“Dedico questa storia (vera) a coloro che, come me, credono che chiunque possa essere un eroe, almeno una volta nella vita. Anche un bancario!!”.

Chi è di Milano conosce certo il Giambellino e il mito che lo circonda da sempre.
L’espansione industriale del secolo scorso, con l’arrivo di molti lavoratori italiani di ritorno dalla Francia, ha stratificato in questo popoloso quartiere periferico un “humus” umano - persino un linguaggio – del tutto particolare, arricchito poi negli Anni Sessanta dagli emigrati meridionali, i cosiddetti “terruncielli”, portati alla ribalta da un noto comico milanese.
Accanto a questa composita umanità, Il Giambellino ha visto anche, in tempi più recenti, insediarsi nella fascia Soderini – San Gimignano una borghesia medio-alta, le cui residenze signorili sono sorte a poca distanza da quelle del rione popolare.
Il Giambellino è conosciuto come uno dei quartieri storici della malavita cittadina, segnato dal traffico di droga e dal brigatismo negli “anni di piombo”. La mia storia trae spunto proprio da questa sua fama e si ambienta negli anni in cui il variegato mondo della “mala” veniva cantato in modo romantico da Giorgio Gaber.

Nel quartiere, la banca in cui lavoravo all’epoca ha sempre avuto una storica agenzia, affacciata all’angolo tra piazza Frattini e via d’Alviano, proprio al confine tra quella che un tempo era la zona delle bische a cielo aperto di piazza Tirana e l’area signorile, che si estende tuttora lungo la via d’Alviano. In quei giorni lontani ero un giovane di belle speranze, impiegato da pochi mesi, sognatore e un po' guascone. Non a caso tifavo già per il Milan, che in quegli anni vinceva il suo ottavo scudetto e la sua prima Coppa dei Campioni !!
Ero convinto che, prima o poi, mi sarebbe capitata l’opportunità di mettermi in luce, ma non sapevo che proprio quell’agenzia me l’avrebbe offerta. Quando vi entrai per la prima volta ne fui un po' intimorito. Mi sembrava che lo sportello fosse dislocato in modo da consentire una fuga troppo facile per chi volesse rapinarla. Anche la “fauna” che frequentava i locali della zona (fra cui il mitico bar del Giambellino) non sempre era raccomandabile. Per di più, dopo pochi giorni che lavoravo a piazza Frattini qualcuno mi fece sparire la “vespa” acquistata con il primo stipendio e con cui andavo in ufficio. Ricordando la vicenda del Cerutti pensai avessi già pagato il mio personale “scotto” al quartiere.

I colleghi in agenzia erano davvero eccezionali e mi spiace che, visti gli anni trascorsi, fatico a ricordarmeli tutti.
Dei personaggi di questa storia ho però ben presente il volto e (qualche) nome. Invito gli altri che sono stati testimoni dei fatti a non volermene. Mi piacerebbe andare a prendere un caffè con loro per ricordare quanto oggi mi sfugge.
Il Capo Ufficio, uno della “vecchia guardia”, si chiamava Marziano. Era afflitto da un fastidioso tic che lo portava ad ammiccare sempre a tutti quelli che incontrava. Questa caratteristica, accoppiata alla sua affabilità, lo rendeva simpatico a tutti. Carlo, il primo Cassiere, godeva di grande autorevolezza perché si diceva “quadrasse” sempre al primo colpo. Era affiancato da un secondo più giovane, meno esperto ma molto comunicativo, che amava sempre prendersi gioco di tutti e far bisboccia. Era lungo e allampanato, forse per questo lo ricordo solo con il soprannome di “Smilzo” che gli avevo assegnato.
C’era poi Silvia, la Terminalista: in quegli anni si era appena passati dalla “telebanda” al “terminale” e Silvia era esperta delle nuove tecniche di registrazione. Come Carlo, anche lei era affiancata da una collega giovane e meno esperta di cui ricordo in particolare avvenenza ed occhi azzurri. E’ strano come me ne sfugga invece il nome, benchè all’epoca ne fossi affascinato: per me, come per gli altri, era solo “Principessa”. Altra istituzione era il baffuto Commesso, il “terrunciello” Alfredo. Anche lui aveva un tic: quando parlava, agitava il baffo sinistro (chissà perché solo quello); vi lascio immaginare quando Marziano ed Alfredo si confrontavano (e capitava spesso): ci fermavamo a seguire lo scambio dei rispettivi tic, come fossimo al “cabaret”. C’era infine la Guardia Giurata, un siciliano grande e grosso, tutto d’un pezzo, la cui solerzia ci aveva già messo più volte al riparo dalla visita di malintenzionati.

