva sottratto alla comunità, provavo tanta amara rabbia nel vedere che i due merli, all'iniziale stridio del nastro che tagliava il metallo, si allontanavano precipitosamente, mentre una lucertola s'infilava sotto un pezzo di legno e spariva.

Lasciare alle spalle il fico, ignaro del suo destino, non è stato facile.

Il ritorno a casa con il peso di una sconfitta così, per tanta parte dovuta all'ottusità, è inenarrabile.

La lotta per salvare quel piccolo ecosistema in continua evoluzione è conclusa...

***

Oggi, il fico era ancora lì, nell'area ormai resa inaccessibile. Solo alcune farfalle potevo vederle da fuori. I merli, probabilmente, stavano becchettando fuori dalla mia vista.

Che rabbia doverli perdere per sempre!

La lotta continua!

 

 

Calatino-a-Interland