In agenzia, il percorso dei giovani “impiegati in carriera”, fra cui mi annoveravo, era ben definito. Si cominciava con la gestione di assegni circolari e cassette di sicurezza, posizione ambita perché consentiva di scendere in quella che era soprannominata la “grotta di Ali Babà”. Molti cassettisti commerciavano in preziosi e “pulivano” o “tagliavano” le loro pietre già nel sotterraneo. Dopo il loro passaggio, i tappeti brillavano di queste scorie preziose giustificando così il curioso soprannome. Altro ruolo importante era l’Estero, perché l’incaricato gestiva operazioni importanti con la Sede.
Infine c’era il ”Riscontro”, considerato l’ultimo e più delicato ruolo. Bisognava infatti quadrare la giornata contabile con Cassieri e Terminaliste e risolvere eventuali differenze contabili.
Ho lasciato per ultimo quello che è forse il vero protagonista di questa storia, il “Funzionario Responsabile” dell’agenzia.
Era arrivato da poco, portando una ventata di dinamismo e novità, fra queste ultime l’abitudine a indire periodiche “riunioni plenarie” in cui ci delineava le sue strategie per un’espansione della clientela che, in effetti, era cresciuta sotto la sua gestione. In ogni caso, si era meritato ai miei occhi il soprannome di… “Napoleone” (non andateglielo a riferire - mi raccomando - perché è rimasto un mio caro amico) che è quello che utilizzerò in questa sede.

Quel giorno fatidico affiancavo Nicola al “Riscontro” ed ero impegnato a quadrare per poter poi pranzare con “Principessa”.
Sino ad allora, il “riscontrista titolare” aveva avuto questo privilegio, ma era destinato a lasciare a breve l’agenzia per proseguire la sua carriera in sede ed io speravo di seguirne le orme, sia sul lavoro che con la bella terminalista. Silvia e “Principessa” stavano spegnendo il terminale, Alfredo abbassava la serranda dell’ingresso e Marziano telefonava a casa. La guardia vigilava e tutto sembrava tranquillo.
Carlo mi arrivò di spalle per passarmi le chiusure ed avviarsi, seguito dallo Smilzo, all’uscita del personale, posta sul retro dell’agenzia (vicino ai servizi), quindi non visibile a chi era allo sportello. Ricordo che si erano soffermati entrambi a burlarsi di me perché avevano quadrato in anticipo la cassa mentre io avevo ancora “differenza”.
Dovevano esser giunti all’uscita, quando li sentii imprecare a voce alta e vidi che rientravano entrambi a mani alzate, bianchi in viso, seguiti da tre individui armati ed incappucciati. Seppi in seguito che i banditi, anziché dall’ingresso principale, avevano scelto di attendere la nostra uscita acquattati sul retro per eludere la sorveglianza della guardia.
Vi assicuro che subire una vera rapina a mano armata in banca è diverso che vederla al cinema. I tre malviventi, oltre tutto, non ricordavano neanche un po' Bonnie e Clyde. Marziano, sempre a telefono, non si era accorto di nulla, ed ebbe modo nell’occasione di distinguersi. Si girò con uno scatto di stizza verso il povero Smilzo dicendogli di farla finita con i suoi scherzi, salvo però sbiancare di colpo e levare a sua volta in alto le mani quando un rapinatore gli puntò l’arma in faccia.
Tutti gli altri sembravano aver invece realizzato che era meglio non prendere iniziative. Fummo sdraiati a terra, con le mani sulla testa, mentre i rapinatori roteavano le armi urlando e chiedendo dove fossero il responsabile ed i cassieri.
Carlo, a terra insieme allo Smilzo, vedeva a pochi metri da sé Napoleone con il pulsante dell’allarme vicino. Premerlo avrebbe segnalato l’irruzione al comando di polizia ma anche scatenato la reazione dei banditi.
Lessi negli occhi del cassiere un muto invito al funzionario ad evitare qualsiasi iniziativa ed un tacito assenso di quest’ultimo al riguardo. Cassieri, funzionario e capo ufficio, sempre a mani alzate, si levarono per accompagnare i rapinatori in caveau. Di questi ultimi uno solo rimase nel salone ad aggirarsi nervosamente tra noi impiegati sdraiati a terra, puntando ora sull’uno ora sull’altro la pistola per imporci calma e silenzio. Quanto a me, non riuscivo a staccare gli occhi da “Principessa”, che singhiozzava in silenzio vicino a Silvia. In quei momenti, mi passavano per la mente tante romantiche scene di rapina viste in televisione, ma erano così diverse da quelle che stavo vivendo.

Ci fu un momento terribile in cui sembrò che la rapina degenerasse. Dal caveau giunsero grida soffocate, e lo Smilzo ne risalì insieme ai banditi con il volto tumefatto per un colpo ricevuto. In seguito venimmo a sapere che aveva avuto una reazione brusca perché tardava a fornire la combinazione ed era stato picchiato.
Quando i rapinatori ebbero finito, ci stiparono tutti nei servizi e quello che sembrava il loro capo ci intimò di non uscirne né avvisare alcuno perché altrimenti il “palo” lasciato all’ingresso ci avrebbe fatti secchi!!
Rimanemmo a lungo chiusi lì dentro. Carlo si occupava delle ferite dello Smilzo, Silvia e “Principessa” continuavano a piangere, Marziano non diceva una parola, Nicola sembrava più morto che vivo. E Napoleone? Continuava ad aggirarsi scuro in volto, avanti e indietro nell’angusto spazio, roteando furioso gli occhi, come fosse un leone in gabbia. “Dobbiamo uscire di qui !” continuava a ripetere. Alla fine prese la maniglia e provò più volte ad aprire la porta… senza riuscirci in quanto era stata chiusa a chiave dai rapinatori. Fu a questo punto che si rivolse a noi, fissandoci ad uno ad uno. Eravamo i più giovani (ed incoscienti) dell’agenzia, gli unici che potessero liberarci in qualche modo. Guardando negli occhi “Principessa”, mi resi conto che dovevo esser io a far qualcosa. Gli altri, per motivi diversi, sarebbero rimasti ad aspettare gli eventi. Mi alzai quindi con decisione.
"Ci penso io !” dissi risolutamente. Tutti gli sguardi si rivolsero verso di me, animati da sentimenti contrastanti. Fra tutti io mi persi però negli occhi di “Principessa” che traboccavano di ammirazione.
“Se la porta non si apre, vuol dire che l’abbatterò a spallate!”
“Ne sarai capace?” chiese timidamente Silvia, smettendo per un attimo di piangere.
“E se ci fosse un bandito ad attenderti?” aggiunse trepidante “Principessa”.
“Ce la farò! I banditi a quest’ora saranno lontani - affermai con decisione, simulando una sicurezza che non avevo – però voglio prima che il funzionario mi autorizzi”.
Napoleone si accostò a me, appoggiandomi la mano sulla spalla e guardandomi in un modo diverso dal solito, quasi ai suoi occhi fossi assurto al rango di un eroico ufficiale da mandare all’assalto. “Bravo ragazzo – mi disse solo“… E stai tranquillo per la porta – mi sussurrò a bassa voce – farò in modo che non te la addebitino”.
Lo interpretai come un’autorizzazione. Mi avventai quindi sulla porta e, con un’unica risoluta spallata, la buttai giù, liberando me e tutti gli altri.

L’eco di quanto era accaduto si diffuse nei giorni seguenti in tutto il Giambellino.
Come sempre, si tendeva ad esagerare il ruolo del bancario che aveva abbattuto la porta. Secondo alcuni aveva sfidato il fuoco dei rapinatori, secondo altri li aveva messi in fuga, qualcuno giungeva a dire che aveva persino recuperato la refurtiva.
Da parte mia, chiesi ed ottenni che non si sapesse mai chi fosse stato l’autore del gesto. Non sapevo se i rapinatori fossero della zona e preferii quindi non accentuare il mio ruolo nella vicenda, anche per paura che tornassero a farmela pagare.
In fondo a me bastava la gratitudine di “Principessa”, che in effetti non tardò a dimostrarmi concretamente la sua riconoscenza…
… pranzando con me (cosa pensavate?)...

Ogni tanto vado ancora da quelle parti, a cena o anche solo a prendere un caffè.
Sono passati più di quarant’anni da quel giorno.
A poco a poco, i fatti sono entrati nella leggenda del quartiere, che ne ha amplificato i contenuti e sfumato i contorni.
Qualcuno ha persino modificato il jingle del famoso brano di Gaber.
Indovinate come si chiama ora il “drago” del bar del Giambellino?!